L’ecosofia T di arne naess
di Paolo Vicentini - 30/03/2006
Fonte: filosofiatv.org
come ecosofia dell’identificazione
1. Ritorno al Lebenswelt
Nella Norvegia centrale s’innalza una montagna molto famosa, l’Hallingskarvet, che si può scorgere anche dal treno che collega Oslo a Bergen. Nella sua parte meridionale, ai piedi di un precipizio, a quasi duemila metri di altezza, si trova la casa di montagna di Arne Naess, un piccolo rifugio chiamato Tvergastein (“fra le pietre”).[1] E’ in onore di questo luogo, costruito oltre cinquant’anni fa e nel quale ha trascorso più di dieci anni della sua vita, che Naess ha denominato la sua particolare ecosofia “Ecosofia T”. Ma la scelta di tale nome vuol essere anche un esplicito invito a dare forma a delle proprie ecosofie, che potrebbero così chiamarsi Ecosofie X, Y o Z.
In questo, Naess sente il suo atteggiamento profondamente consonante con quello socratico. Egli cerca maieuticamente di rendere l’altro consapevole dei presupposti filosofici che reggono ogni sua singola scelta, in particolare nei confronti dell’ambiente.
Il motivo principale per cui dichiaro di trovarmi a mio agio con l’Ecosofia T è di ordine didattico e dialettico. Spero di indurre anche altri a render nota la propria filosofia. Se affermano di non averne alcuna, io sostengo che invece ce l’hanno, ma forse non ne sono consapevoli, o sono troppo modesti o timidi per esprimere apertamente ciò in cui credono. Seguendo Socrate, voglio suscitare una messa in discussione affinché altri sappiano qual è la loro posizione rispetto alle questioni fondamentali della vita e della morte. Faccio questo utilizzando questioni di tipo ecologico e usando l’Ecosofia T come un pungolo. Tuttavia Socrate nella discussione sosteneva di non sapere nulla, mentre la mia posizione sembra essere opposta. Può sembrare che io sappia tutto e che, magicamente, lo deduca da un piccolo insieme di ipotesi sul mondo. Ma entrambe queste interpretazioni sono fuorvianti! Socrate non sosteneva sempre di non sapere nulla, né io nella mia Ecosofia T pretendo di sapere tutto. Per esempio Socrate sosteneva di sapere quanto fossero errate le pretese di conoscenza degli uomini.[2]
Come suo primo e fondamentale obiettivo, l’Ecosofia T ha quello di mettere fortemente in discussione il modello di realtà, di tipo marcatamente dualistico, prevalso in occidente nell’epoca moderna. Una predominante tradizione filosofico-scientifica europea, che parte da Cartesio, Galilei e Newton per arrivare fino a Kant, e da questi fino ai giorni nostri, vede infatti il soggetto (l’uomo) contrapporsi alla natura in quanto oggetto, secondo Kant addirittura in quanto “cosa in sé” (Ding an sich) su cui non è possibile fare alcuna affermazione positiva. Nel corso del XVII secolo presso la comunità scientifica prese completamente il sopravvento la concezione galileiana e cartesiana della natura che distingueva fra qualità primarie — come la forma, il peso, il movimento ed altre caratteristiche geometrico-meccaniche —, le sole oggettive e proprie della realtà “esterna”, e qualità secondarie e terziarie — come il colore, il calore, l’odore e il sapore, da un lato, e percezioni più complesse come il doloroso, il bello, il pauroso, il noioso, dall’altro —, completamente soggettive, dipendenti dalla costituzione dell’apparato sensoriale, del tutto interne alla coscienza e da questa “proiettate” sulla natura.
Allo scienziato non rimaneva perciò che il compito di descrivere la realtà esterna oggettivamente, cioè prescindendo da tutte le qualità sensoriali percepite in modo individuale, e così avvicinarsi quanto più possibile alla “cosa in sé”. Priva di forma e di colore e di tutte le altre qualità che noi abitualmente sperimentiamo, l’immagine della natura che ne scaturiva era quella, piuttosto spettrale, di un insieme di atomi incolori.
