My Lai, radiografia di un massacro
di a cura di M.F. - 28/03/2006
Fonte: Rinascita
Il villaggio di My Lai era formato da quattro frazioni: My Lai 1, 2, 3, 4 e si trovava nell’area di My Son, provincia di Quang Ngai.
Il mattino del 16 marzo 1968, tre compagnie dell’11a brigata di Fanteria dell’American Division lanciarono un’operazione di tipo “search and destroy” nell’area di My Son. Obiettivo della compagnia C era il 48° battaglione viet cong che - secondo informazioni in possesso del comando USA - aveva base nel villaggio segnato sulle mappe militari con il nome di My Lai-4. Gli uomini sarebbero stati trasferiti sul posto per mezzo degli elicotteri. Sulla zona d’atterraggio non incontrarono alcuna resistenza ed il capitano Ernest L. Medina decise di inviare nel villaggio il 1° ed il 2° plotone.
All’avvicinarsi degli americani, alcuni abitanti tentarono di fuggire e furono eliminati. Il 2° plotone irruppe nella parte settentrionale di Mi Lay-4, scagliando bombe a mano nelle capanne ed uccidendo quanti ne uscivano. I suoi uomini violentarono e trucidarono le ragazze vietnamite, poi raccolsero gli altri abitanti e li fucilarono.Una mezz’ora più tardi, Medina ordinò al 2° plotone di raggiungere il vicino villaggio di Binh Tay, dove i soldati in gruppo violentarono altre ragazze.
Poi radunarono una ventina di donne e bambini: uccisero tutti a sangue freddo. Nel frattempo, il 1° plotone, comandato dal tenente William L. Calley jr., aveva fatto irruzione nella parte sud di My Lai-4, sparando a chiunque tentasse di scappare, passando a filo di baionetta gli altri, violentando le donne, abbattendo il bestiame, distruggendo il raccolto e le case. I superstiti vennero ammassati e condotti vicino ad un canale di scolo. Là il tenente Calley aprì il fuoco sui contadini inermi ed ordinò ai suoi uomini di fare altrettanto.
Vuotarono caricatore su caricatore sul gruppo di civili fino ad abbatterli tutti. Poi miracolosamente, un bambino di 2 anni strisciò fuori dal groviglio dei corpi piangendo. Lo stesso Calley lo spinse indietro e gli sparò. Mezz’ora dopo giunse il 3° plotone. I “soldati” dettero il colpo di grazia ai feriti, appiccarono il fuoco alle case uccisero il bestiame ancora vivo ed i pochi superstiti che cercavano di scappare. Raccolsero infine donne e bambini e li uccisero a raffiche di M16.
Furono assassinate in tutto 172 e 347 persone inermi: vecchi, donne e bambini, Il capitano Medina scrisse nel suo rapporto che erano stati uccisi 90 viet cong e nessun civile. L’ufficio stampa della divisione comunicò a sua volta la morte di 128 nemici, la cattura di 13 sospetti ed il recupero di tre armi! Un giorno come tanti altri in Vietnam.
Le cose sarebbero forse finite lì se due giornalisti (il fotografo di guerra Ronald Haeberle e il reporter dell’esercito Jay Roberts) non fossero stati assegnati al plotone di Calley. Essi erano stati testimoni dell’atroce ed insensata carneficina. Una donna era stata colpita con tanta ferocia e con così tanti proiettili da far volare tutt’intorno schegge delle sue ossa. Sul bambino di un’altra donna morta si era infierito a raffiche di M16. Un altro bambino era stato sventrato a colpi di baionetta. Dopo aver violentato una ragazza, un soldato le aveva messo la bocca dell’M16 nella vagina tirando poi il grilletto. Un vecchio era stato gettato in un pozzo con una granata stretta nella mano; a lui la scelta; morire annegato o saltare in aria. Un bimbo scampato alla carneficina era stato freddato con un solo colpo.
Il sergente maggiore Hugh C. Thompson, pilota di un piccolo elicottero da ricognizione che sorvolava il villaggio, aveva iniziato a sganciare fumogeni per indicare la posizione dei civili feriti da evacuare. E rimase allibito nel vedere che i soldati americani seguivano il fumo e davano il colpo di grazia ai feriti. Poco alla volta la notizia della strage trapelò. Gli uomini della compagnia C annunciarono baldanzosamente una grande vittoria a My Lai. I viet cong distribuirono volantini denunciando le atrocità. Senza troppa convinzione, l’esercito indagò sulle voci circa il massacro, voci che avevano raggiunto anche l’alto comando U.S.A., ma concluse che non c’erano sospetti tali da rendere necessaria l’apertura di un’inchiesta.
Un soldato semplice, Ronald Ridenhour, cominciò ad interessarsi della vicenda a titolo del tutto personale. Fece in modo di incontrare i soldati della compagnia C e in particolare uno, Michael Bernhardt, che si era rifiutato di prendere parte al massacro. Con l’avvicinarsi del congedo, l’euforia degli uomini della C riguardo alla “grande vittoria” di My Lai si stava raffreddando e molti cominciavano a chiedersi come avrebbero potuto tornare alla vita civile con questo peso sulla coscienza.
