Stranieri nella metropoli
di Caterina Resta - 28/03/2006
Fonte: geofilosofia.it
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La descrizione della città della tarda modernità, luogo dell’estraneità e dell’essere-straniero, come quella esemplare che si staglia in modo possente nelle pagine del Tramonto dell’Occidente di Spengler, molto deve alla celebre analisi simmeliana de La metropoli e la vita spirituale (1). In quel saggio del 1903, Simmel delineava il quadro di una vita urbana in cui l’irreversibile azione dei ritmi di lavoro e dei mezzi di comunicazione aggrega una massa di estranei, costretti alla convivenza forzata in spazi ristretti, in circostanze in cui è impossibile conoscenza diretta e amichevolezza, che, al contrario, funzionano come potenziali inneschi di conflittualità. La prossimità obbligata nel calderone della metropoli mostra fin dall’inizio come, ben lungi dal perpetuare le antiche forme di convivenza o dall’inventarne di nuove, essa produca una nuova forma di estraneità e di avversione: quella “leggera antipatia”, risposta difensiva all’invasività fisica degli altri, non tarderebbe molto a trasformarsi in aperta aggressività. La partecipazione alla polis sembra lasciar posto a una folla di ombre che calcano il suolo artificiale della grande città moderna, quella “madre di tutte le città” (metropoli) che finisce con il vampirizzare tutto ciò che le sta attorno: campagna, natura, provincia, fino a renderne impossibile un’autonoma sopravvivenza. Fine dell’armonioso transito dalle mura cittadine e dagli orti suburbani alla campagna, la logica imperialistica della metropoli moderna è quella dell’illimite, non tollerando altro da sé: «la città concepita come un mondo vicino al quale non deve esistere un diverso mondo» (2). E Spengler vede nel volto vittorioso e fascinosamente tecnologico della “cosmopoli” la cifra stessa del destino della nostra civilizzazione: la maschera funebre dell’estremo sradicamento che, al contempo, consente di sentirsi a casa ovunque e in nessun dove, trasformando i suoi abitanti in cosmopoliti dappertutto stranieri. Essa è l’ultima incarnazione del grande mito fondante dei Lumi, che ormai disvela la logica della sua anima faustiana, l’anelito prometeico dell’Occidente. Il vagare inquieto dell’uomo dei primordi paradossalmente ritorna all’estremo limitare della civiltà: quelle patrie faticosamente inventate, quelle comunità da cui ha tratto identità e protezione, l’uomo d’Occidente le ha dissolte nella sua smania dell’oltre: il Moderno disprezza ormai quel radicamento da pianta nel “paesaggio materno” della cultura, quel legame terraneo che diventa un linguaggio superiore di forme nel paesaggio: «Soltanto la civilizzazione con le sue città gigantesche torna a disprezzare queste radici della spiritualità e si stacca da esse. L’uomo civilizzato, nomade intellettuale, torna ad essere tutto microcosmo, privo di patria, spiritualmente libero come il cacciatore o il pastore» (3). La logica che porta al sorgere delle città è del tutto diversa dall’“anima” dei villaggi: “l’aria della città rende liberi”, poiché il suo spazio si schiude proprio a partire da una radicale separazione dall’ingens silva che la circonda, da quella foresta che ora diviene un fuori minaccioso. Alte mura non basteranno a difendere uno spazio che si sente accerchiato e che perciò corre sempre il rischio di perdere il senso del proprio limite, dei propri confini, nel folle desiderio di tutto comprendere e ridurre a sé, perché nulla, di fuori, possa insidiarne le assolute pretese. «Una volta destatasi, quest’anima si crea un corpo visibile», e quel corpo è destinato a crescere indefinitamente, apparato tecnico che prolifera mostruosamente in protesi e ibridazioni sempre nuove. Il volto della città si estranea allora del tutto da quel fuori che la circonda, non dialoga più con esso, neppure per negarlo, o per viverne anche solo nella fantasia le favolose leggende: semplicemente lo mette a tacere, lo riduce a silenzio inascoltato, sopraffatto da una lingua “rumorosa”, quella, appunto, «delle forme di queste grandi figure di pietra, quale la stessa umanità delle città, tutta occhio e tutta ‘spirito’» (4). Ma se l’azione della città moderna è di aggressione intollerante verso quell’altro – il paesaggio naturale e ciò che in esso di storia e culture si è sedimentato – che dall’esterno potrebbe minacciarla, anche al proprio interno essa assimila tutto a sé. I suoi abitanti, innazitutto: «L’uomo della civiltà, che era stato formato spiritualmente dalla campagna, diviene proprietà e strumento della sua stessa creatura, della città, e infine viene ad essa sacrificato» (5).
