Private equity fund: una fama da avvoltoi
di Pietro Romano - 28/03/2006
Fonte: Rinascita
Apparvero alla metà degli anni Ottanta. E “Business Week”, il principale settimanale economico americano, titolò “Barbari alle porte” la copertina del numero in cui raccontava l´azione dei primi Private equity fund, lanciati alla conquista del gruppo alimentare Nabisco, che spacchettarono e sminuzzarono in nome del massimo profitto.
Venti anni dopo, il vice-cancelliere tedesco Franz Muterfing li ha definiti “locuste”: come le locuste divorano, secondo l’uomo politico, tutto quanto trovano davanti. Dall’esordio anglosassone allo sbarco europeo in grande stile, i Private hanno accumulato tutta una serie di appellativi scarsamente appetibili, il più gettonato dei quali è quello di “avvoltoi”: arrivano sulla preda nei momenti di difficoltà finanziaria, iniettano capitali freschi, aspettano che i bilanci siano tornati alla normalità (sia pure solo apparente) ed escono rapidamente dal capitale. Portando a casa, di solito, un cospicuo guadagno e lasciando sul terreno solo carcasse spolpate.
All’assalto dei Paesi poveri
La storia passata dimostra di che cosa sono capaci i più agguerriti gestori. Un esempio per tutti? Quello dell’Elliot Fund, in grado di andare all´assalto di Paesi in difficoltà e metterli alle corde. Nel ´96, questo Private ha acquistato sul mercato secondario - approfittando dei venti di crisi che spiravano sul Perù - titoli statali per 20 milioni di dollari, pagandoli suppergiù la metà del loro valore. Tre anni più tardi, il Private ha citato il governo di Lima, nel frattempo uscito dalla fase peggiore della crisi, chiedendo - e ottenendo dalla giustizia e dalle organizzazioni internazionali - il pagamento dei titoli a prezzo pieno, gli interessi e una sorta di premio per complessivi 58 milioni di dollari. Stesso copione questo Private ha recitato con Ecuador, Panama, Polonia, Costa d´Avorio, Turkmenistan e Congo.
Una tattica sfruttata con successo anche da altri “player” del Private, come Em Limited. Proprio a quest´ultimo, però, di recente la gustizia internazionale ha dato torto su un procedimento del genere sollevato nei confronti dell’Argentina.
Ma ci sono anche i salvataggi
Insomma, non si può dire che nel complesso, i Private equity fund non abbiano meritato la cattiva fama di cui godono. Anche se, va ammesso, sui giornali finiscono soprattutto i casi più eclatanti e meno esaltanti. Esistono professionisti del settore che, lavorando nell´ombra, hanno preso le redini di società che navigavano in pessime acqua e, sia pure con una cura a base di lacrime e sangue, giustificata dal loro apparire come l’ultima ancora di salvezza, ne hanno evitato il fallimento. Altri hanno rischiato pesantemente in proprio, collezionando obbligazioni spazzatura e, talvolta, trasformando le società che le avevano emesse in autentici gioielli. Ricavando di conseguenza anche cinque volte l´importo dell´investimento. Storia e storie a parte, ora che i Private sono giunti in forze anche in Italia, è il caso di interrogarsi su questo strumento finanziario evitando di caderne nelle spire pubblicitarie ma anche di demonizzarlo, come se bastasse a tenerlo lontano dal sistema socio-economico.
Cosa sono questi Private equity fund
Prima di tutto, va sottolineato che i Private rappresentano uno strumento diverso dagli Hedge fund e dai Venture capital fund. Tutti rientrano tra i cosiddetti strumenti alternativi, la cui definizione è già nebulosa di per sè.
In letteratura, fino a qualche anno fa, non era rintracciabile una loro definizione precisa e anche gli studi più recenti sembrano annaspare. Si tratta, all´ingrosso, di un impiego caratterizzato da alte potenzialità di rendimento correlate a maggiori rischi, alta volatilità dei ritorni, eterogeneità di obiettivi.
