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Cosmonauta

di Claudio Asciuti - 19/09/2009

 

 

Cosmonauta è il lungometraggio d’esordio di Susanna Nicchiarelli (allieva di Moretti e regista di documentari), che accolto alla Biennale di Venezia con sufficienza da critici e media, è risultato vincitore nella sezione “Controcampo Italiano”: a scorno dei suddetti e di tutti quelli che erano troppo impegnati a incensare altri e più paludati “capolavori”. Il film è introdotto da un delizioso corto di animazione, girato sempre dalla Nicchiarelli, con la tecnica del fermo immagine, muovendo fotogramma dopo fotogramma i soggetti di plastilina; e racconta dello Sputnik 5 (la serie che i sovietici chiamavano Korabl-Sputnik) che nel 1958 ospitò le cagnette Belka e Strelka, 20 topolini bianchi, 2 ratti, dopo alcune orbite recuperati sani e salvi. Il corto racconta delle discussioni, tipicamente “sovietiche” fra gli animali: faranno la fine di Laika (la cagnetta lanciata nello Sputnik 2 nel novembre 1957 e morta nello spazio) o verranno recuperati? Uno dei ratti afferma che sarà un ratto sovietico il primo a andare sulla Luna, mentre un ragno “nichilista” e provocatore sostiene che verranno sacrificati tutti; ma in realtà atterreranno tutti felicemente.
La pellicola, sceneggiata dalla stessa Nicchiarelli e da Teresa Ciabatti, ci porta invece nel mondo di allora, seguendo la vita di Luciana (Marina Raschillà, ruvida e capace di improvvise tenerezze), unica ragazzina militante della sezione del Pci del Trullo di Roma, irruente e combattiva, che vive nel mito del padre morto (un comunista di quelli di una volta, come dicono i suoi compagni), assieme alla madre (Claudia Pandolfi), il patrigno (Sergio Rubini) e il fratello Arturo (Pietro Del Giudice lontano e fatato), in cura per l’epilessia, innamorato dello spazio. La vita di Luciana è naturalmente durissima: poco considerata in sezione a causa del suo sesso (quando legge la lettera che vorrebbero mandare a Kruscev chiedendo una donna nel prossimo lancio nello spazio, tutti fanno casino), guardata in modo strano per via del fratello e perchè non veste da signorina e non fa parte delle “ragazzine bene” a scuola; detesta il patrigno, a cui dà continuamente del “fascista” (facendo scambiare, ad alcuni acuti critici, un uomo all’antica, che comunque si è sobbarcato una vedova e due figli e cerca di tirarli su bene, per il “nemico”), la madre, a cui rimprovera la sudditanza ideologica e di ruolo. E’ insomma il prototipo della giovane rivoluzionaria a tutto tondo, e quindi destinata a esser fregata. E in un breve dialogo con l’amica Marisa (la stessa Nicchiarelli), figura di spicco femminile nella sezione e amica del padre, che si rivela questo destino: il volto della donna all’affermazione di voler diventare come lei, che ha rinunciato anche alla maternità per il partito rappresenta perfettamente la delusione esistenziale del militante. Il bildungromance di Luciana prevede comunque l’amore giovanile per Angelo (un bravissimo Valentino Campitelli), e la cotta per Vittorio (Michelangelo Ciminale) una rissa con una compagna di classe e di sezione per causa sua, altri guai fra cui l’incendio di una sezione socialista organizzato con gli amici per punire i “traditori” (impagabile Marisa quando, ai carabinieri che sono venuti a prelevare l’innocente marito sostiene che bisognerebbe cercarne gli autori nella sezione locale del Msi), e infine il sogno infranto: la sua “cattiva condotta” morale (aver avuto due fidanzati..., seppur solo per qualche bacio) fa sì che il viaggio premio in Urss per cui era stata scelta sfumi e venga invece concesso alla figlia di un dirigente. Entrata di soppiatto nella sezione del Pci con l’intento di devastarla per vendetta, incontra invece Vittorio e fa l’amore con lui, ma la serie nera non è finita: Arturo, che già si era distinto per aver cercato di lanciare un razzo fatto di stagnola e fiammiferi (i lettori più anziani