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Essere felici vuol dire conoscere ed amare il Sommo Bene, che è l'Essere

di Francesco Lamendola - 16/10/2009


In diversi precedenti scritti abbiamo parlato, soprattutto dal punto di vista teorico, della felicità; ma che cosa succede quando ci si sposta dal terreno della teoria a quello della pratica? Comprendere quale sia la natura della felicità, e come la si realizzi: conoscendo ed amando ciò che è buono, implica senz’altro che sia possibile tradurre nella sfera della vita quotidiana ciò che è stato compreso in senso filosofico? È possibile una filosofia che sia anche, allo stesso tempo, una filosofia di vita, e non destinata al puro piacere intellettuale?
Cercheremo ora di rispondere a tali domande.
Prima di tutto, se l’essenza della felicità consiste nel conoscere ed amare ciò che è buono, non è esatto affermare che essa sia sempre un passo davanti a noi; che essa ci sfugga inesorabilmente; che noi non possiamo mai dire, per definizione, di averla afferrata.
Certo, il saggio l’avrà raggiunta in maniera più stabile e più perfetta dell’uomo comune; ma l’uno e l’altro possono giungere ad essa, se sono capaci di perseverare nella ricerca incessante del bene. Ricerca che non è, nemmeno essa, un fatto puramente astratto e intellettuale, ma, al contrario, si deve costantemente misurare con il dato immediato dell’esistenza.
In teoria, il vero filosofo dovrebbe, per ciò stesso, essere felice; mentre l’immagine più frequente che ci si presenta alla mente, quando pensiamo ad un filosofo, è quella di una fronte pensosa, aggrottata, per non dire quella di un severo cipiglio o, peggio, di una piega amara della bocca. Ora, l’essere pensieroso è indice di un’anima che è tuttora immersa nella ricerca, e che poco o nulla ha trovato, di quanto è essenziale; non solo: di una ricerca puramente intellettuale, la quale esclude per principio che si possa trovare la verità all’infuori delle strette categorie razionali.
Viceversa, crediamo che ognuno di noi abbia avuto la ventura di conoscere almeno una persona dall’animo felice, che vive in pace con se stessa e con il mondo, senza dare alcun peso a ciò che è  secondario, ma concentrandosi sull’essenziale; di una persona, vogliamo dire, che non ha condotto studi superiori o universitari, che non ha letto molti libri e che, forse, non ne ha mai letto neppure uno di filosofia, né, se lo avesse letto, lo avrebbe capito. Che cosa significa questo?
È un monito: un monito all’arroganza intellettuale, alla presunzione e alla boria del Logos strumentale e calcolante, che si nutre di concetti talmente rarefatti, da diventare quasi evanescenti; e di paroloni talmente altisonanti, che, forse, non significano un bel nulla. Per conto nostro, e sia detto senza alcuna civetteria anti-intellettualistica, è mille volte preferibile la tranquilla felicità del vecchio contadino, che ha trascorso sui campi l’intera sua esistenza, ma che sa guardare ad ogni cosa con stupore, gratitudine e amore, alla spigolosa ed arida sapienza del filosofo di professione, il quale, chiuso nel castello delle sue costruzioni intellettuali, non si è innalzato di un millimetro al di sopra delle paure e delle brame che rendono così amara l’esistenza di tante persone comuni, tormentandola con mille fantasmi angosciosi.
In effetti, dovremmo smetterla di pensare alla verità come ad uno stato dell'anima che, per definizione, non potremo mai raggiungere; perché credere fortemente in ciò che si vuole, è già essere a metà dell'opera; e credere che la felicità, a determinate condizioni, sia possibile, significa avere già imboccato la strada giusta per arrivarvi. I filosofi che sono partiti da una costituzionale impossibilità, per l'uomo, di essere felice, in genere non si sono presi la briga di dimostrarla.