Né questa immagine cambiò di molto con l’avvento del relativismo einsteiniano, che considera oggettivi solo quegli aspetti o quelle caratteristiche comuni a gran parte o a tutti gli osservatori. Cosa dire infatti di una natura composta solo da caratteristiche comuni e sulle quali esiste fra gli individui umani un accordo permanente? Non sarebbe forse come considerare oggettivamente reale solo quel cane composto dalle caratteristiche comuni a tutti i cani?
Agli inizi del XX secolo, infine, con l’introduzione della meccanica quantistica, questi problemi furono semplicemente tralasciati. Ciò che interessa al fisico-matematico non è più, o non è tanto, distinguere fra natura “in sé” (an sich) e natura “per me” (an mich), quanto poter affermare che, basandosi su certi modelli, un singolo oggetto o addirittura l’intero universo potrebbero essere descritti in un certo modo. Anche qui, però, ciò che rimane della natura è in definitiva solo uno scheletro, una struttura astratta, un punto di riferimento adatto ad una descrizione matematica, e nulla più.
Ridotta a questo, come osservava Whitehead, “la natura è una cosa deprimente, senza suoni, senza odori e senza colori”.[3] Come pretendere allora di attribuire valore ad una natura totalmente separata dalla realtà umana quale è concretamente sperimentata, ad una natura priva di qualità, spettrale e deprimente, e a cui la stessa nozione di “valore” è estranea in quanto appartenente al “soggetto” che la osserva?
Discende proprio da questa visione profondamente dualistica della realtà il fatto che nel campo dell’etica abbia acquisito lo statuto di “dogma” la concezione che va sotto il nome di “legge di Hume”, o di “principio della fallacia naturalistica”, la quale provvede a tener ben separati i “fatti” (oggettivi) dai “valori” (soggettivi) sancendo l’impossibilità di dedurre i secondi dai primi, di trarre da un’asserzione descrittiva un’affermazione prescrittiva.[4]
Tutto ciò non è che il risultato del tentativo di eliminare dalla sfera dell’oggettività quello che non è quantificabile e misurabile e dell’aver confuso le nostre astrazioni con la realtà concreta. Bisogna allora, secondo Naess, modificare la nostra immagine della realtà, reintrodurre le qualità nella natura, tenendo ben distinte quelle che sono le nostre “strutture astratte” (abstract structures), o i nostri entia rationis, tutti quei concetti e quei parametri convenzionali, scientifici e non, che noi utilizziamo per interpretare la realtà ed orientarci in essa, dai “contenuti concreti” (concrete contents), la nostra reale esperienza spontanea della natura. Bisogna tornare, dice Naess utilizzando la terminologia della fenomenologia husserliana, al concreto “mondo della vita” (Lebenswelt).[5]
2. Il campo relazionale totale
Naess propone a tal fine una forma radicale di relazionalismo e di filosofia del processo che trae ispirazione dal moderno pensiero sistemico ed ecologico, del quale egli dà la seguente sintesi:
— L’essere umano non è un elemento in un ambiente, ma è un nodo di raccordo all’interno di un sistema di relazioni senza confini determinati nel tempo e nello spazio.
— Il sistema relazionale collega gli esseri umani, come sistemi organici, con animali, piante ed ecosistemi tradizionalmente considerati interni o esterni all’organismo umano.