Ora l’Hedge è il fondo speculativo per eccellenza: utilizza particolari (e non sempre ortodosse, sia pure lecite) strategie di copertura, è libero di scegliere l´oggetto e i modi di investimento. Il Venture è un fondo comune specializzato nella fornitura di capitali necessari a sostenere e lanciare imprese ad alto livello tecnologico e considerevole potenziale di sviluppo. Il Private è un fondo comune che investe, particolarmente in piccole e soprattutto medie imprese, durante periodi critici della loro vita: acquisizioni, fusioni, passaggi generazionali.
Il Private, quindi, potrebbe rappresentare uno strumento di politica industriale, promozione della ricerca, rafforzamento dei distretti, promozione della internazionalizzazione.
Ma il Private è sempre più Hedge...
Fin qui la letteratura. La realtà è ben diversa. Lo notava, a metà febbraio, il settimanale britannico “The Economist”, ammettendo che la linea di divisione tra Private ed Hedge, per esempio, sia sempre meno distinta, perlomeno sui mercati anglosassoni. Ma, si sa, quanto capita oggi a New York e Londra potrebbe capitare domani in Italia, per cui bisogna essere avveduti. E comprendere che l’investimento nei mercati più liquidi nel brevissimo periodo, tipico degli hedge, talvolta può essere caratteristica dei gestori di Private, così come la chirurgia societaria (spezzatini aziendali, rivoluzioni ai vertici) ormai può essere adoperata dai gestori di Hedge. Di sicuro c´è che la discesa in campo delle due fazioni è destinata a provocare scintille qualora la preda sia la medesima.
Numeri capaci di sconvolgere il mercato
I numeri del Private sono in grado di sconvolgere i mercati. Nel corso del 2005, il totale di fusioni e acquisizioni ha raggiunto nel mondo i 2100 miliardi di dollari. Di questi un quinto (circa 340 miliardi di euro) ha coinvolto i fondi di Private in qualità di compratori o di venditori. Nel nostro Paese, secondo Kpmg - che censisce le fusioni e le acquisizioni superiori ai 10 milioni di euro - lo scorso anno questo genere di operazioni, con un Private coinvolto, ha toccato un controvalore di 6,5 miliardi, di cui la metà ha avuto come protagonisti i fondi italiani, inclusi quelli italiani solo di nome in quanto fondi specializzati sull´Italia di operatori esteri. Per compiere azioni sul mercato italiano i fondi dispongono di circa 10 miliardi di euro, che, mediante la leva finanziaria in grado di attivare, diventano da 40 in su.
Si tratta di risorse imponenti. Il problema è capire chi e come vuole utilizzarle, soprattutto in prospettiva, e con quali effetti sul sistema-Paese. I Private, appunto, gestiscono enormi capitali: se li investono negli stessi comparti, possono generare bolle speculative. Spesso, inoltre, sono costretti a prendere denaro a prestito: ora che il tempo dei tassi bassi pare finito, possono essere soffocati da questi vincoli finanziari, essere costretti a vendere al meglio, essere coinvolti in dissesti finanziari dall´effetto-valanga.
I limiti della ingegneria finanziaria
Peraltro, lo notava di recente il quotidiano britannico “Financial Times”, le mirabolanti promesse nascoste negli spezzatini aziendali da parte dei gestori di Private spesso non si realizzano: l´ingegneria finanziaria, in tempi di competizione globale, sta mostrando i suoi limiti. Né c’è da fidarsi ciecamente nei report di banche d’affari, analisti, società di consulenza: l’esperienza insegna che la commistione dei ruoli sui mercati finanziari non è rara e la deontologia non è merce a buon mercato.
Come se non bastasse tutto ciò, ad accrescere la potenza di fuoco dei Private, ma anche la loro pericolosità diretta e indiretta, cominciano ad apparire sul mercato le prime cordate di fondi. E’ di qualche tempo fa l’offerta alla Vnu, il gruppo olandese proprietario della AcNielsen, la maggiore società di ricerche di mercato al mondo, da un pool di sette Private, che hanno messo sul piatto qualcosa come 7,3 miliardi di euro.