Ha scritto lo psichiatra spagnolo Enrique Rojas, già titolare della cattedra di Psichiatria all'Università di Madrid, nel suo libro «Una teoria della felicità» (titolo originale: «Una teoria de la felicidad», Madrid, Editoria Dossat, 1986; traduzione italiana di Grazia e Luigi Ferrero de G. V., Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni Paoline, 1988, pp. 22-24):

«La felicità consiste in un'operazione che io protagonizzo con lo scopo di raggiungere ciò che è di buono vi è nella vita, nel lavoro, nell'amore e nel patrimonio culturale del mio ambiente. Questa operazione risveglia e stimola molti aspetti che mi portano a configurare il mondo secondo uno stile di vita peculiare (leggasi progetto, però in senso più ampio). È per questo che nella sua "Etica Nicomachea" Aristotele dice: "Essentia felicitatis in acta intellectus consistit" (l'essenza della felicità consiste in un atto dell'intelletto). Nella misura in cui io ho una concezione del mondo, avrò anche una concezione della felicità e potrò camminare verso di essa. Ugo da San Vittore dice: "la felicità consiste nel conoscere e amare ciò che è buono". È una frase degna di essere incorniciata. Tuttavia sant'Agostino è più concreto ancora: "Beatus est cui habet omnia quae vult" (felice è colui che ha tutto ciò che vuole) Questa concezione implica un risveglio della potenza della volontà. La prima fase è CONOSCERE, la seconda AMARE.
Attraverso la conoscenza mi approprio, in qualche modo, di ciò a cui mi avvicino. Sono signore e padrone in quanto approfondisco nella sua essenza. Conoscere è un modo di appropriarsi di qualcosa. Quindi non si può amare quello che non si conosce. Ecco sorgere da questo due caratteristiche che sono presenti nello steso atto operativo:
CONOSCERE è il primo passo. Tutto si vive all'inizio come un desiderio, una aspirazione. Nel linguaggio popolare si dice di qualcuno che ha un simile atteggiamento, che è una persona con molte aspirazioni, attenta a molte questioni primordiali dell'esistenza.
AMARE è il secondo passo. È la conseguenza del primo. E questo porta con sé l'allegria, la gioia di possedere ciò che è buono. "Multo minus motus est finis": ogni movimento cerca il riposo. Quindi amare vuol dire essere con quello che si ama. Non si tratta più di una questione intellettuale più o meno astratta, bensì di un esercizio attivo di effettivo ravvicinamento.  È per questo che non vi è felicità senza amore. Ciò non è possibile poiché l'amore è un ingrediente indispensabile per la felicità.  Tuttavia l'amore  non è sufficiente per raggiungerla: è necessaria la sua incorporazione nel progetto personale, secondo il tripode prima proposto [lavoro, affetti, cultura].
Come dice Paul Claudel nella sua "Corrispondenza": "L'amore è il richiamo di ciò che è perfetto a ciò che è imperfetto". Quelle parole di Platone che troviamo nel suo trattato "Le leggi" possono essere applicate all'uomo felice: "…il mondo è equilibrato, tutto converge verso un fine,. Nel fondo delle cose vi sono, nonostante tutto, la pace, la salvezza, la gloria; niente e nessuno è perduto".
Vivere così, amando, rende felice l'uomo perché il senso della sua vita si orienta verso ciò che è buono, verso un ordinamento personale e in qualche modo, benché meno intenso, verso un ordinamento collettivo, sapendo tuttavia che non si darà mai fra gli uomini un ordinamento totale.
Infine si può dedurre che quando amo una persona ciò che voglio è farla felice secondo le mie possibilità,  ed è per questo che sto con lei, che costruisco la vita con lei, viviamo insieme. Tutto questo produrrà il passaggio dal "nihil novum sub sole" all'"omnia nova sub sole". Tutto è nuovo e tutto mi meraviglia e mi interessa. Il mondo ha per me un argomento, ha profondità e prospettiva ed è capace di incitarmi all'avventura.
La felicità porta dunque con sé un certo tipo di vita della quale diciamo che è la migliore. Implica una serie di sforzi che culminano in un modo certamente positivo, che tuttavia non è definito. Essendo l'uomo incompleto per costituzione, soffre di una specie di scontentezza cronica. Ecco una evidente ambiguità. Anche se tutte le cose andassero bene, vi sarà sempre una limitazione. Quindi l'uomo può sentirsi felice in un determinato momento della sua vita e più tardi sentirsi sventurato se la rotta dei suoi avvenimenti personali viene modificata. In fondo rimane quella frase di Ortega: "La vita è un dramma". Ed è drammatica perché è irreversibile benché sia possibile in qualche modo rettificarla verso l'avvenire. L'uomo deve lanciarsi senza riserve nell'avventura che è la sua vita e deve farlo come Hernan Cortés, bruciando le navi.»

Bruciare le navi dietro di sé: ecco un'immagine forte, ma che rende assai bene l'idea della disposizione d'animo con la quale dovremmo affrontare la sfida della vita; sfida che costituisce, al tempo stesso, una impareggiabile opportunità: quella, appunto, di essere felici.
