Le perle dell’epica indiana: il Ramayana e il Mahabharata
di Fabrizio Legger - 07/10/2009
Tra i capolavori della letteratura indiana antica, affascinante e ricchissima, spiccano due vere e proprie gemme del Parnaso indù, sorto all’ombra del Kailasa, la vetta himalayana sacra al dio Shiva e a suo figlio Ganesh, protettore di scultori e di poeti: mi riferisco al Ramayana di Valmiki e al Mahabharata di Vyasa, i due colossali poemi epici (ma anche filosofici e teologici) che più di ogni altra opera costituiscono la “base culturale” di ogni sincero e devoto indù. Di fronte alla incantevole poesia di questi due poemi, di fronte al fascino, alla fantasia, al misticismo e alla devozione che spirano da questi due pilastri della cultura indù, non è possibile non restarne sedotti: si tratta di due capolavori non soltanto della poesia indiana, ma della letteratura mondiale, e in quanto tali sono stati letti, studiati e apprezzati anche in Occidente.Il Ramayana, ovvero il “Cammino di Rama” è un poema suddiviso in tre kanda (ossia, libri), composti di 675 sarga (cioè, canti), per un totale di ventiquattromila strofe, composto dal grande poeta Valmiki tra il I e il II secolo dopo Cristo, il quale si ritirò in eremitaggio e si dedicò all’ascesi proprio per scrivere il Ramayana.Questo lunghissimo poema narra la storia del principe Rama, avatar (cioè, incarnazione) del dio Vishnu, figura eroica ed emblematica, che costituisce la più nobile rappresentazione della virilità guerriera e della benevolenza del “dio azzurro” (Vishnu, appunto), sempre pronto ad incarnarsi e ad accorrere in difesa dell’umanità quando questa è in pericolo. Lo si potrebbe definire come una sorta di “cronaca mitologica” che descrive le azioni del grande eroe divino che si incarna per amore e che diventa un esempio di virtù, dedizione e sacrificio per l’intera umanità.Tutto il poema è incentrato sulla lotta all’ultimo sangue tra il potente Rama, figlio di Dasaratha, re di Ayodhya, e il terrificante Ravana dalle cento teste, il Re dei demoni che ottenne dal dio Brama il dono di poter essere ucciso da un solo uomo: Rama.Rama, innamorato della bella Sita, è costretto a fuggire dal regno di suo padre, alla morte di questi, in quanto Kaikeyi, la sua matrigna, riesce a fare eleggere re di Ayodhya suo figlio Barata, malvagio e vizioso. Rama, suo fratello minore Laksmana e la dolce Sita, fuggono dal regno e si nascondono nelle foreste. Ivi si imbattono in Surpanaka, lasciva demonessa che si invaghisce di Rama e vuole uccidere Sita: ma Rama la affronta e la ferisce mutilandola. Allora Surpanaka chiede aiuto a suo fratello Ravana, il quale accorre dall’isola di Lanka con un’orda di demoni. Veduta Sita se ne invaghisce perdutamente e la rapisce, nonostante Rama e suo fratello lottino audacemente per difenderla, e la conduce seco nella lontana Lanka.Disperato, Rama si imbatte in Hanuman, il dio-scimmia, acerrimo nemico di Ravana, il quale, appresa notizia del rapimento di Sita, mette a disposizione di Rama il suo esercito di scimmie-guerriere. Dopo un lungo viaggio irto di pericoli e di lotte contro orchi e mostri, ma anche di incontri con asceti e saggi, attraversata tutta l’India, Rama, Laksmana, Hanuman e l’esercito delle scimmie raggiungono l’oceano, attraversano il braccio di mare che separa l’India da Lanka e approdano sull’isola. Al termine di un’epica battaglia tra le scimmie-guerriere e i demoni raksasa dell’esercito di Ravana, Rama affronta in un sanguinoso duello il Re dei demoni e lo uccide, liberando Sita dalla prigionia. Questa, però, viene sottoposta alla prova del fuoco, per dimostrare di non aver tradito Rama durante il periodo in cui è vissuta prigioniera di Ravana. Tornato ad Ayodhya con l’esercito delle scimmie e posto in fuga Barata, Rama può sedersi sul trono di suo padre. Ma i sudditi diffidano della virtù di Sita e costringono Rama a bandirla nella foresta. Nella selva, Sita muore dopo aver partorito due gemelli, avuti da Rama. Quando Rama apprende la notizia, sopraffatto dal dolore, muore, e lo spisrito divino che albergava in lui risale al cielo per riprendere l’aspetto originario del dio Vishnu.Il Mahabharata, cioè il “Grande racconto delle guerre di Bharata”, è un poema ancora più vasto del Ramayana: suddiviso in diciotto libri, è costituito da cento parvan (ovvero, canti) per un totale di centomila strofe.L’autore di questo poema (probabilmente il più lungo del mondo) è un asceta di nome Vyasa, vissuto, pare, nel IV secolo avanti Cristo, il quale, come è sostenuto da molti studiosi indiani, non riuscì a completarlo del tutto, e fu terminato forse da altri poeti in epoche successive.I Bharata, dal nome del capostipite, erano i membri di una antica stirpe guerriera dell’India settentrionale. Il poema, una sorta di “Iliade indiana”, racconta la terribile guerra tra i principali discendenti di Bharata: la famiglia dei cento Kuru (o Kaurava) e quella dei loro cinque cugini spodestati, i Pandava.Costretti all’esilio con l’inganno, i Pandava decidono di tornare dal re Duryodhana per chiedergli che restituisca loro il regno, ma