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L'evoluzione del sentimento estetico delle Alpi tra Settecento e Novecento

di Luisa Bonesio - 30/03/2006

Fonte: geofilosofia.it

 

 

Lezione tenuta nel Corso “Anche le montagne hanno una storia”, Varese, giugno 2002, in corso di pubblicazione.

 

1. In prospettiva

Da quando furono “inventate” (1), le Alpi non hanno smesso di essere guardate, raffigurate, percorse, studiate. Un’innumerevole quantità di documenti visivi, un reiterato accostarsi ad esse che ha costituito una potente codificazione iconografica ed estetica, con un effetto di durata persistente, ma, al tempo stesso, man mano che ci si avvicina ai nostri giorni e dunque in dipendenza delle trasformazioni tecniche, sottoposto a significative modificazioni. Se le Alpi, nell’immaginario collettivo almeno fino agli anni ’50 del secolo scorso, hanno costituito un linguaggio visivo ed emotivo sostanzialmente unitario, oggi occorre interrogarsi sull’effettiva persistenza di quel modello, a fronte di modalità di “fruizione” della montagna e degli spazi “naturali” inediti e per molti versi sovvertitrici delle precedenti e consolidate forme di esperienza.

Se si cerca di compilare un sommario regesto di elementi che caratterizzano la percezione estetica della montagna in quanto paesaggio, anche in questo caso, la determinazione prospettica della visione non può che costituirne il primo, imprescindibile elemento: la prospettiva artificiale di origine rinascimentale, con le sue regole costruttive, è la “forma simbolica” che permette l’avvento della raffigurazione paesaggistica
(2) in senso propriamente moderno. Nel caso della montagna, in pittura come nell’esperienza culturale, si attua un lento ma inesorabile avvicinamento alle Alpi: dalla Pesca miracolosa di Konrad Witz (1444) in cui è possibile riconoscere monti reali (il Mont Môle e il massiccio del Bianco), e non solo convenzionali, nello sfondo del dipinto, la progressiva messa a fuoco della catena alpina e delle sue montagne porterà a una sempre maggiore definizione della loro fenomenologia. Ma è importante ricordare che la scoperta estetica delle Alpi era avvenuta primariamente nella scrittura, nelle formulazioni dei sentimenti suscitati dallo spettacolo disarmonico e spaesante dei dirupi e delle pareti scoscese, di una natura inospite e severa, assai distante dal desiderio di messa in forma ragionevole espresso dalle poetiche razionali dell’Europa delle corti e dei giardini all’italiana. Dall’espressione, destinata a divenire rapidissimamente cliché fortunato, di John Dennis, del “delizioso orrore” provato nell’attraversamento delle Alpi, alla ripetizione ossimorica, nei termini del gusto sublime e pittoresco, di un’emozione ormai incollocabile nel quadro ordinato delle facoltà e dei loro attributi, da parte di un sempre più ampio numero di viaggiatori intellettuali diretti verso l’Italia, si inaugura e si consolida uno sguardo “sentimentale” che nel giro di pochi decenni si sostanzierà anche delle osservazioni naturalistiche di studiosi ed esploratori, senza che questi sguardi, almeno per un tempo rilevante, si contraddicano in termini di gusto (3). Così, mentre da un lato lo studio botanico, geologico, paleontologico, meteorologico produce figurazioni di dettaglio - spesso ancora in bilico tra rappresentazione mitica e osservazione scientifica, com’è il caso di Jakob Scheuchzer -, il sentimento delle Alpi, codificato dapprima nella sua diffusione sociale attraverso il formulario emotivo ed estetico dei viaggiatori, e poi anche dalle filosofie della naturalità e della sua primarietà etica, nonché dalla fiorente letteratura sulla bellezza esemplare del paesaggio svizzero (4), comincia a essere fissato nell’iconografia, dapprima attraverso la tecnica dell’incisione (5), della stampa e dell’acquerello (6).