Requisito essenziale per la conquista della felicità è l'aver conservato l'incanto del mondo, proprio di quando eravamo bambini: ne abbiamo più volte parlato in precedenza, per cui non insisteremo oltre su questo punto.
Molto appropriata, comunque, è la formula di Enrique Rojas "omnia nova sub sole", ossia che tutto dovrebbe apparirci come fosse nuovo e tutto ci dovrebbe riempire di  meraviglia e di interesse. Solo se il mondo acquisterà per noi una profondità nuova ed una luminosa prospettiva, esso sci apparirà tale da incitarci a vivere sino in fondo l'avventura della vita. Chi non prova più l'incanto del mondo, è come se vivesse solo a metà: le cose gli appariranno inerti ed opache, senza splendore, senza bellezza.
Vi sono delle giornate, dopo un brusco cambiamento atmosferico ed un improvviso abbassamento della temperatura, che porta via con sé ogni traccia di umidità dall'aria, in cui gli alberi, i campi, le colline, le montagne e il cielo stesso appaiono più vivi, più freschi, quasi trasfigurati; gli oggetti lontani sembrano vicinissimi, e un senso di trionfo e di bellezza pervade l'animo davanti a un simile spettacolo. Ebbene, così dovrebbe apparirci il mondo sempre, con il sole e con la pioggia, in mezzo alle circostanze liete e a quelle tristi: ammantato dei suoi colori più sfarzosi, e illuminato dai riflessi più vividi e gioiosi.
Il secondo requisito per la conquista della felicità è conoscere se stessi: non aver paura di guardarsi dentro sino in fondo, di riconoscersi, di perdonarsi e di volersi bene, nonostante i propri difetti e le proprie debolezze (che pure bisogna cercare di correggere). La maggior parte degli esseri umani non si vuole bene; crede di volersi bene, ma il suo comportamento lo smentisce: a cominciare da coloro i quali hanno sempre bisogno dell'approvazione e magari dell'ammirazione altrui, perché, in fondo al cuore, sanno di disprezzarsi.
Il terzo requisito è quello di ascoltare, riconoscere e mettere in pratica la propria chiamata. Tutti noi siamo stati chiamati alla vita per uno scopo; nessuno è qui per caso. La chiamata, o vocazione, è la meta verso la quale dobbiamo dirigere i nostri passi: la felicità è imboccare la direzione giusta, l'infelicità è perdersi fuori dalla strada. Ora, la chiamata è una cosa strettamente individuale; e tuttavia, tutte le chiamate possiedono un elemento comune: il senso ultimo da dare alla propria vita: che è quello di essere felici, conoscendo e amando ciò che è il «summum bonum».
A questo punto, bisogna mettere bene in chiaro - e non lo si ripeterà mai abbastanza - che la felicità e il piacere sono due cose profondamente diverse. Infatti, è certo che nella felicità risiede il massimo piacere; però è altrettanto vero che vi sono moltissimi piaceri i quali non procurano alcuna felicità, ma seminano soltanto amarezze, dolori, rimorsi e disprezzo di sé. Noi non dobbiamo cercare il piacere, ma la felicità: se la troveremo, ci sarà dato anche il piacere, magari in mezzo alle tribolazioni: perché si può essere felici anche nel dolore.
Concludendo.
Noi siamo chiamati alla vita per essere felici: e possiamo divenirlo solo a condizione di realizzare noi stessi, di attuare la nostra profonda natura, che è quella di conoscere e amare il bene.
Ma che cos'è il bene? E poi, quale bene: il bene per me, il bene per te, il bene per lui?
Il bene vero, il bene ultimo, non è «per me» o «per te»: è bene universale, bene immutabile e indefettibile. Il mio bene non può essere in contrasto con il bene altrui; né il bene altrui potrebbe calpestare il mio.
Il Sommo Bene è il motore dell'universo e scende dall'alto, come una forza cosmica che si irradia su tutti: suoi buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti. Solo che i buoni e i giusti lo sanno trasformare in gioia e sostanza vitale, mentre i cattivi e gli ingiusti non sanno goderne e lo trasformano in veleno e strumento di perdizione.
In ultima analisi, noi facciamo tutto da soli: non dovremmo dare la colpa a nessuno per la nostra felicità o la nostra infelicità.
Il Sommo Bene non è altri che l'Essere.
Dall'Essere noi veniamo e all'Essere aspiriamo a ritornare.
E la strada del ritorno, la strada di casa, passa per il paese della felicità.