— Le nostre affermazioni relative alle cose e alle loro qualità, agli interi e alle loro parti non possono essere precisate ulteriormente se non cominciando a pensare in termini di campi e relazioni.[6]
Ne deriva una visione della realtà che
rifiuta l’immagine di una umanità inserita in un ambiente da cui è distinta, a favore dell’immagine del campo totale e relazionale. Gli organismi sono come nodi in una rete di relazioni intrinseche. Una relazione intrinseca tra due oggetti A e B è tale per cui la relazione stessa rientra nella definizione o nella stessa costituzione fondamentale dell’uno e dell’altro, cosicché senza tale relazione A e B non sono più la stessa cosa. Il modello del campo totale dissolve non solo l’idea dell’umanità inserita nella natura, ma qualsiasi idea di oggetto monolitico inserito in un ambiente — a meno che non si stia discutendo ad un livello superficiale o preliminare.[7]
Dobbiamo sforzarci di acquistare maggiore familiarità con la concezione del mondo di Eraclito: tutto scorre. Dobbiamo abbandonare i punti fissi, stabili, e conservare solo le relazioni di interdipendenza che sono piuttosto dirette e persistenti.[8]
Per mostrare gli effetti pratici di questa prospettiva e come essa possa risolvere l’annosa questione della separazione fra qualità primarie e secondarie della natura, riportandoci al “mondo della vita”, Naess invita a fare un semplice esperimento.[9] Supponiamo di immergere le nostre mani in uno stesso catino d’acqua avendo precedentemente tenuto quella destra in tasca e quella sinistra esposta all’aria fredda. Sicuramente quella sinistra sentirà l’acqua molto più calda che non la destra. Ma allora l’acqua è fredda o calda?
Sono possibili più risposte a seconda della visione della realtà che si predilige. Galileo, come abbiamo visto, direbbe: l’acqua in sé non è né fredda né calda, poiché freddo e caldo sono qualità secondarie che l’acqua in realtà non possiede. Protagora invece, secondo quanto riportato da Sesto Empirico[10], direbbe: l’acqua in sé è sia calda che fredda, poiché la materia ha tutte le proprietà che sono percepite da ciascun individuo, anche se di regola un uomo è in grado di percepirne solo un numero limitato.
La risposta di Naess costituisce uno sviluppo ed un perfezionamento di quella protagorea. Anziché di “materia” egli invita a parlare di “campo relazionale”, inteso come riferito alla “la totalità delle nostre esperienze interconnesse”.[11] L’oggetto materiale, allora, viene ad essere concepito come “punto di raccordo all’interno del campo”[12] e pertanto può benissimo presentarsi in modo diverso, con qualità distinte, in momenti diversi, ed anche nello stesso momento, e nondimeno essere lo stesso oggetto, in quanto le relazioni che lo determinano concettualmente ineriscono ad uno stesso “punto di raccordo”. Insomma, nel caso dell’esempio sopra riportato non vi sono tre “oggetti” come l’acqua, la mano ed il calore, che successivamente devono essere posti in una qualche relazione, ma esiste il calore come qualità inerente al campo relazionale mano + acqua. Perciò non vi è contraddizione nel dire che l’acqua può essere al contempo calda e fredda, poiché è calda all’interno di una certa relazione e fredda all’interno di un’altra. L’acqua in sé non esiste, essa esiste solo all’interno di una relazione, essa è l’insieme delle sue relazioni.
Da un punto di vista ecosofico questa visione della realtà ha importanti conseguenze. Innanzitutto le qualità secondarie e terziarie sono considerate qualità autentiche della natura ed, in un certo senso, è attribuita “oggettività” alle nostre sensazioni in genere. Dire che le qualità sono relazionali, infatti, non vuol dire che esse siano relative o soggettive, ma che esse, qualora siano date le relazioni che le costituiscono, sono concretamente riscontrabili indipendentemente dalla nostra opinione personale.