Il linguaggio delle forme e dei volumi montani, insieme ad alcuni elementi caratteristici per l’epoca (XVIII sec.) - il torrente e la forra, le conifere irsute e contorte, l’effetto di silenzio raggelato di ciò che nella realtà è rumore assordante, le cascate, le slavine, la bizzarria delle configurazioni naturali - si stabilizza in un’immagine della montagna guardata dalla distanza in cui può esercitare il massimo effetto di sublimità: dunque nel risalto schiacciante della sua mole, della sua pietrosa maestà, valorizzandone i tagli dell’impervio, dell’incombente, del minaccioso; ma anche della sua spettrale osticità, della sua scostante solitarietà, della sua fantasticata impercorribilità. Ancora su Horace-Bénédict de Saussure, il primo esploratore del Monte Bianco, l’impressione prodotta dalla natura selvaggia della montagna è straniante e opprimente: gli aggettivi “selvaggio”, “imponente”, “terribile”, “spaventevole”, “triste”, “desolato”; i laghetti neri, i larici striminziti e tristi, il cielo come una voragine nera
(7) disegnano efficacemente il volto scostante che l’alta montagna presenta ai suoi esploratori. Ma la repulsione o l’estraneità per l’esibizione della potenza delle masse alpine era stata espressa da molte altre voci dell’epoca, compreso Goethe, che pure era massimamente interessato ad altri aspetti (soprattutto geologici e atmosferici) della natura montana: nel suo viaggio in Svizzera, nel cantone di Uri, “le rocce diventavano ancor più possenti e spaventose, l’immenso deserto selvaggio sembrava allargarsi ancora, le pareti diventavano montagne, le forre si facevano abissi, nelle alte solitudini il sonaglio degli animali da soma si mescolava al rumore delle cascate”.

Questa intonazione emotiva colora, nella sua indubbia ambivalenza, peculiare del sentimento sublime, le rappresentazioni dei paesaggi alpini. Forse nessun artista come il pittore svizzero Caspar Wolf (1735-1783) ha saputo cogliere, in 170 quadri ritraenti luoghi dell’Oberland bernese, del Vallese, della valle di Uri, vari ghiacciai e siti pittoreschi, “tutto ciò che la natura racchiudeva di meraviglioso e terribile in quelle regioni”
(8). I suoi acquerelli si possono considerare esemplari nell’illustrare la percezione sublime delle Alpi: le masse rocciose nella loro architettura, le guglie, i ghiacciai con pinnacoli e crepacci, le forre e i precipizi, i ponti vertiginosi e arditi (p. es. Il ponte del diavolo a Schöllenen), i forti chiaroscuri, le rocce incombenti, le grotte, le nuvole e le brume, mediante una resa naturalistica dei particolari combinata con una sensazione dell’insieme decisamente preromantica, spaventevole e quasi spettralmente smaterializzata. Giustamente è stato osservato che le immagini di Wolf dovevano produrre sui contemporanei un’impressione vertiginosa, come lo spalancamento di una dimensione abissale di tempo e di spazio ignoti, o comunque lontanissimi, pur riferendosi a luoghi situati nel cuore dell’Europa. Manifestazioni di una natura a lungo mantenuta estranea dalle culture urbane, ma anche emblema di spazi desertici e desolati, di rocce in rovina, o misterioso e silente crogiolo di forme remote e fantastiche, dai cristalli ai fossili, alle inquietanti metamorfosi delle nubi e dei ghiacci, le Alpi finiscono per incarnare la propensione estetica verso una natura che viene ormai vista nella forma del paesaggio e prediletta nei suoi aspetti selvaggi e primordiali. Primo genere della cultura paesaggistica europea (9), quello alpino consente alla società del tempo un progressivo e sempre più intenso e penetrante accostamento alle montagne, che si può leggere nella cifratura delle rappresentazioni iconografiche.

