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Il rancore degli infelici verso il mondo è un veleno che sovverte l'armonia dell'essere

di Francesco Lamendola - 25/09/2009


Quello che ci accingiamo a fare è un discorso delicato e che, ne siamo consapevoli, potrebbe ferire molte persone, se non riusciremo a spiegare bene il nostro punto di vista.
La nostra personale esperienza dello spettacolo del dolore umano, ci ha portati alla conclusione che una delle fonti velenose che maggiormente intossicano l'armonia dell'essere, è il rancore che parte delle persone infelici concepiscono e sviluppano contro il mondo - che a loro appare come il regno dei fortunati, dei sani e dei privilegiati -, rancore che coltivano con implacabile perseveranza; e, più ancora, che concepiscono, sviluppano e coltivano i loro parenti e coloro i quali, quotidianamente, devono farsi carico della loro sofferenza.
La società in cui viviamo, a differenza di altre che l'hanno preceduta, ha smarrito sia il senso del limite, sia il senso del mistero; ritiene che, grazie alla ragione e ai suoi strumenti privilegiati, la scienza e la tecnica, tutto si possa fare, prima o poi: anche sconfiggere la malattia e la morte; che tutti abbiano diritto a tutto e che, di conseguenza, se qualcosa viene negato a qualcuno - la salute, per esempio - lì ci si trova in presenza di una intollerabile ingiustizia.
Questa è la ragione per cui la malattia e la vecchiaia, un tempo accolte come parti del disegno complessivo della vita, non vengono più accettate: sono considerate alla stregua di visitatrici abusive e indesiderate, le quali, prima o poi, verranno cacciate dal salotto buono della nostra esistenza e, alla fine - chissà? -, sconfitte definitivamente.
Nelle società pre-moderne, ancora saldamente legate all'essere, e anche nella nostra vecchia società contadina, un bambino nato morto, o che moriva nelle prime settimane o nei primi anni di vita; oppure un bambino che nasceva con qualche malformazione fisica, non provocava scandalo. Era la volontà di Dio; e, per quanto duro fosse accettarla, pure bisognava farlo, perché l'uomo riconosceva di non essere in grado di leggere nei piani divini.
Oggi la morte, e specialmente la morte che colpisce un giovane, un bambino, una partoriente, è vista come una ladra - lo osservava, molto a ragione, Mirko Grzimek -, ossia come un evento che suscita scandalo.
Quanto alle malformazioni, è proibito persino chiamarle per nome: dapprima si è scelto il vocabolo inglese, portatore di handicap, evidentemente ritenendolo più delicato ed asettico; infine si è deciso di ribaltare lo stato delle cose e di parlare di «persona diversamente abile». Dire, semplicemente, «cieco», suona offensivo; bisogna dire, semmai, «persona non vedente»: ma anche questo è sconsigliato, perché equivale a porre l'accento sul difetto.
Così, evitando di chiamare le cose con il loro nome, si crede di esorcizzarle: ma, evidentemente, nessun problema si può affrontare, facendo finta che non esista. Un tempo si tenevano le persone fisicamente menomate, nascoste alla vista degli altri; oggi, all'opposto, si vorrebbe che il mondo si fermasse per far sì che esse godano di tutti i vantaggi di quelle sane.
Si è arrivati all'eccesso. Chi, per esempio, lavora nel mondo della scuola, sa fino a che punto può giungere il rancore di alcuni genitori di figli disabili. In una gita scolastica, per esempio, pur accompagnando il ragazzo in questione almeno in due, questi parenti sono capaci di pretendere che tutti i servizi fisici, dal trasporto della carrozzella sul vagone ferroviario, all'operazione di introdurre il cibo in bocca, vengano eseguiti dagli insegnanti: loro, stanno a guardare e sorvegliano.
Oppure, la mamma di un bambino mentalmente ritardato può irritarsi con  la maestra, perché questa procede con il programma col resto della classe, in modo tale che le distanze rispetto a ciò che può apprendere suo figlio, aumentano sempre di più; allora criticherà il ritmo, a suo dire eccessivo, con cui quella maestra procede, ma guardandosi bene dall'esplicitare la vera ragione della sua scontentezza..
Un'altra mamma potrà arrabbiarsi con un professore che pretenda da suo figlio, disabile, di fare quel poco di lezioni che il ragazzo è in grado di fare: lo accuserà di non capire i problemi, di sottovalutare la condizione di svantaggio del figlio: il quale, come tutte le persone malate, sempre più si abituerà a fare la vittima, per ridurre il proprio carico di lavoro. Quello del ragazzo è un comportamento comprensibile: tutti noi tendiamo a farci scudo delle nostre difficoltà, per alleggerire le pressioni che ci vengono dal mondo esterno. Sta agli adulti il dovere di non permettergli di cullarsi troppo in tale atteggiamento vittimistico, proprio per il suo bene.