E’ allora giustificato riferirsi ad esse come se fossero oggettive, nel senso di indipendenti dalle simpatie o dalle antipatie di una persona. In questo modo arriviamo non alle cose in sé, ma a reti o campi di relazioni a cui le cose partecipano e da cui non possono essere isolate.[13]
Inoltre, questo tipo di prospettiva rende possibile attribuire due qualità contrarie allo stesso fenomeno nel medesimo tempo pur non invalidando il principio di identità e di non contraddizione. Infatti se certamente “è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto”, come afferma Aristotele, ciò è per lui vero solamente se tale oggetto viene anche considerato “nella medesima relazione” (Metaphysica, IV (G), 3, 1005 b 20). Risulta perciò, anche per Aristotele, del tutto non contraddittorio poter affermare che A in relazione a B è freddo mentre nel medesimo tempo in relazione a C è caldo.[14]
Infine, il rifiuto della distinzione fra qualità primarie e secondarie porta a riconoscere che la descrizione della natura proposta dalla scienza fisico-matematica non è più l’unica vera o obiettiva, ma che esistono e possono collaborare insieme alla sua conoscenza vari modi di descriverla tutti egualmente e parzialmente validi, incluso quello “fenomenologico” ed immediato proprio della nostra esperienza quotidiana. L’affermazione di Galileo secondo cui: “Il libro della natura è scritto nel linguaggio della matematica”, dovrebbe dunque essere formulata diversamente,
per esempio così: “Uno dei libri della natura” o “Il libro della natura” o “Il libro della natura è scritto in questo linguaggio...”.[15]
3. Gestalttheorie e ontologia della Gestalt
Resta però da precisare un’importante questione: se “non esistono oggetti completamente separabili, nessun ego o sostanza o organismo di sorta”[16], ma solo reti o nodi di relazioni, quali saranno i contenuti concreti dell’esperienza spontanea della realtà a cui Naess preme di ritornare? E soprattutto: la stessa “immagine di campo totale, relazionale” (relational, total-field image) fa parte dei contenuti concreti o delle strutture astratte?
Si tratta in effetti di uno dei punti più difficili e problematici dell’intera ontologia che Naess cerca di difendere e di proporre come alternativa alla consueta immagine atomistica e dualistica della realtà, la quale pone costantemente uno iato fra l’uomo e la natura, fra il soggetto e l’oggetto, fra i valori ed i fatti.
Bisogna dire, innanzitutto, che Naess definisce “contenuti concreti” (concrete contents) della realtà delle totalità relazionali indivisibili, delle “costellazioni di fattori” (constellation of factors), da lui chiamate Gestalt. Poiché egli deriva questo termine dalla “teoria della Gestalt” (Gestalttheorie), o “psicologia della Gestalt” (Gestaltpsychologie), e vista l’importanza che tale teoria riveste per la sua ontologia, da lui non a caso definita “ontologia della Gestalt” (Gestalt ontology), è importante fare qui una breve digressione su questa nota scuola psicologica di origine tedesca.
L’ipotesi di base della Gestalttheorie afferma che il mondo non giunge ai nostri centri nervosi in forma di caos, ma è già un mondo di Gestalten, cioè di forme organizzate, un mondo di oggetti; e ciò in opposizione alla tesi behaviorista secondo la quale il mondo, come noi lo percepiamo, è un insieme di sensazioni indifferenziate che i nostri centri nervosi superiori organizzano in seguito a una serie di condizionamenti derivati dall’interazione con gli oggetti del mondo esterno nel passato.
Il primo ad utilizzare il termine Gestalt in ambito psicologico, e più specificamente nella psicologia della percezione, fu lo psicologo viennese Christian von Ehrenfels (1859-1932) in un saggio del 1890.[17] In breve, von Ehrenfels distingueva, al livello della percezione, oltre alle qualità sensibili come il colore, anche “qualità formali” (Gestaltqualitäten), non riducibili alle prime. Una melodia, ad esempio, non è percepita come una successione di note, ma come un insieme ordinato. La sua unità è la “forma particolare”, o qualità irriducibile all’enumerazione delle parti che la compongono; mentre la sua realtà — quella tonalità che è designata appunto dal termine “melodia” — è costituita da un certo rapporto delle note fra loro. Tanto è vero che anche mutandone la chiave, e quindi modificando ciascuna nota, non per questo la si rende meno riconoscibile. Ma se le qualità sensibili, osservava von Ehrenfels, possono essere riferite a determinati stimoli (nel caso specifico, a suoni), una simile corrispondenza è impossibile a stabilirsi per la percezione delle “forme”. Ciò dimostra che noi percepiamo una configurazione, una struttura, una forma, separatamente. Per definirla egli utilizza il termine tedesco Gestalt, il quale indica la forma organica, a differenza di Form che sta ad indicare la forma inanimata.
Una totalità, allora, lungi dall’essere la somma delle parti che contiene, le condiziona, nel senso che all’interno di una totalità una sua parte è qualcosa d’altro rispetto alla stessa parte isolata o inserita in un’altra totalità. Il principio, individuato da von Ehrenfels, secondo cui “l’intero è maggiore della somma delle sue parti”, costituirà anche il motto più celebre della psicologia della Gestalt.