Non è arduo scorgere in tutto ciò la proiezione compensativa e nostalgica di una cultura europea sempre più inoltrata nel suo destino industriale e urbano, pronta a costruire il mito dell’incontaminatezza primordiale degli spazi alpini: i quali, in realtà, erano da sempre stati luoghi di intenso passaggio e di scambi, ed erano dotati di ben individuate forme culturali. Ma lo sguardo cittadino cui si deve la codificazione estetica delle Alpi imprime su di esse il vagheggiamento di una natura selvaggia, terribile ma forse anche giusta ed esemplare, ospite severa ma formativa di genti che, in un primo momento temute come selvagge e banditesche
(10), vengono rapidamente assimilate all’icona dello Svizzero integerrimo alla Rousseau, almeno nell’iconografia.

Se questa percezione non impedisce, anzi incrementa potentemente la penetrazione e l’immediato sfruttamento turistico delle località alpine, favorendo la trasformazione o la sfigurazione di sistemi di vita millenari, forse la realtà delle culture alpine era destinata a rimanere ancora a lungo nascosta nel pervasivo cliché dell’estetica urbana.

2. Sguardi d’altura

La penetrazione nel cuore dei monti, la conquista di vette e l’esplorazione dei ghiacciai consente anche alla pittura e alle incisioni e, tramite la diffusione delle loro riproduzioni, a strati sempre più estesi di popolazione, di guadagnare punti di vista sempre più elevati. Le montagne perdono progressivamente quell’affilatezza e spigolosità esasperata di profili, la verticalità diviene meno schiacciante, le pareti meno erte; complessivamente gli angoli d’inclinazione dei pendii si fanno meno ripidi, e lo sguardo si concentra sulla dimensione dei ghiacci perenni. Già per tempo c’erano state incisioni con raffigurazioni di ghiacciai, ritratti come un mare tempestoso congelato, irto di emergenze appuntite, tavolata dalle creste quasi arricciate o di guglie dalle fogge fantastiche, spesso popolato di esploratori dotati di lunghe pertiche o di scale: erano i tempi delle prime ascensioni alpinistiche o naturalistiche, che presto si sarebbero trasformate nella moda dell’ascensione per diletto, non riservata ad alpinisti provetti, ma accessibile a un pubblico anche femminile.

Al di là del tema specifico della mer de glace, si può osservare come la conquista di punti di vista più elevati modifichi la prospettiva, aprendo nuovi orizzonti. Le montagne hanno sempre opposto una specifica difficoltà a essere ritratte senza che ne fosse sminuito l’effetto sublime: per questo, passando progressivamente dallo sfondo del quadro al primo piano, diventa inevitabile la sensazione di ripetitività della pittura che le ritrae: la lontananza prospettica dalla quale esse possono esercitare il loro effetto sull’osservatore costringe a una rappresentazione che ne privilegia l’insieme, e dunque la massa e il profilo. Ciò che è consentito dall’avvicinamento sono gli scorci singolari, gli effetti pittoreschi delle rocce e delle cascate, i laghetti, le forre, anch’essi necessariamente ripetitivi e costretti a misurarsi con la chiusura, spesso ravvicinata, dell’orizzonte. La conquista di altezze più elevate, corrispondente all’abitudine a frequentare esteticamente, naturalisticamente e sportivamente zone meno immediatamente accessibili, consente di scoprire nuove forme e inedite attrattive artistiche della montagna: innanzitutto l’apertura di un orizzonte dall’alto, e poi la possibilità di cogliere la connessione delle catene e l’avvicendarsi delle dorsali, che diminuisce significativamente la sensazione, sulla quale le poetiche del sublime avevano basato la loro fortuna, dell’isolatezza solitaria delle vette. Se questa nuova coscienza dispiacerà a quanti continuavano a vedere il “senso” dei monti nella culminazione aguzza della punta, e dunque nella retorica della volontà faustiana e della “conquista” - gli alpinisti -, essa consentirà una nuova comprensione e un diverso accostamento al paesaggio e alla realtà montana, aprendoli in nuove articolazioni.