Sia ben chiaro che queste dinamiche non si verificano sempre; ma accadono, e più spesso di quel che non si creda.
È evidente che questo tipo di atteggiamento da parte dei genitori e dei parenti, ispirato a una inconscia volontà di punire i sani e i fortunati, nasce dal desiderio di alleviare un poco il proprio dolore, la propria frustrazione, la propria rabbia; e trova il suo terreno di coltura in un contesto culturale ove si tende ormai a parlare soltanto di diritti e mai di doveri o di sacrifici; in cui si pretende che ogni limite cada di fronte all'intelligenza e alla tecnica dell'uomo; che ogni ostacolo venga rimosso, in nome di un malinteso concetto di giustizia e di eguaglianza.
Non  solo. Oltre al rancore nei confronti degli altri, di quelli che - almeno in apparenza - stanno bene e godono di tutte le fortune, vi è, mescolato ad esso, un sentimento ancora più ambiguo, acquattato proprio in fondo all'anima: un sentimento difficile da definire, ma che assomiglia molto all'odio: e, questa volta, diretto non contro gli altri, ma proprio contro la creatura sfortunata che viene giornalmente accudita dai parenti.
Può succedere, per esempio, che una mamma, ancor giovane e bella, sacrifichi all'amore di un figlio svantaggiato tutto il proprio tempo, tutte le proprie energie, in una lotta gigantesca per dare alla sua creatura le cose migliori che la vita, in quelle date circostanze, possa offrirle; e che, nel farlo, si metta in urto contro mille ostacoli e si scagli contro mille individui, accusandoli di incomprensione, egoismo, durezza di cuore.
Può essere, perfino, che quella mamma concentri a tal punto ogni suo pensiero nella crociata in difesa di suo figlio, da trascurare totalmente il proprio marito e il dolore che anch'egli sta vivendo, in quella difficile situazione; e che, di incomprensione in incomprensione, finisca per allontanarlo, magari inconsapevolmente, ritrovandosi sola, ciò che la spingerò ad aggrapparsi ancora più convulsamente ala creatura debole e sofferente che ha deciso di proteggere sino all'ultimo, facendo di ciò la propria ragione di vita.
Ebbene, potrebbe darsi - potrebbe, lo ripetiamo - che, se noi analizzassimo bene i sentimenti profondi di quella madre infelice, finiremmo per scoprire che, dietro la strenua abnegazione a favore del figlio, che l'ha spinta a sacrificare l'intera sua vita, si celi una sorta di odio nei confronti di quel bambino: odio per la sua diversità, per la sua fragilità, ma specialmente per tutto il dolore, l'angoscia e il senso di colpa che la sua nascita e la sua stessa esistenza continuamente le infliggono, senza mai darle un solo attimo di pace o di riposo.
Questo tipo di genitori, evidentemente, non hanno mai accettato il fatto che il loro figlio sia diverso dagli altri bambini; e, soprattutto, non hanno mai pensato che quella, oltre che una dura prova da sopportare, avrebbe potuto essere, per loro, una preziosa occasione per scoprire un nuovo ambito della tenerezza parentale, per porsi in un modo più aperto e fiducioso di fronte alla domanda, che l'esistenza stessa di quel bambino poneva loro.
Certo, non è cosa facile arrivare a vedere la nascita di un figlio disabile, non come una sfortuna o un capriccio della sorte, ma come una possibilità di arricchimento e di crescita spirituale: e, tuttavia, tale è - crediamo - l'unica maniera costruttiva di affrontare una situazione del genere. Né una mamma che ha messo al mondo un bambino sofferente, o disabile, dovrebbe sentirsi una fallita; ciò nasce da una sopravvalutazione dell'ente rispetto all'essere: perché non siamo noi gli autori della vita dei nostri figli, ma solo e unicamente coloro che si prestano a fare da tramite.
Il fatto è che, mentre abbiamo perduto il senso del limite e il senso del mistero - è il dolore è un grandissimo mistero: non un problema, non qualcosa di cui la ragione potrà, un giorno, trovare la soluzione -, abbiamo smarrito anche la fede nella bontà del mondo, nel fatto che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili, come diceva Leibniz.
La maggior parte di noi crede, al contrario, che noi viviamo a caso in un mondo casuale, dominato dal dolore e della mancanza di senso: ed è anche per questo, che stentiamo così tanto ad accettare la presenza del dolore. Se viviamo a caso, allora tanto vale che consideriamo la vita come una passeggiata da cui trarre tutti i piaceri possibili; e tuttavia, siamo obbligati a constatare che essa non è tale, perché andiamo a sbattere continuamente nella sofferenza e nel male.
