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L'ammirazione davanti allo spettacolo del mondo è il segno che ci stiamo risvegliando

di Francesco Lamendola - 17/10/2009


Abbiamo più volte sostenuto che la capacità di provare stupore e ammirazione davanti allo spettacolo del mondo, e il conseguente atteggiamento di lode e di ringraziamento, è il presupposto indispensabile per conservare nella nostra anima il tesoro prezioso dell'incanto, che la fanciullezza porta con sé in dono ma che, crescendo, tende a dissiparsi, mano a mano che il pensiero razionale lo relega in un cantuccio e mira ad eliminarlo completamente, in nome delle sue orgogliose certezze e della sua indisponibilità alla poesia e alla bellezza.
Al tempo stesso, l'atteggiamento di stupore e ammirazione è il segno inconfondibile - uno dei segni, peraltro - del risveglio spirituale, perché è come se in noi si aprisse una seconda vista, che ci consente di cogliere anche la bellezza che sta dietro le cose e che le illumina, per così dire, dall'interno. Grazie a questa seconda vista, noi riusciamo a percepire, ad esempio, la bellezza di un triste vicolo di periferia, se la luna vi fa capolino dietro le fronde di uno stentato alberello; o l'incanto di un'anima bella, anche se essa è rivestita da un corpo ormai vecchio e malato.
Personalmente, non potremo mai dimenticare la dolcezza e la grazia impareggiabili diffuse sugli occhi di una anziana donna cieca, stesa da anni su di un pagliericcio, ove una malattia la teneva paralizzata senza speranza, all'interno di una baracca indescrivibilmente misera, in una regione sperduta del Brasile… Pareva che quegli occhi, chiusi alla vista del corpo, nondimeno VEDESSERO, in un senso più alto di quello materiale; pareva che il sorriso diffuso sul suo volto si espandesse inspiegabilmente, fino ad abbracciare il mondo intero…
L'incanto del mondo crea nell'anima una dolce sensazione di indefinito: avvolge le cose di un alone incantato e conferisce loro un volto nuovo, tale da sedurci con le promesse di un altrove fatto di pura armonia. È come se le cose, che, allo sguardo ordinario, appaiono chiuse nella loro finitezza (i filosofi dicono: nella loro «inseità»), davanti allo sguardo stupito e ammirato dell'anima che si risveglia, si aprissero e dispiegassero il loro volto più profondo, distribuendo ovunque i tesori della loro bellezza impareggiabile.
E la stessa cosa avviene con le persone, con le situazioni, con il sapere, con la musica, con l'arte: tutto acquista un volto nuovo e smagliante; tutto diviene infinitamente vivido e infinitamente affascinante; tutto appare carico di promessa, di rivelazione imminente, di suprema pace e armonia… TUTTO APPARE COSÌ COME DEVE ESSERE, COME È GIUSTO CHE OGNI COSA SIA. Insomma tutto appare risolto e pacificato, senza per questo cessare di essere immensamente suggestivo e affascinante.
È come quando l'anima vive l'esperienza dell'innamoramento: i luoghi ordinari diventano speciali, le ore consuete divengono uniche e straordinarie: il presente di ogni giorno si trasfigura letteralmente sotto i nostro occhi; il cuore batte all'impazzata; i colori incandescenti della poesia si posano sopra ogni cosa e penetrano fino in fondo alla nostra ultima essenza.
È come se noi non fossimo più noi, è come se una forza immensa ci avesse afferrati come fuscelli e noi fossimo divenuti degli esseri di luce, delle creature radicalmente diverse da quelle che gli altri credono di conoscere, da quelle che noi stessi credevamo di essere.
In breve, è una rivelazione: totale, sconvolgente, ineffabile.
Ha scritto il filosofo Jean Guitton nel suo saggio «Arte nuova di pensare» (titolo originale: «Nouvel art de penser», Aubier, Paris; traduzione italiana a cura del Circolo Fucino di Vittorio Veneto, Roma, Edizioni Paoline, 1983, pp. 13-15):