Il sacrificio dei cittadini al “colosso di pietra” avviene mediante l’annullamento nell’assolutezza della metropoli. Ma si tratta di un regno disanimato, quel «deserto demonico di pura pietra» nel quale riecheggia l’annuncio tragico del nichilismo nietzschiano; l’immagine della cosmopoli è quella della morte, della rigidezza cadaverica, che non consente identificazione alcuna. La metropoli non è Heimat, non è focolare: è solo la trama dell’economico che ne determina la configurazione, senza più possibiltà di un’appartenenza al luogo, alla tradizione, in un’opera di progressiva cancellazione di ogni memoria. Quelle folle cittadine atomizzate da cui furono così colpiti osservatori anteveggenti come Poe, Baudelaire o Benjamin, sono adesso divenute – come un altro profeta dell’avvenire aveva agli inizi di questo secolo preannunciato – «costruzioni organiche» (6), come immense barriere coralline, innesti viventi di un ingranaggio, maglie di una rete onnipervasiva, il cui disegno complessivo spesso non è neppure presagito. Persino i volti, nella sempre maggiore levigatezza e uniformità dei tratti, annunciano una progressiva cancellazione di ciò che è singolare e unico. Indifferenti. Strappato a ogni radice, condannato a vagare come straniero nell’anonimia sempre uguale delle città, il nuovo tipo umano del “nomade intellettuale” non incontra che stranieri, senta tuttavia considerarli come tali, anzi, con la rassicurante certezza di non incontrare altri che il medesimo di sé. Forse allora non era tanto lontano dal vero Spengler quando, invece di tessere le lodi indiscriminate del cosmopolitismo, ne annunciava gli inevitabili contraccolpi: esso è l’essere morti alle radici e a tutto ciò che è cosmico, l’irrevocabile cadere sotto il potere della pietra e dell’algidezza intellettuale, l’estrema astrazione dall’individuato, dal differenziato, e dunque la fine di qualsiasi appartenenza e identità. La cosmopoli diviene allora quello Stato Mondiale (7) nel quale tutti sono cittadini solo al prezzo di un’assoluta cancellazione di ogni idioma, lingua, comunità, memorie singolari. Il nomade moderno, non a caso, “comunica” attraverso l’unica lingua universale, quella della tecnica, che a sua volta spezza le antiche pietre nell’incessante travaglio cui sottopone la terra e gli umani. Nella cosmopoli è la tecnica a trionfare, senza resti. Il trionfo del gigantismo, emblema non solo apologetico della metropoli, e l’informità-uniformità dei suoi cloni ne sono il sembiante bifronte. Allora, nella città mondiale, non si può che perdersi, nell’impossibilità di riconoscimento di un luogo rispetto agli altri: il mondo è tutto Trude, la disperante «città continua» di Italo Calvino, dove i sobborghi sono uguali a quelli di qualsiasi altra città, stesse «le case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla» (8). I “non-luoghi” di cui parla Augé (9) rischiano di apparire, in fondo, consolatori nella loro ancora delimitata tipologia; in realtà, per quanti aeroporti e voli si possano cambiare, il mondo è fatto di molte Trude, pressoché indistinguibili; anzi, «il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome dell’aeroporto» (10).
Il “perdersi” non è lo spaesamento momentaneo, l’effetto della sospensione degli schemi di riconoscimento di un luogo. Non c’è più luogo, nella dimensione metropolitana per quell’evento singolare e unico che fa di una vita un’esistenza con-divisibile: per questo essa non ha più luogo. E tuttavia, dove altrimenti annunciarsi se non ancora qui? Lì dove, nella sua tracotanza, la cosmopoli infine mostra quell’insanabile contraddizione che ne corrode l’inesorabile logica: quando l’affermazione perentoria di uguaglianza si trasforma nella più violenta negazione di differenze, quando la forsennata apologia del cosmopolitismo si converte in un babelico sicretismo che confonde e omologa ogni tratto singolare in un unico amorfo orizzonte, nel quale sovrana regna solo l’indifferenza.