Un piccolo gruppo di psicologi di Berlino non tardò a trarre le conseguenze più radicali di questo riconoscimento dell’indipendenza della struttura rispetto agli elementi che la compongono. Nasce così a Berlino la Scuola Gestaltista, fondata fra il 1910 e il 1920, i cui principali esponenti furono Max Wertheimer (1880-1943), Kurt Koffa (1886-1941), Wolfgang Köhler (1886-1967) e più tardi Kurt Lewin (1890-1947).[18] In von Ehrenfels è ancora presente una distinzione, una differenziazione fra qualità sensibili e qualità formali, legata alle concezioni associazioniste secondo cui le qualità sensibili vengono considerate “fondamenti” di quelle formali, le quali vengono percepite in un secondo tempo in base all’“attività dello spirito”. Ma il fatto che sia possibile percepire a volontà degli oggetti differenti negli stessi dati sensoriali, come avviene nelle figure ambigue, mostra chiaramente che la percezione delle forme non è un processo di ordine mentale che si aggiunge alla sensazione rendendo possibile la percezione degli oggetti. In realtà, se la percezione originaria della melodia fosse quella delle relazioni che intercorrono tra i suoni o le note che la compongono, occorrerebbe non soltanto mettere in evidenza di quali relazioni si tratti ma, anche, chiarire perché fra le infinite relazioni che si possono indicare fra il tutto ed i suoi elementi soltanto una sia immediatamente intuita a caratterizzare una specifica situazione. E se si afferma, come nel caso delle figure ambigue, che è possibile percepire a volontà degli oggetti differenti negli stessi dati sensoriali, è facile accorgersi che tale possibilità ha la sua base nel modo secondo cui la configurazione si è andata costituendo.
Le conseguenze che gli psicologi della Scuola di Berlino ricavarono da queste premesse modificarono profondamente le concezioni sugli elementi originari della vita psichica e permisero una nuova definizione dei fatti psichici opposta a quella indicata dall’atomismo psicologico. Se, infatti, le qualità della forma non si possono interpretare tanto come qualche cosa di derivato, costruzione superiore di un molteplice di sensazioni che costituisca il punto di partenza obbligato di ogni esperienza psichica, quanto come un dato da considerarsi originario, le sensazioni in se stesse non hanno un’esistenza reale ma costituiscono il risultato di un’analisi logica che la conoscenza compie, suddividendo artificialmente, in condizioni date, quel tutto unitario che è la forma. E poiché le qualità sensibili non sono qualche cosa valutabile come costante, ma dipendono dalle diverse forme nelle quali entrano come componenti, ne deriva ancora che la distinzione, sulla quale von Ehrenfels si era poggiato, di qualità formali e qualità sensibili, non ha più alcuna ragion d’essere e che invece di un supposto susseguirsi di sensazioni che costituiscano l’elemento originario della vita psichica bisogna porre a base di essa quell’atto percettivo che la psicologia associazionista indicava invece come un suo momento successivo. I dati originari della coscienza, che costituiscono il punto di partenza e la legge direttiva di ogni processo psichico, sono le forme, la cui costituzione non può essere l’effetto di un sapere acquisito. Non esiste apprendimento delle forme: esse esistono fin dall’inizio, fin dal primo livello della percezione. L’oggetto percepito non ha una forma, ma è una forma. Come il mondo contiene delle Gestalten nella sua organizzazione, così la percezione che noi ne abbiamo si trova strutturata sin dall’inizio. Ciò non vuol dire che la Gestalttheorie sostenga che la struttura dell’esperienza sia innata. Per essa il mondo fenomenico è un campo dinamico costituito da forze interagenti, analogamente ai campi di forze di cui tratta la fisica moderna. La struttura dell’esperienza è allora il prodotto dei modi di interazione delle forze presenti nel “campo percettivo” o “campo psicologico”, che i Gestaltisti hanno riassunto in una serie di leggi: segregazione