Sapevano di non potere avviare alcuna azione senza rischiare un’accusa di omicidio, ma erano disposti a parlare con Ridenhour. Questi raccolse le loro testimonianze, ma comprese che se le avesse prodotte agli organi competenti dell’esercito, il tutto si sarebbe concluso con un’altra affrettata indagine ed un’altra insabbiatura.Tornato in patria, alla fine del turno di servizio, sentì che non poteva ignorare quanto aveva saputo. Scrisse una lettera nella quale elencava tutte le prove raccolte e la spedì a trenta esponenti politici.
Il rappresentante dell’Arizona al Congresso, Morris Udall, fece pressioni sull’esercito perché Ridenhour fosse interrogato. Sei mesi più tardi - circa diciotto dal massacro - il tenente Calley fu accusato di omicidio. Nel corso di un’intervista Calley affermò: “Consideravo i comunisti come i sudisti consideravano negri.
Per quanto mi riguarda, l’uccisione di quegli uomini a My Lai non è stata un’ossessione. Non uccidevo, non avrei potuto uccidere, per il piacere di farlo. In realtà, non eravamo andati a My Lai per uccidere esseri umani. Eravamo là per uccidere un’ideologia rappresentata, come dire, da simboli, bolle d’aria, pezzi di carne. In particolare, io non ero andato a My Lai per annientare esseri intelligenti. Ero là per distruggere un’idea.
Personalmente, non uccisi un solo vietnamita quel giorno. Voglio dire io in persona. Rappresentavo gli Stati Uniti d’America. Il mio paese.”
E quello che aveva fatto era forse peggio che sganciare una bomba da 250 kg su un’area abitata o arrostire civili con il napalm? A Hiroshima e Nagasaky le bombe atomiche non avevano ucciso anche donne e bambini? Non aveva commesso niente di peggio del generale Sherman, durante la guerra civile americana, nella sua marcia verso il mare.
La “saggezza” del tempo era riassunta in questa frase: “L’unico modo per mettere fine alla guerra del Vietnam sarebbe quello di far salire tutti i “Charlie” su barche, portarle in alto mare, e dopo aver ucciso tutti affondarle.” Il 12 dicembre 1969 L. Mendel, presidente della House Armed Services Committee, ordinò un’approfondita inchiesta sul massacro che venne condotta dal senatore F. Goward Herbert e dal senatore Leslie Arends. Il processo contro Calley divise il paese in due fronti contrapposti.
Chi era a favore della guerra sosteneva che egli aveva fatto il suo dovere. I pacifisti affermavamo che Calley era unicamente il capro espiatorio, che massacri come quello di My Lai avvenivano tutti i giorni e che sul banco degli imputati dovevano sedere Johnson, McNamara e Westmoreland. In effetti, - a parte My Lai - fra il 1965 ed il 1975, il personale dell’esercito americano fu riconosciuto colpevole di crimini di guerra 78 volte: soltanto in 36 casi, che coinvolsero 61 persone, si ebbero condanne. In tutto, 201 membri dell’esercito furono condannati per gravi offese ai danni di civili. Anche 90 marines furono condannati per gli stessi motivi, ma i dati dei marines non distinguevano fra i crimini commessi nell’esercizio delle funzioni e quelli commessi “fuori servizio”.
Un sondaggio d’opinione rivelò che l’80% degli intervistati era contrario alla condanna di Calley. La giuria si ritirò in camera di consiglio il 16 marzo 1971, terzo anniversario del massacro di My Lai, e vi rimase per due settimane. Riconobbe Calley colpevole dell’omicidio di almeno 22 civili e lo condannò ai lavori forzati a vita. In seguito, con la revisione del processo, la pena fu ridotta a 20 e poi a 10 anni. Fu infine liberato sulla parola il 19 novembre 1974, dopo tre anni e mezzo trascorsi agli arresti domiciliari: meno di due mesi per ognuno degli omicidi di cui fu riconosciuto colpevole e meno di quattro giorni per ognuno dei civili uccisi quel giorno a My Lai.
Le accuse di omicidio premeditato e di comando di azione illegale mosse contro il suo superiore, il capitano Ernest Medina, furono derubricate a quelle di omicidio colposo involontario per non aver esercitato il necessario controllo sugli uomini ai suoi ordini.
Niente affatto convinta che Medina fosse a conoscenza di quanto stavano facendo i suoi uomini a My Lai, la giuria infine lo assolse. Le accuse (fra cui quella di aver violato le leggi e le consuetudini di guerra in base ai principi stabiliti durante il processo di Norimberga del 1946) furono estese ad altri 12 ufficiali e soldati.
A subire il processo furono soltanto cinque e nessuno fu comunque condannato. Una dozzina di ufficiali, fra cui il comandante della divisione, il generale Samuel W. Koster, furono accusati di aver insabbiato la prima inchiesta sulla strage. Nessuno fu condannato.
Lo stesso Calley non si riteneva né peggiore, né migliore della maggior parte dei soldati e degli ufficiali che, avevano prestato servizio in Vietnam: “Ero come un boy scout e mi attenevo al “Manuale degli Scout”, disse.
Egli è rimasto convinto di aver fatto il suo dovere verso Dio ed il suo paese, di essere affidabile, leale, disponibile, amichevole, cortese, gentile, ubbidiente, allegro, valoroso, coraggioso, pulito e disciplinato. Eppure a My Lai furono trucidati civili. 100 trovarono la morte in un canale di scolo. Uno di loro era un bambino d 2 anni.