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Capitalismo della partecipazione o paleocapitalismo darwinista?

di Giorgio Vitangeli - 16/10/2009

      

Uuna legge dal suo solo preannuncio sarebbe temerario. Così per quanto riguarda la legge sulla partecipazione dei lavoratori agli utili  dell’impresa, noi che da sempre la auspichiamo e ne abbia fatto da più di mezzo secolo uno dei cardini e dei valori della nostra azione politica, possiamo solo esprimere per ora speranze e timori.
La speranza è che finalmente il governo compia un primo passo decisivo verso il capitalismo della partecipazione, cioè verso un nuovo ordine sociale ed economico che concretizzi il superamento della lotta di classe; il timore è che la “grande riforma”, per usare le parole con cui il generale De Gaulle indicava il suo progetto di partecipazione, poi sfumato, si impantani  nella contrattazione tra parti sociali, o – peggio –finisca col rappresentare uno dei tanti esempi gattopardeschi in cui si cambia  tutto perché tutto resti come prima.
Ma stiamo ai fatti. A lanciare il sasso è stato ancora una volta il ministro dell’economia Tremonti, che già in passato si era espresso a favore della partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa. Intervenendo lo scorso agosto a Rimini al “meeting” di Comunione e Liberazione, “Credo sia dovere del governo, ha detto, iniziare a riflettere insieme sull’idea di favorire la compartecipazione, non la cogestione, dei lavoratori agli utili. Lo dobbiamo come risposta alla crisi, e come modo per accrescere responsabilità comune tra  imprenditori,lavoratori e governo”.
Propositi, come si vede, precisi  per quanto riguarda il tema, ma ancora alquanto vaghi sul suo svolgimento: “Iniziare a riflettere”, che può essere tutto e niente.
Ma a Tremonti ha fatto seguito il ministro Sacconi, il quale ha aggiunto: “Si farà, non è un sogno di mezza estate. Faremo entro l’anno una legge che renda possibile, che codifichi questa partecipazione dei lavoratori agli utili. Ci sono tutte le condizioni per farla. L’uscita dalla crisi ha bisogno di un ripensamento complessivo dei rapporti economici e sociali”.
Ma come già Tremonti anche il ministro Sacconi ha tenuto a precisare: “Non significa far partecipare i lavoratori alla gestione delle imprese”.
Si può immaginare che l’uno e l’altro abbiano inteso rassicurare il mondo degli imprenditori, ma l’insistenza è comunque significativa e suscita qualche perplessità. Perché la nostra Costituzione, rimasta peraltro in questo lettera morta, al suo art. 46 dice l’esatto contrario, stabilendo che “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro, in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge alla gestione delle aziende”.
La Costituzione Italiana prevede dunque esplicitamente il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle imprese, sia pure “in armonia con le esigenze della produzione” e nei limiti stabiliti da una legge che non è mai stata promulgata. Nulla dice invece sulla partecipazione agli utili, che è tema parallelo, distinto e diverso, e se vogliamo solo conseguente, per concretizzare quella “elevazione economica” del lavoro cui l’art.46 della Costituzione accenna.
C’è anche da rilevare che lo spartiacque che separa il modello di capitalismo anglosassone da quello europeo non è la partecipazione agli utili, ma quella alla gestione. La distribuzione di una parte degli utili dell’impresa ai dipendenti, in genere sotto forma di attribuzione gratuita di azioni, è infatti una pratica presente da tempo  nel capitalismo anglosassone. Negli ultimi anni poi, limitatamente ai dirigenti o al solo “top  management” è divenuta pratica generale  l’attribuzione di “stock option”, in misura a volte così esagerata da suscitare reazioni e scandalo.
Forme di coinvolgimento e di remunerazione indiretta che dal capitalismo anglosassone sono state trasmesse alle grandi imprese europee.
Tutt’altro discorso per la partecipazione alla gestione, che ha il suo esempio più rilevante nella “Mitbestimmung”  tedesca, col suo sistema dualistico di governo delle grandi imprese, incentrato su un Comitato di gestione, composto dai manager che hanno la responsabilità di gestire l’azienda, ed un Consiglio di sorveglianza, formato in misura paritetica da portatori del capitale e rappresentanti dei lavoratori. Consiglio di sorveglianza che ha poteri tutt’altro che residuali, visto che nomina il Comitato di gestione e in certi casi può addirittura sfiduciarlo.
Questo schema di cogestione avrebbe dovuto essere il modello anche della società per azioni di diritto europeo. Ma l’opposizione tenace ed inflessibile dell’Inghilterra ha bloccato per anni il progetto a Bruxelles, riuscendo infine a snaturarlo. Ulteriore riprova, semmai ce ne fosse bisogno, dell’incompatibilità genetica tra capitalismo anglosassone e partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa.
A puro titolo di cronaca c’è da registrare che recentemente il sistema duale tedesco di gestione delle imprese ha avuto una sua manifestazione “all’italiana”. Alcune nostre grandi imprese hanno deciso cioè di passare dal sistema di governo “monocratico”, incentrato sul Consiglio di amministrazione, al sistema dualistico. Ma nel Consiglio di sorveglianza “all’italiana” i rappresentanti dei lavoratori non ci sono.