I sette fondi sono tutti statunitensi. Rimane quello d’oltre Atlantico, del resto, il mercato più ricco e più redditizio per questo strumento: l’anno scorso - secondo la Thomson Venture Economics e la National Venture Capital Association - le società a stelle e strisce attive nel Private hanno raccolto oltre 200 miliardi di dollari e hanno ottenuto rendimenti medi del 20 per cento.
Cosa cambia in Europa
Se è vero, però, che il Private non si attiene alla messianica letteratura finanziaria è anche vero che non ci si trova di fronte a un monolite. Stanno cambiando, prima di tutto, gli investitori. Ai raider americani, soprattutto in Europa, si sostituiscono grandi famiglie in vena di diversificazioni. E´ il caso dei Quandt, gli azionisti di maggioranza della Bmw, il cui patrimonio è quantificato in 20 miliardi di euro, tra i principali sottoscrittori del fondo americano Auda, finanziariamente opportunistico ma non ascrivibile alla categoria degli “avvoltoi”.
In Italia tra i maggiori sottoscrittori di Private ci sono alcune delle principali banche. I Private non sono dei totem. La loro attività rappresenta solo una componente del mercato: può essere imbrigliata, in quanto non si tratta di una leva autonoma dal contesto finanziario, sociale, politico, legislativo in cui opera.
Nella stessa Germania non è che si sta comportando davvero e dappertutto come una locusta. In Germania, per esempio, quando arrivarono per fare incetta di crediti dubbi di imprese tedesche da banche nazionali o da filiali di istituti esteri, i Private giustificarono la loro azione dirompente asserendo che era il sistema germanico a essere obsoleto e loro volevano solo concludere buoni affari disboscando una selva di rapporti anti-economici consolidati tra gli attori, diretti e indiretti, del mercato.
Uno dei maggiori gruppi di Private al mondo e di sicuro quello che è intervenuto più massicciamente in Germania, con 11 miliardi di euro investiti e l´acquisto della Ahbr, la quinta banca nazionale specialzzata in mutui e prestiti, è il Lone Star. Ebbene, appena qualche giorno fa, Bruno Scherrer, responsabile europeo del Private, ha sostenuto che, a suo parere, la ripresina eonomica tedesca è frutto anche dell´intervento dei Private che avrebbero costretto aziende, banche, sindacati, risparmiatori ad adeguarsi rapidamente alle necessità imposte dalla competizione globale, di cui i Private sarebbero nel contempo campanello d´allarme e apri-pista.
La peculiarità della Francia
Del resto, è significativo che il Paese europeo, Regno Unito escluso, dove la presenza dei Private è più massiccia sia la Francia. Ma in Francia i Private hanno lavorato soprattutto in partecipazione con il settore pubblico, attribuendo alla Cassa depositi e prestiti il ruolo di stanza di compensazione dei rischi finanziari e di freno politico alle speculazioni.
Insomma, anche il Private può essere diretto al benessere nazionale. Una strada che, per ora, in Italia non si sta percorrendo, tra idolatria e demonizzazione del mercato. Nel nostro Paese, infatti, in barba alla letteratura finanziaria e alle esigenze socio-economiche, né il Private né il Venture si adattano alla realtà italiana.
Il Venture - che appunto aiuta le aziende piccole e medie ad alto contenuto tecnologico - nel 2005 ha collezionato interventi per un importo inferiore a quello investito in Paesi come la Danimarca e la Grecia. Il Private ha dimenticato le imprese piccole e medie, lasciandole a secco dei capitali indispensabili alla loro crescita. In Italia, infatti, le Pmi coprono una quota di valore aggiunto pari al 72%, il doppio della Germania e della Francia. Eppure, lo scorso anno, le operazioni di investimento diretto nel capitale delle Pmi sono state circa 300, contro le 900 tedesche e le 2mila francesi.