l’usurpatore non solo glielo nega, ma li caccia in malo modo. Allora i Pandava radunano un immenso esercito, avvalendosi anche dell’aiuto di molti re non indiani che inviano loro le proprie truppe, e muovono contro Duryodhana. Dopo una serie di tremende battaglie e alterne vicende guerresche, giunge il giorno dello scontro decisivo: i Pandava affrontano i Kuru nella battaglia di Kuruksetra, dove trovano la morte seicentottanta milioni di uomini, tra cui tutti i Kuru, in quanto costoro non riconoscono la natura divina di Krishna, altro avatar del dio Vishnu, il quale combatte a fianco del principe pandava Arjuna, svolgendo il duplice ruolo di scudiero e di maestro. Con la vittoria dei Pandava, la morte di Duryodhana e l’ascesa al trono di Arjuna, il Mahabharata ha termine: nelle ultime strofe si assiste al ricongiungimento di Krishna con Vishnu e il suo ritorno al cielo, mentre il vecchio e saggio re Yudhisthira, padre di Arjuna, anch’egli morto, giunge al cospetto delle divinità celesti per il Giudizio Finale.Si tratta di due opere molto vaste e complesse, veri e proprio gioielli della poesia indiana. Ma mentre il Ramayana è essenzialmente un poema epico-popolare, che esalta la figura di Rama ponendo in rilievo come questo avatar di Vishnu sia capace di sacrificarsi per amore, affrontando i demoni delle Tenebre ma anche morendo di dolore quando apprende che la sua amata Sita è morta dando alla luce i suoi figli, il Mahabharata è un poema assai più cosmogonico e teologico, infarcito com’è di insegnamenti filosofici, di speculazioni metafisiche, di sermoni etici, di afflati mistici e di introspezione psicologica. Si tratta, in sostanza, di una vera e propria “summa” del pensiero indù, tanto che di questo poema, comunemente si dice che “Tutto ciò che non è nel Mahabharata, non esiste”, quasi a voler rimarcare come in questo poema l’indù possa trovare tutto, ma proprio tutto ciò che gli serve per la sua vita interiore, culturale, speculativa, etica e religiosa. Un poema che si rivela, in fin dei conti, un grande simbolo del dramma cosmico, con le forze oscure dei Kaurava che bandiscono i virtuosi Pandava (rappresentanti della bontà di carattere e del retto agire) e che ben testimoniano come il mondo degli uomini sia costantemente vittima del Male. Dunque, una vera e propria “epica di vita” in cui si illustra che l’esistenza umana altro non è che un difficile viaggio verso un’altra vita, e il suo significato sta nella pratica del Dharma. E, alla fine, la virtù trionfa e il vizio è sconfitto dalla Giustizia Universale.Inoltre, occorre rilevare che, nel Mahabharata, è contenuto uno dei testi più popolari dell’induismo, vale a dire la Bhagavad Gita, ovvero il “Canto del Beato”, una sorta di poemetto lirico, inserito nel ben più ampio poema, sotto forma di dialogo tra il divino Krishna e il principe Arjuna.Si tratta di un’opera composta intorno al 200 avanti Cristo, forse non da Vyasa, ma comunque in perfetta sintonia con il suo stile e con lo spirito del Mahabharata. In questo poemetto, così popolare tra gli indù tanto da essere denominato il “Vangelo dell’India”, Krishna insegna ad Arjuna (e quindi all’intero genere umano) lo Yoga della Conoscenza, costituito da due discipline: lo “yoga dell’azione” (adatto per i guerrieri, che esorta gli uomini di azione a non sfuggire ad essa, qualunque siano le conseguenze della medesima) e lo “yoga dell’amore di Dio” (particolarmente adatto agli asceti, che esorta gli esseri umani a liberarsi di tutte le loro brame e di tutte le loro ambizioni, trovando la piena libertà in una esistenza consacrata unicamente alla meditazione, alla preghiera, all’ascesi e all’amore incondizionato verso Dio).Commentata, nel corso dei secoli, da migliaia di filosofi, mistici e maestri spirituali, la Bhagavad Gita è un tesoro che rifulge all’interno di quel ben più ampio scrigno di tesori poetici, filosofici, mitologici e teologici che è il Mahabharata.Nelle letterature occidentali non esiste opera che possa eguagliare questi poemi per ispirazione poetica, estro, ingegno, armonia e ricchezza culturale e spirituale grazie alle quali i popoli di un intero subcontinente si riconoscono in esso attraverso i millenni. Da essi si sprigiona un fascino irresistibile che continua a sedurre non solo i popoli dell’India di religione induista, ma anche gl’intellettuali, i filosofi e i mistici dell’Occidente che hanno riconosciuto l’immenso valore poetico, filosofico e religioso contenuto in questi due strabilianti poemi che oggi, nell’era della cinematografia e della televisione, hanno conosciuto anche una fortuna eccezionale attraverso la divulgazione cinematografica e televisiva, giungendo a toccare i cuori e le menti di oltre un miliardo di indù.Ecco perché, oggigiorno, non è possibile non conoscere il Ramayana e il Mahabharata, i due principali capolavori della cultura indiana, vere e proprie perle di poesia, di filosofia, di mitologia, di saggezza e di sapienza che brilleranno per sempre come soli nel vasto e variegato cielo del Parnaso dell’India, la magica terra degli Eroi e degli Dei!