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Clint Eastwood e il Comunitarismo

di Manuel Zanarini - 09/10/2009

“Ho più cose in comune con questi musi gialli, che con quei depravati della mia famiglia”
- Clint Eastwood, “Gran Torino”


Capisco che il titolo di questo articolo possa spiazzare coloro che abbiano la cortesia di leggerlo; ma, fa riferimento all’ultima, forse per sempre (sic!), fatica di Clint Eastwood, il film “Gran Torino”, un capolavoro assoluto.
Il merito del film, oltre che nella splendida prova di Eastwood, risiede nella sceneggiatura di Nick Schenk, la quale offre due piani di lettura: uno, superficiale, racconta la storia di un veterano della Guerra in Corea, che supera le sue convinzioni razziste e, attraverso un processo di redenzione spirituale, fa pace col mondo e con se stesso; e un altro, più profondo e quasi da “iniziati”, in cui vengono illustrati i principi fondanti il comunitarismo, in particolar modo, contrapponendolo alla “società” americana.
Lo strumento utilizzato dall’autore è quello del confronto tra la famiglia “naturale” di Eastwood, che simboleggia la “nuova America” globalizzata, e la sua famiglia “acquisita”, la comunità di Hmong immigrati negli States dopo la Guerra del Vietnam, i quali ormai hanno “occupato” il quartiere periferico, in cui si svolge la trama del film. Veramente numerosi sono gli spunti interessanti posti dalla pellicola, di seguito cercherò di evidenziarne alcuni.
Quello che risalta maggiormente è la differenza di valori, tra la comunità Hmong (da ora la chiamerò semplicemente comunità) e la società statunitense (da ora, solo società); infatti, mentre i membri della prima hanno ancora salde radici che la legano al passato e alle tradizioni, i giovani statunitensi vivono in un presente consumista, globalizzato e slegato dal rispetto del passato; come dice Veneziani, “la comunità è il tempo del luogo, mentre la società quello del tempo”.
Da questa prima caratteristica, discende un forte senso del Sacro presente nella comunità, che è ben altra cosa del vuoto ritualismo rappresentato dalla “religione” societaria; un sacro che trae origine dalla Tradizione, e che è calato nella vita comunitaria, senza per questo costituire una struttura sociale e di potere temporale (contrasto sciamano/ prete). Dal rispetto per gli anziani e le persone che hanno ottenuto alcuni meriti particolari, deriva l’importanza del dono, che rappresenta il gesto assolutamente volontario, dei membri della comunità alle loro guide; gesto assolutamente incomprensibile nella società mercantilistica occidentale, e che si pone come alternativa ai rapporti economicisti oggi imperanti.
Questi primi approcci “comunitari”, spingono il protagonista ad abbandonare la “società”, per gettarsi nella vita “comunitaria”, superando le iniziali perplessità. A differenza del disagio, dato dal rifiuto che la società oppone alla presenza dell’ “anziano”, provocato dai finti aiuti proposti dai suoi famigliari, per dirla con Pietro Barcellona affidati alla tecnica e al mercato delle case di riposo, il protagonisti si trova coinvolto nell’atteggiamento conviviale, che vige all’interno della comunità, dove ciò che è di uno viene condiviso col resto della comunità, e gli anziani rappresentano una guida da far conoscere ai giovani.
Particolarmente significativo è il modo con cui si educano le nuove generazioni, e così facendo si tramandano i sapere tra anziani e giovani, all’interno della comunità. Riprendendo, non so quanto consapevolmente, la polemica di Ivan Illich sull’apparato scolastico, volto a creare utenti conformi, invece che cittadini conviviali, che genera la corruzione del linguaggio- “volere un titolo di studio” contro “voglio apprendere”-, finendo col creare un sapere artificiale, adatto alla società globalizzata, viene mostrato un modo “altro” di comunicare il sapere. Il sapere viene tramandato oralmente e con l’esempio, idea già diffusa dagli Stoici, dalle generazioni più anziane a quelle più giovani, e riguarda prevalentemente l’apprendimento di attività manuali, marginalizzate dalla società consumistica, che necessita di utenti incapaci di saper soddisfare autonomamente alle proprie necessità primarie. Tale impostazione dell’istruzione, viene oggi portata avanti con grande successo dai “movimenti per la Transizione”, maggiormente attivi in Gran Bretagna, e che iniziano oggi timidamente a radicarsi anche in Italia, nel comune bolognese di Bazzano in particolar modo.
Ulteriore aspetto interessante è la maniera “informale” con cui vengono risolti i conflitti in ambito comunitario. In un’organizzazione basata sull’onore, il sistema giudiziario e carcerario si rivela inutile, se non dannoso; infatti, come viene raccomandato anche dalla tradizione buddhista, non ha alcune utilità rinchiudere in carcere il colpevole di qualche reato, specialmente se di lieve entità; anzi, considerando che i costi del suo mantenimento in prigionia ricadono anche sulle spalle delle vittime e dei suoi famigliari, rischia di diventare dannoso. Come aveva giustamente capito Durkheim, il modo più efficace per capire le basi sociologiche di un agglomerato umano, è dato dal prevalere delle norme penali su quelle civili: una società vedrà una maggioranza del primo tipo, con una forte presenza di popolazione carceraria, con tutti i problemi ad essa collegati; nel caso di una comunità, prevarranno le sanzioni amministrative, con una prevalenza di pene risarcitorie e non carcerarie. Gli effetti di tale sistema sono ben visibili nella pellicola di Eastwood.
Anche il finale, che non svelerò per non incappare nelle maledizioni dei lettori, rivela l’aspetto sacrale e Tradizionale della vita comunitaria. A fronte di un attacco violento, il protagonista non cede al finto perdono di matrice cristiana, né alla violenza cieca tipica delle società “moderne”; adotta invece un atteggiamento ispirato alla pietas greco-romana; riversa sui nemici la giusta punizione, mantenendo per sé stesso una purezza d’animo e uno stile morale, che non vanno a incidere negativamente sul proprio essere. Particolare curioso della pellicola, il rituale pre-azione finale, assolutamente identico a quello dei martiri islamici che si sacrificano in azioni suicide.
Particolare importanza vorrei porla sul rapporto tra le varie comunità e sul tema della immigrazione. Ciò che è bene tenere a mente, come sottolinea Veneziani, il nemico di una comunità non è un’altra comunità, ma colei che vuole annientare in assoluto lo spirito comunitario, cioè la società. Questo si riversa anche su un tema di scottante attualità come l’immigrazione. Non è certamente creando un “melting pot multietnico”, attraverso lo sradicamento dei migranti dalle proprie radici culturali, né tanto meno cancellando quelle delle popolazioni che vivono sulle terre dove essi si trasferiscono, che si può pensare di risolvere tale annosa questione. L’unica soluzione è, all’opposto, creare comunità fortemente tradizionali che possano convivere pacificamente, avendo ormai capito che è l’omologazione globalizzata il vero nemico dei popoli, non certo la tradizione e la comunità.
In definitiva, ciò che emerge dalla pellicola di Eastwood è che la Comunità è l’unico vero antidoto alla società capitalista e mercanitilista dei nostri giorni, e che le accuse di razzismo, che spesso accompagnano tale soluzione sono del tutto ridicole; anzi, sono esattamente i tratti caratteristici della società degli “esportatori di democrazia”.