delle unità (un insieme di punti isolati che possono raggrupparsi percettivamente), figura-sfondo (una forma è sempre dipendente dallo sfondo sul quale si basa; questo sfondo può esso stesso divenire figura, ma a scapito della figura originale), “buona forma” o “pregnanza delle forme” (alcune organizzazioni di figure sono più facilmente percepite come Gestalt di altre), ecc. Inoltre — e ciò è evidente soprattutto nell’opera di Köhler —, il concetto di Gestalt non corrisponde solo ad una attività psicologica, ma è una legge che si trova anche in campi diversi dalla psicologia. Köhler cerca di dimostrare che la Gestalt, ovvero l’idea del tutto che è altra cosa dall’insieme delle sue parti, non è una specificità psicologica e che si possono ritrovare a livello fisico le stesse regole che egli cerca di mettere in evidenza nell’animale o nell’essere umano. Di qui il principio, che i Gestaltisti indicano con il nome di “isomorfismo”, in base a cui si postula che le leggi della forma siano applicabili ai fenomeni fisici considerati quali sistemi totali; e di qui l’estensione di tale principio alle relazioni intercorrenti fra fenomeni psichici e fenomeni fisiologici. Il rapporto che passa fra il dato di coscienza, le sue condizioni fisiologiche e la realtà diventa in tal modo un rapporto di struttura per cui ad una certa configurazione esterna corrisponde una struttura fisico-chimica del sistema nervoso e quindi una struttura psichica, ciascuna provvista di caratteri propri.
Importanti sono infine, alla luce dell’argomento che stiamo trattando, gli sviluppi cui ha dato luogo la Gestalttheorie applicata al comportamento. Grazie soprattutto all’opera di Koffa e Lewin, essa ha approfondito ulteriormente il concetto di “campo percettivo” ampliandolo in quello di “campo totale”, in cui l’organismo e l’ambiente entrano come due poli correlativi ed in cui il soggetto, con la sua affettività, con la sua sfera emotiva, viene a far parte integrante della strutturazione del campo percettivo.
Naess fa proprie molte delle acquisizioni della Gestalttheorie riguardo alla struttura della nostra percezione, sebbene, all’interno della sua visione radicalmente relazionale della realtà, esse subiscano importanti mutamenti, se non di contenuto, per lo meno di accento.[19]
Innanzitutto, Naess sottolinea la valenza ontologica delle Gestalt ed in genere della nostra esperienza fenomenologica della realtà. Per Naess le Gestalt non sono solo le strutture psicologiche della nostra percezione, che permettono alla mente di dare un senso all’esperienza, esse sono la struttura ontologica della realtà, “il modo in cui le cose sono” (the way things are) — come Naess definisce l’ontologia.[20]
La psicologia della Gestalt crede che le strutture [patterns] delle esperienze delle persone siano qualcosa che agisce nelle loro teste. Pensa che le persone abbiano nelle loro menti immagini dell’albero; ma perché fermarsi qui? Sbarazzati del soggetto quale contenitore di immagini e pensieri. Ogni cosa è tanto lì fuori quanto in te! Questa divisione fra oggetto, soggetto e medio la puoi fare solo attraverso l’analisi logica, laddove l’esperienza spontanea è priva di nette separazioni. L’ontologia della Gestalt è nel mondo.[21]
In questo passo Naess non rende completamente giustizia alla Gestalttheorie, la quale indubbiamente è meno soggettivista di quanto egli tenda a credere. E’ chiaro comunque che il suo relazionismo non possa che dare alle Gestalt una portata decisamente ontologica. Le Gestalt vengono così a costituire i contenuti concreti della realtà, i contenuti della nostra esperienza spontanea di essa, e, in certo qual modo, sono l’unica forma di identità, di continuità, che egli sia in grado di concepire all’interno del campo relazionale e processuale totale.
Una seconda conseguenza del suo relazionismo, rispetto alla Gestalttheorie, sta inoltre nel diverso e più stretto modo di concepire le connessioni fra parti e tutto all’interno di ogni Gestalt e delle Gestalt fra loro.