La cosmopoli di pietra, con «le prospettive di lunghe vie di pietra incassate fra edifici altissimi, piene di un pulviscolo d’ogni colore e di strani rumori» dove anche «gli abiti, gli stessi visi sono intonati ad uno sfondo di pietra» (11), trapassa ormai insensibilmente nella «città di quarzo», pura dimensione del flusso informativo che dissolve lo spazio reale in un istantaneo accadere d’immagini: forse, come è stato prospettato da Paul Virilio, la “cibernetica sociale”, se dissolve lo spazio pubblico della città, tuttavia confermerà l’accentuazione metropolitana del mondo: una città-mondo virtuale indipendente dall’estensione geofisica della Terra, finalmente il prodotto più perfetto di quell’omologazione iniziata agli albori della Ratio occidentale, pervenuta al suo scopo ultimo e fondante, quello di trasformare senza residui in rappresentazione la realtà: è ancora e sempre Cartesio che spunta dietro il sembiante bionico del cyborg, ultima versione della maschera mortuaria delle metropoli moderne.
E tuttavia, se è vero, come ancora sapeva Spengler, che la cosmopoli è destino, ciò vuol dire che essa segna anche un punto di non ritorno. Impossibile dunque appare ogni nostalgia a un prima di essa. Il processo attraverso il quale la razionalizzazione tecnico-scientifica si è imposto su scala planetaria provocando una generalizzata Entortung (12) ha irrimediabilmente estirpato ogni radice, consegnando l’uomo moderno al suo destino di esule e straniero. Ma proprio questo la cosmopoli dimentica: essa ama mostrarsi nell’idolatrica sembianza di una Dimora, di una Casa, promette facili appaesamenti e nuove opportunità di interazioni collettive, mentre invece mai sedato, mai veramente a casa può essere quell’abitante – vera figura di moderno straniero – che l’attraversa. Tragica è la figura di questo Straniero metropolitano, per nulla conciliato, come invece certo nomadismo vorrebbe far intendere, in perfetta adesione a quel nichilistico deserto che descrive. Egli sa infatti di non poter più appartenere a nulla che sia proprio: ma, al limite di questa estrema indigenza, la sradicatezza che lo strappa ad ogni suolo può mostrarsi inconfessabile testimonianza di un altrove che, nell’espropriarlo, pure lo appropria a sé. Nella sua inaudita parola la cosmopoli è ricondotta entro il suo limite, quando non fuori, ma proprio nel suo centro più segreto, invisibile si schiudono quella Wildnis (Jünger), quella Lichtung (Heidegger), che, come oasi nel deserto, offrono al viandante invisibili ripari, tracce sempre sul punto di cancellarsi di quel non-dove verso il quale lo Straniero orienta i suoi passi. Non è forse la poesia una di queste terre promesse su cui poter almeno “poeticamente abitare”?
Note: |
1. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito (1903), a cura di P. Jedlowski, Armando, Roma 1998.
2. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente (1918), tr. it. di J, Evola, Longanesi, Milano 1981, p. 784.
3. Ivi, p. 777.
4. Ivi, p. 783.
5. Ivi, p. 793.
6. Cfr. E. Jünger, L’operaio. Domio e forma, tr. it. di Q. principe, Longanesi, Milano 1981.
7. E. Jünger, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione, tr. it. di A. Iadicicco, Parma, Guanda 1998.
8. I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 135.
9. M. Augé, Nonluoghi. Per un’antropologia della surmodernità, tr. it. di D. Rolland, Eleuthera, Milano 1993.
10. Ivi, p, 135.
11. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., pp. 784-785.
12. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum» (1950), tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991. Per un aprofondimento di questi temi rimando a C. Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma 1999.
Pubblicato in “Anterem”: Eterotopie, 58, 1999, pp. 81-84