«Leggendo i maestri si apprende che la prima condizione per imparare a pensare è quella di coltivare in sé la facoltà dello stupore. Voglio citare queste frasi tratte dal capitolo primo della "Metafisica" di Aristotele: "Tutti gli uomini per natura aspirano a sapere. Lo prova il fatto che si amano le percezioni dei sensi: : anche quando non ne sentiamo il bisogno, esse ci piacciono per se stesse, e più di tutte quelle che riceviamo dagli occhi. Al di fuori di ogni considerazione pratica e, per così dire, al di sopra di tutte le cose, noi amiamo vedere". In questa considerazione così semplice e così antica, il vecchio maestro ha trasfuso qualche cosa della sua anima ingenua e della meraviglia del primitivo, dell'artista, del prigioniero e del bambino davanti alle cose più ordinarie e che stancano i nostri sensi. I convalescenti conoscono il valore dell'aria che respiriamo; il semplice godimento della luce e di tutte le differenze ch'essa permette di scorgere all'orizzonte (come Aristotele dice più oltre) ci dovrebbe colmare di stupore e di gioia.
L'ideale sarebbe che ci comportassimo così in ogni occasione: non solo di fronte alle percezioni dei nostri sensi, ma a contatto di tutto quello che ci si presenta allo spirito. Come ogni ideale, questo fissa un limite inaccessibile: ma è bene avere in testa questo limite: esso è un'unità di misura. Noi diciamo che l'atto di pensare suppone una innocenza ritrovata, una maniera verginale di concepire e di sentire.  Si tratterà dunque, mediante una disposizione singolare della volontà - singolare, poiché deve sfociare in uno stati di apertura, di docilità e di abbandono, - di ottenere dal proprio spirito di vivere ogni istante sulla terra come se avesse appena fatto scalo tra gli uomini durante un viaggio interstellare.
Non è affatto un paradosso dire che la prima virtù dell'intelligenza è che essa abbia l'impressione di non comprendere. Come è utile a un professore avere tra il suo uditorio un alunno intelligente e che non afferra quello che vien detto! Jules Lemaître diceva: "Il mio miglior alunno è quello che non è del mio parere". Migliore ancora, forse, è quello che comprende di non comprendere. Il più delle volte noi ci immaginiamo di capire, e quando vogliamo spiegare siamo nell'imbarazzo. In realtà, avevamo avuto l'illusione di capire, le parole sostituivano le cose, una certa emozione fittizia ci lasciava credere di aver penetrato il senso delle formule. Ma il contatto dello spirito con la cosa non si era operato.
Da ciò compendiamo la differenza tra colui che pensa e colui che non pensa. Anche davanti al mistero, il primo dice sempre: "Ma è evidente!" Anche davanti all'evidenza, il secondo afferma: "Non ci capisco niente".  Il primo passo del pensiero è una certa non-inteligenza davanti a ciò che tutti credono ci comprendere.
Per compiacere alla principessa Elisabetta, di cui apprezzava l'intelligenza, Descartes aveva scritto un piccolo trattato sulle passioni. Seguendo sia il gusto del tempo che le regole del suo metodo, cercò di ricondurre le passioni a una passione prima e fondamentale da cui si potrebbero dedurre tutte le altre.  Ora, Irene, sai qual è per Descartes la passione prima ed essenziale? Non è affatto l'amore, come più tardi per Bossuet, né il desiderio, è il voler essere, come per Spinoza. È l'AMMIRAZIONE. Quale atteggiamento dell'anima vuole indicare Descartes con questa parola? Per rispondere con precisione bisognerebbe conoscere la sua storia e la sua intimità; ma noi sentiamo che egli ha voluto esprimere con questo termine astratto  quel fremito di sorpresa davanti all'essere che abitava il suo genio.
Osserva il viso di Descartes nel famoso ritratto di Frans Hals al Museo del Louvre o, ancor meglio, quel ritratto di Pascal schizzato dal vero da Domat sulla copertina di un volume della sua biblioteca, ed esamina il loro sguardo: vedrai in ambedue i casi la medesima dilatazione delle pupille. Degli occhi di Pascal, Emil Boutroux diceva che non si può sapere "se attirano per il genio che manifestano o se intimidiscono per la loro espressione di distacco". È vero, ma è il distacco dell'ammirazione, di cui è unico atto scoprire e rispettare. È questa la ragione per cui bisogna insegnare agli adolescenti l'arte di ammirare: in ciò consiste, a mio parere, uno dei segreti dell'educazione. Discendiamo in noi stessi, e noteremo che il godimento sperimentato dalla nostra età matura nel campo delle lettere o delle arti deriva dal fatto che, in passato, un maestro ha sollevato su qualche punto il velo della consuetudine, comunicandoci un'ammirazione ch'egli nutriva, sempre nuova, nel suo cuore
Non è tanto per quello che ci insegnava che egli ci istruiva, perché quelle cose noi avremmo potuto, a rigore, trovarle in un libro. Ma ci ha fatto penetrare nella sua stessa emozione. Dire come, sarebbe impossibile. È come volere spiegare nell'ordine delle sensazioni che cosa è la risonanza, la fosforescenza o il sapore. Questo "nescio quid" che si aggiungeva al resto, come il rossore si aggiunge ai moti del pudore, come i lampi dello sguardo ai fremiti dell'indignazione: non credi che provenisse precisamente da una ammirazione senza fine coltivata?»