Il motto più celebre della psicologia Gestaltica è: “L’intero è maggiore della somma delle sue parti”. E’ una conclusione utile ai fini di una confutazione dei modelli meccanicistici, ma non spiega affatto in che modo l’intero infonde il suo carattere alle singole parti. Pertanto trascura quella che potrebbe essere chiamata la parte ologrammatica, per cui un frammento di un certo pezzo musicale è molto di più che un frammento che acquista significato dall’intero pezzo, come se l’intero potesse esistere a parte. L’intero e la sua parte hanno una relazione interna.[22]
Anziché dire solo che il tutto è maggiore della somma delle parti, altre massime rilevanti sono: “La parte è più che una parte”. Cioè, se una melodia è ben conosciuta, la parte è “parte-della-melodia”; ossia, la qualità dell’intera melodia colora l’esperienza della parte, o determina ampiamente l’esperienza spontanea della parte. Detto più recisamente, “non c’è un’esperienza spontanea della parte solamente come parte”. Essa è relazionata internamente alla melodia nella sua totalità. Ma non c’è neppure un’esperienza spontanea della totalità. Possiamo perciò anche dire “Non c’è né un’esperienza di una parte, né di una totalità come entità separabili”.[23]
E’ importante rilevare come Naess sottolinei il fatto che le relazioni fra intero e parte di una Gestalt siano relazioni interne. Naess compie una netta distinzione fra relazioni interne o intrinseche, le quali, come abbiamo visto sopra, entrano a far parte costitutiva dell’identità degli elementi che esse pongono in relazione, e le relazioni esterne, che non godono di tali caratteristiche.[24] Nell’esperienza spontanea della realtà, che è esperienza di Gestalt, noi sperimentiamo sempre delle relazioni di tipo interno, e solo in un secondo tempo, analizzando concettualmente le nostre percezioni, distinguiamo astrattamente fra parte e tutto come se fra loro esistesse solo una relazione esterna. Al contrario, ogni parte è una Gestalt tanto quanto lo è la totalità a cui è subordinata ed in certo qual modo non ha più senso parlare né di parti né di tutto, ma solo di una gerarchia di Gestalt, di un insieme di Gestalt subordinate e sovraordinate.[25] Persino chiamare la nostra esperienza spontanea della realtà una “esperienza di Gestalt” può essere fuorviante, se con ciò si sottintende fra il soggetto e l’oggetto dell’esperienza una relazione esterna che fra essi invece non è a priori presente. Infatti, normalmente:
Quando ci si lascia assorbire dalla contemplazione di un oggetto naturale concreto non si sperimenta affatto una relazione soggetto-oggetto. E neppure quando si è completamente assorbiti da una certa azione, che sia di movimento o meno. Non esiste un ego epistemologico che si protende per vedere e capire un albero o un avversario nella lotta, o un problema da risolvere. L’esperienza spontanea di un certo albero è sempre parte di una totalità, di una Gestalt. L’analisi può portare alla scoperta di molti elementi strutturali. Talvolta vi è una relazione egoica, talvolta no. La Gestalt è un intero, autoregolato e autosufficiente. Se chiamiamo ciò “esperienza della Gestalt”, siamo facilmente sviati in senso soggettivistico.[26]
Ben si può comprendere, allora, come, venendo meno la netta dualità fra oggetto e soggetto del conoscere, venga meno anche la dualità fra fatti e valori. La divisione fra fatti e valori e successiva rispetto all’esperienza immediata, fatta di Gestalt che sintetizzano insieme elementi sensoriali ed elementi normativi e/o assertivi. Naess definisce questo tipo di Gestalt, contenuti della nostra esperienza abituale della realtà, “Gestalt appercettive”.[27]
Quando l’attenzione non è deliberatamente focalizzata sulle Gestalt percettive, tutta l’esperienza è appercettiva. Le sue unità costitutive sono Gestalt appercettive, non elementi sensoriali ma neppure solamente intellettuali. La divisione tra ‘fatti’ e ‘valori’ emerge dalle Gestalt solo attraverso l’attività del pensiero astratto. E’ una distinzione utile, ma non quando l’obiettivo è descrivere il mondo immediato in cui viviamo, il mondo delle Gestalt, la realtà vivente, la sola realtà che conosciamo.[28]