In pratica da noi il sistema dualistico è parso particolarmente utile nei casi di fusioni tra due o più imprese, quando cioè una parte dei vertici rischiava di restare senza poltrona e faceva resistenza. Duplicando gli organi di governo, il problema si risolve: c’è poltrona per tutti e fare le fusioni diventa più facile.
Su questo scenario, non propriamente esaltante, è caduta come sasso nello stagno la “provocazione” di Tremonti, seguita dalla promessa di Sacconi.
Veniamo subito ai dubbi ed ai timori che essa suscita in chi, come noi, concepisce la partecipazione dei lavoratori agli utili (ed alla gestione…) come un fatto implicitamente rivoluzionario, avvio del superamento del vecchio modello capitalista, se non come il mitico passaggio verso la “terza via” tra capitalismo e comunismo.
Parlare di sola partecipazione agli utili in un momento in cui le imprese, più che fare utili da spartire, lottano per sopravvivere e tendono a licenziare (57 milioni di disoccupati il prossimo anno nei Paesi avanzati, ha previsto l’Ocse) potrebbe sembrare quasi una provocazione ed una beffa
Ma è vero anche il contrario: proprio in periodi di crisi economica come l’attuale capitalisti imprenditori con l’acqua alla gola potrebbero essere più disposti a fare concessioni di principio, pur di assicurarsi la pace sociale ed un clima costruttivo di collaborazione con i lavoratori ed i loro sindacati. Come ha detto Sacconi, “l’uscita dalla crisi ha bisogno (“anche” n.d.r.) di un ripensamento complessivo dei rapporti economici e sociali”.
Ma il punto nodale è proprio questo. Cosa vorrà dire, in concreto, “ripensamento dei rapporti economici e sociali”?
Nella sua interpretazione più  restrittiva e banale, la partecipazione dei lavoratori agli utili potrebbe risolversi in una sorta di codificato ed allargato “premio di produzione”. Per non parlare di altre interpretazioni ancor meno rassicuranti. “Ripensamento complessivo” potrebbe includere infatti anche nuove concessioni chieste ai lavoratori sul piano della “flessibilità”. Non è un mistero che da tempo una parte almeno del mondo imprenditoriale e del padronato accarezza l’idea di mantenere fissa solo una parte della retribuzione, legando l’altra parte alla produttività. Idea che era stata caldeggiata anche dall’ex governatore della Banca d’Italia, Fazio, ma che –male interpretata- potrebbe nascondere insidie per i lavoratori, se legasse in misura eccessiva il salario a fatti che poco dipendono dal loro diligente lavoro, e molto invece dagli investimenti, dalle tecnologie,  dalle capacità di “marketing” e da economie esterne, a cominciare dalla disponibilità di infrastrutture adeguate.
Viene il dubbio, in sostanza, che questo avvio di possibile dialogo sulla partecipazione nasconda varie riserve mentali: da parte degli industriali, ma anche dei ministri Tremonti e Sacconi i quali, probabilmente, mettono l’accento sulla sola partecipazione agli utili come primo passo possibile. Poi, fatto un passo, se ne può fare un altro. Quel che conta, intanto, è aprire un varco, instaurare nelle imprese un clima di collaborazione. Una cosa è certa: solo in quello scenario neo-corporativo (cioè di leale concertazione tra imprenditori, sindacati e governo) che auspicava già più di trent’anni  or sono l’economista Ezio Tarantelli (che non a caso fu assassinato dalle Brigate Rosse…) l’Italia, superando la logica dissolvente della lotta di classe, può affrontare con spalle più robuste la crisi dell’economia mondiale, ed i suoi prossimi temibili colpi di coda, specie sul piano dell’occupazione.
Ma occorre anche non dimenticare mai che la pace sociale è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per ritrovare la via del progresso economico bisogna sciogliere anche gli altri tre nodi che sono all’origine del collasso deell’economia mondiale: quello di un sistema monetario basato ancora su un dollaro-carta senza più alcun ancoraggio, gestito dalla Federal Reserve in funzione degli interessi economici americani; quello di una finanza internazionale senza regole, e mossa solo dal demone della speculazione; quello di un liberismo senza freni, che ha posto in concorrenza impossibile i lavoratori diseredati del Terzo Mondo con quelli dei Paesi avanzati, costretti da anni a rinunciare a parte delle conquiste sociali e ad accettare una progressiva riduzione del loro potere d’acquisto, che ha condotto ad una parallela riduzione dei consumi privati, avvitando l’economia nella recessione.
La crisi dell’economia mondiale ha dimostrato, per dirla con le parole del Nobel Samuelson, che il mercato, abbandonato a se stesso, non si autoregola: si autodistrugge. Ciò vale anche per il mercato mondiale, come testimonia la rovinosa caduta del commercio internazionale.
Il capitalismo in realtà è ad un bivio storico: o evolve verso il capitalismo della partecipazione, cioè verso un nuovo modello dei rapporti economici e sociali, o regredisce, come è accaduto in questi ultimi anni, verso un paleocapitalismo  ferocemente darwinista, autodistruttivo, perché economicamente e socialmente insostenibile.
Tremonti, che ha un carattere assai difficile, ma cui non manca certo l’intelligenza, sembra averlo capito, anche se si muove con una prudenza  che a noi, impazienti, appare quasi eccessiva. Speriamo lo abbiano capito anche gli imprenditori.