Può sembrare un curioso paradosso, ma è proprio così: solo l'idea che il mondo non sia frutto del caso, ma di un progetto sapiente e armonioso, può conciliarsi con l'effettiva presenza del male e del dolore: perché solo in questo caso vi sarebbe una forza cosmica, benevola nella sua essenza, capace di trasformare tutto il male e tutto il dolore del mondo nel loro contrario, ossia nel bene e nella gioia.
Se così non fosse, il male resterebbe male, e il dolore resterebbe sempre dolore. Non vi sarebbe alcuna redenzione da essi; non resterebbe che la disperazione assoluta. Altro che piacevole passeggiata! Sono i materialisti, i veri pessimisti radicali, intrappolati nel vicolo cieco delle loro premesse teoriche. Lo spiritualista è molto più realista di loro: perché egli vede benissimo la presenza del male e del dolore, e sa che essi non sono un gioco del destino, ossia un frutto del caso, ma una componente essenziale della vita umana: più precisamente, sa che essi sono l'occasione privilegiata perché l'anima si sforzi di uscire dal proprio torpore, si metta in discussione, lotti per guadagnare un po' di luce.
Con ciò, crediamo di avere indicato anche una possibile via di uscita dall'inferno del rancore, che imprigiona una parte di coloro che soffrono e che sono infelici, e una parte di quanti vivono con essi e sono responsabili della loro vita. Si tratta di spegnere il fuoco della rabbia: e si può provare a farlo solo quando si arriva a comprendere che nulla, a questo mondo, è per caso; che tutto è grazia; e che la prova del dolore o della malattia è, anch'essa, una grazia speciale, che ci viene fatta in vista di un bene molto più grande: la crescita della nostra consapevolezza.
Bisogna tenere conto ancora di due fatti, prima di tentare una conclusione circa il tema che abbiamo deciso di affrontare.
Il primo è che  dolore e infelicità non sono necessariamente sinonimi. Esistono persone sofferenti che sanno, tuttavia, mantenersi serene e persino felici; che conservano in cuore letizia e gratitudine per il dono della vita, e sia pure di una vita tribolata. Viceversa, vi sono persone le quali hanno ricevuto dalla vita ogni dono possibile: bellezza, intelligenza, benessere economico; e che, tuttavia, sprofondano nella oscura voragine dell'infelicità, talvolta fino all'autodistruzione.
Come dicevano gli antichi filosofi greci, noi non siamo tormentati dalle cose, ma dall'opinione che abbiamo di esse: il modo di vivere una determinata situazione è quello che fa veramente la differenza tra felicità e infelicità.
Il secondo fatto è che il moto istintivo di rivolta, che gli esseri umani provano di fronte alla sofferenza, è precisamente il segno che vi è, nella loro natura, l'aspirazione alla felicità, come dato originario e insopprimibile.
Ora, se si tratta di un dato originario, diviene ben difficile tentare di spiegarlo, se non si ammette che noi siamo realmente fatti per la gioia, e non per il dolore; per la vita, e non per la morte. Se fossimo solo il frutto del caso, in un mondo altrettanto casuale, da che cosa nascerebbero il nostro orrore istintivo per il dolore e la nostra eterna aspirazione alla gioia? Solo ammettendo un piano sapiente e armonioso, che trascende la contingenza e si fonda sull'assoluto, noi possiamo spiegare questa contraddizione: così come solo ammettendo che l'acqua esiste, si può comprendere il fenomeno della sete.
Ribellarsi al dolore, perciò, è un moto istintivo dell'anima.
Ma la ribellione sensata non è quella che rifiuta di accettare la realtà e che si trasforma in rancore verso le persone più fortunate; bensì quella che accoglie la domanda posta dal dolore medesimo, e ne fa occasione di un profondo ripensamento esistenziale. Proprio perché il mondo in cui viviamo non è casuale, anche il dolore deve svolgere una funzione necessaria: forse, la vita è l'opportunità che ci viene data per misurarci con la sfida che esso rappresenta.
Come gli alchimisti medievali, noi siamo chiamati a trasformare il metallo vile del dolore nel metallo prezioso della gioia; ma, a differenza di essi, sappiamo bene di non potercela fare da soli. Sappiamo di aver bisogno dell'aiuto di un Altro, più grande di noi.
Sappiamo di doverci abbandonare con fiducia nel seno dell'Essere, dal quale siamo stati tratti all'esistenza, e al quale aspiriamo ardentemente a ritornare.