ricorderanno questo sport nazionale, anche se in forma minore) ustionandosi un braccio, rimbrottato da Luciana sparisce, salvo poi essere rintracciato dai carabinieri e recuperato da lei in una sequenza molto sobria e breve, ma di forte impatto emotivo, dopo una lunga corsa in montaggio alternato con i cinegiornali sulla preparazione della cosmonauta Valentina Tereshkova. Perchè il film compendia sì anni di storia italiana, ma intervalla il narrato con cinegiornali e i documentari d’epoca (purtroppo mancano i film di fantascienza) che raccontano l’evoluzione spaziale sovietica: dagli Sputnik 1, primo satellite nello spazio, e 2, primo essere vivente nello spazio, cioè Laika, del 1957, lo Sputnik 5 di cui abbiamo parlato (in cui si vedremo le riprese originali dell’interno della capsula... con i topi bianchi a gravità zero!) al programma Vostok, che partito nel 1961 con Gagarin, primo uomo nello spazio, terminerà nel 1963, il volo congiunto di Vostok 5 con Bykovsky e Vostok 6 di Valentina Tereshkova, prima donna nello spazio, terminando nei titoli di coda con le immagini dell’Apollo 11 e lo sbarco yankee sulla luna, come primo sberleffo finale alla fede rivoluzionaria. (Il secondo lo vediamo nel ringraziamento finale alla sezione del Pd che ha prestato i locali, ma è un extratesto). Il lancio della Tereshkova dà un significato particolare all’esser donna di Luciana; durante il brindisi nella sezione che vede tutti i protagonisti riuniti, nel gioco di sguardi fra lei e i due ex-fidanzati, nella presenza di Marisa e delle altre (poche) donne, riscopre la passione politica e comprende al di là dei ruoli sociali e di quelli politici la volontà individuale del singolo. Finendo, come quand’era bambina, assieme al fratello a guardare le stelle e a parlare di astronautica e di politica.
Film politico, quindi, che porta già in sé uno stigma linguistico, la scelta del termine “cosmonauta”, espressione sovietica dell’era kruscioviana, attestata in italiano dal 1961, in contrapposizione al termine occidentale “astronauta”, attestato dal 1937 (fenomeno che ha meravigliato, oggi, altri acuti recensori che forse ignorano che ogni popolo e ogni cultura hanno una loro lingua), ma film che non fa politica intesa nel senso “virtuale” del termine: l’entusiasmo e l’ingenuità dei militanti di allora che occupavano il territorio, vendevano L’Unità porta a porta, dedicavano il loro tempo libero alla politica, con le donne e la loro situazione costretta fra ruoli famigliari e sociali (e che ci fa involontariamente pensare ai tempi odierni, di veline, escort e miss), il “sogno tecnologico bolscevico” del socialismo contrapposto all’american dream del liberal-capitalismo, si infrangono nella quotidianità: sebbene nel film la conquista spaziale diventi la metafora della rivoluzione, è inutile parlarne, dice un militante, la gente vuole le lavatrici...
Quel che manca è l’apertura spaziale (nel senso del territorio) circostante. Si dice che lo scarso budget messo a disposizione della Nicchiarelli sia la causa di questo restringimento dell’immagine, ridotta in primi piani e figure intere senza mai eccessive aperture nello spazio circostante. Dal momento che ambientazioni, costumi e automobili degli anni cinquanta sessanta sebbene facenti parti del modernariato non possono essere che riattivate a prezzi alti, è facile pensare che questa sia una scelta non di poetica artistica, ma di economia spicciola; e d’altronde automobili e ambienti hanno quasi un’aria iperrealista, colti nella loro magnifica forma conservativa, quasi da oggetti nuovi. Comunque, un’ottima opera d’esordio (ce ne fossero) e ben venga il premio a dimostrare che il vero cinema italiano, nazionalpopolare e figlio di una lunga tradizione nell’arte di arrangiarsi, è questo: non i cinepanettoni, i polpettoni storici, le commedie sceme d’amore, i serial polizieschi che nulla hanno a che vedere con i poliziotteschi degli anni Settanta; ma un cinema fatto di idee.