L'uomo moderno ha perduto l'incanto del mondo e deve fare una strada in salita per sforzarsi di recuperarlo: la scienza galileiana, quantitativa e materialista, e la tecnologia che ne è scaturita, l'hanno ucciso.
Ora esso sopravvive soltanto - come osservava giustamente Jean Guitton - nei primitivi (gli ultimi, ormai), negli artisti, nei prigionieri e nei bambini; e anche, aggiungiamo noi, in alcuni malati costretti all'immobilità, che guardano il mondo dalla finestra della propria stanza d'ospedale.
C'è stato un tempo in cui l'incanto del mondo era parte integrante della vita di intere società: quelle primitive, appunto, e, in genere - e sia pure in diverso grado e con diverse sfumature - tutte, o quasi tutte, quelle pre-moderne.
Fra gli innumerevoli testi letterari antichi, nei quali lo stupore e l'ammirazione davanti allo spettacolo del mondo si trasformano in una stupenda preghiera di lode e di ringraziamento, spicca il XIX Salmo della «Bibbia»:

«I cieli narrano la gloria di Dio,
e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio
e la notte alla notte ne trasmette notizia.
Non è linguaggio e non sono parole,
di cui non si oda il suono.
Per tutta la terra si diffonde la loro voce
e ai confini del mondo la loro parola.
Là pose una tenda per il sole
che esce come sposo dalla stanza nuziale,
esulta come prode che percorre la via.
Egli sorge da un estremo del cielo
e la sua corsa raggiunge l'altro estremo:
nulla si sottrae al suo calore.»

Noi non posiamo far rivivere le società pre-moderne come se la modernità non fosse stata o come se si potesse riporla in soffitta, tra gli oggetti che abbiamo deciso di non adoperare più.
E tuttavia, possiamo far rinascere nella nostra anima il senso di stupore e di ammirazione davanti allo spettacolo del mondo, perché lo abbiamo ricevuto in dono dall'infanzia, e, come una fiamma destinata a rischiarare la via, è in nostra facoltà serbarlo con amore, affinché il soffio del vento non lo spenga, e non ci lascia al buio.
Se l'incanto del mondo si spegne, la nostra vita perde gioia e bellezza e affonda nelle tenebre della disperazione. La società moderna è popolata da disperati che hanno smarrito l'incanto del mondo, perché non sanno più stupirsi né ammirare.
Ma noi possiamo sfuggire a questo destino.
Possiamo proteggere con cura la nostra fiammella, la fiammella dell'incanto del mondo, affinché i venti brutali non la spengano e noi non rimaniamo al buio, ma camminiamo nella luce, risvegliati.