Le Gestalt fungono da collegamento tra l’Io e il non-Io, facendone un tutt’uno. La gioia diventa non la mia gioia, ma qualcosa di gioioso di cui l’Io e qualcos’altro sono frammenti interdipendenti, non separabili.[29]
L’affermazione humeana di una distinzione fra is e ought, fra è e deve, fra essere e dover essere, ossia fra fatti e valori, implica una distinzione fra soggettività e oggettività, fra sensazione e valutazione, impossibile da stabilire se partiamo dai contenuti concreti, dalla nostra effettiva esperienza spontanea della realtà. Se si parte da un’affermazione astratta del tipo: “L’oggetto x ha un valore y” è ovvio che inevitabilmente si sia condotti a chiedersi: “Dato un oggetto x, come faccio io a stabilire che ha un valore y?”. Ma se invece si parte da un contenuto concreto del tipo: “un pomodoro rosso, delizioso, da mangiare subito” o “un pomodoro marcio, schifoso”, i termini valutativi sono presenti fin dall’inizio della nostra analisi e non esiste nessun pomodoro “oggettivo” da valutare indipendentemente.[30]
4. Dall’etica ambientale all’ontologia ambientale
Tornando all’importante quesito che ci eravamo posti poc’anzi su quale fosse per Naess la natura dei contenuti concreti della realtà e quale fosse, rispetto ad essi, lo statuto da attribuire al campo relazionale totale, possiamo ora rispondere che per il filosofo norvegese i contenuti concreti della realtà sono dati dalle esperienze spontanee, fatte di aspetti razionali ed emotivi, sensoriali e valutativi, oggettivi e soggettivi, vissuti come totalità indivisibili, come Gestalt. Le strutture astratte sono invece costituite dalle interpretazioni, dalle interrelazioni che stabiliamo fra le esperienze spontanee per poterle spiegare a noi stessi e a chi ci circonda.
Tuttavia, se da un certo punto di vista possiamo dire che la realtà concreta è costituita da un sistema di relazioni intrinseche (campo relazionale totale), che si manifesta alla nostra esperienza immediata nella forma di totalità organiche (Gestalt) di cui lo stesso soggetto conoscente è parte integrante ed inscindibile, da un altro punto di vista dobbiamo riconoscere che anche le nozioni di “campo relazionale” o di “Gestalt”, sono entia rationis, sono delle strutture astratte, le quali, come tali, pur appartenendo alla realtà non devono però esser confuse con essa.
Il rapporto esistente fra tali strutture astratte ed i contenuti concreti è, per Naess, lo stesso che vige fra le carte geografiche ed il territorio da esse raffigurato. Come è necessario che fra le carte geografiche ed il territorio esista un precisa relazione formale, affinché esse lo possano rappresentare, così per Naess
I contenuti concreti hanno una relazione del tipo uno-a-uno con le costellazioni [cioè le Gestalt], esiste un isomorfismo tra il concreto e l’astratto.[31]
E tuttavia,
come le carte geografiche, la loro funzione non è di aggiungersi al territorio (i contenuti), ma di renderlo meglio visibile. La Terra come insieme unitario non è la Terra più le sue carte geografiche.[32]
Ciò ovviamente non significa che il relazionismo gestaltico di Naess sia privo di valore. Ad esso Naess attribuisce anzi un’importante funzione ecosofica, in quanto
aiuta a scalzare la tendenza a vedere gli organismi o le persone come qualcosa che può essere isolato dal proprio ambiente[33]
e quindi, pedagogicamente, ci conduce da una visione dualistica e frammentaria della realtà ad una visione organica e unitaria, tipica del pensiero ecologico e sistemico.
Il relazionismo gestaltico contribuisce potentemente a modificare la nostra percezione della realtà. Per esso le qualità primarie, se interpretate come nella descrizione meccanicistica del mondo, cioè come relazioni di tipo logico-matematico (lunghezza, curvatura, onda, ecc.), sono entia rationis, parti di strutture astratte, non contenuti concreti della realtà.[34] La coscienza non è più quel magazzino per le qualità second