Senza ripidità delle pareti, gran parte del fascino (eroico) della scalata si perderebbe: sono la difficoltà tecnica e il pericolo a costituire la sfida per l’alpinista, fornendo temi e accenti alla retorica della conquista. Si potrebbe dire che l’apprezzamento estetico ed etico della verticalità sono una segnatura profondamente faustiana dell’amore per le montagne, in modo analogo all’attrazione per lo sconfinato, il lontano, il nascosto. Ed è la verticalità a provocare un’analoga sfida di elevazione e di dimostrazione di potenza nell’uomo che, avendo perduto la reverenza sacrale o le paure superstiziose nei confronti dei luoghi inaccessibili, esplica la sua tensione alla scoperta e all’appropriazione.

Ma questa, per quanto sia stata largamente prevalente, non è rimasta l’unica disposizione estetica ed etica, nemmeno in epoca moderna, in grado di cogliere “la verità della montagna”. È rivelatrice l’illuminante polemica che intercorse nella seconda metà dell’Ottocento tra gli esponenti del Club Alpino inglese e John Ruskin. I primi erano i rappresentanti della convinzione secondo la quale la montagna la si conosce solo ascendendola, misurando la sua altitudine con il proprio corpo, intagliando gradini nel ghiaccio, e non limitandosi ad apprezzarne l’imponenza da lontano, come un banale turista o un esteta: “La ripidezza non si esprime in gradi, ma con il ricordo della sensazione prodotta da un pendio di neve che pare levarsi in piedi e prendervi a schiaffi; quando, lontani da qualunque umano soccorso, vi trovate aggrappati come una mosca alle sdrucciolevoli pareti di un pinnacolo sospeso a mezz’aria”
(11). Rispetto alla intensificazione dell’esperienza emotiva e sensoriale provocata dall’altezza, che verrà riconosciuta ed enfatizzata dalla cultura romantica, qui in più viene sottolineato quell’elemento della padronanza - fisica e mentale - sulla grandezza della natura, reso possibile anche da una razionalità osservativa, improntata alla scientificità, poco incline ad avallare l’idea romantica del Tutto della natura vivente. Sul versante opposto sta la solitaria ma lungimirante polemica di Ruskin a favore della bellezza alpestre e dell’elaborazione di un linguaggio estetico in grado di restituire la verità delle montagne, in cui risuona con vigore la denuncia verso una cultura che abbassa l’altezza delle vette alla misura della sua arroganza e volgarità, tanto nell’alpinismo che nell’industria turistica (12). In realtà a Ruskin interessava far emergere dalle sue teorizzazioni, descrizioni e disegni accuratamente naturalistici che le montagne non sono una sequela di cime irrelate, bensì una totalità, all’interno del Tutto più ampio della natura; e dunque che non sono tanto la diagonale e il vertice aguzzo a condensare il senso della montagna, quanto la linea curva, la continuità strutturale tra una cima e l’altra, la sinuosità dei crinali e l’arrotondamento dei colli: una visione assai più “femminile” del monte, che smentirebbe il senso stesso della retorica “militaresca” e virile della conquista alpinistica.

Inoltre, a parere di Ruskin, vere cuspidi nelle montagne sono molto più rare di quanto non si pensi: “È strano come raramente, anche tra le catene più imponenti, sia possibile trovare un esempio di montagna veramente appuntita, nel vero senso della parola - con una vetta alla sommità e ripidi pendii su tutti i versanti”
(13). Anche il mitico profilo del Cervino, un’icona della pittura di montagna ed esempio principe del sublime fino al Novecento (“A Zermatt il Cervino, immagine infantile della montagna assoluta, si presenta come se fosse l’unica montagna in tutto il mondo” (14)), veniva da Ruskin “decostruito” mediante un’attenta valutazione degli angoli d’inclinazione delle dorsali e del clivaggio curvo delle rocce che costituiscono le guglie; del pari, e sempre sulla base di un attentissimo studio delle forme e degli elementi naturali, le creste gli apparivano caratterizzate da “una curvatura radiante”. Non solo la tipologia delle rocce (struttura cristallina, durezza, ecc.), ma soprattutto l’azione equorea erano da Ruskin valutate come un fattore decisivo per comprendere la forma attuale (e sempre in divenire) delle montagne: “La montagna è stata creata con un istinto regolatore, ma il suo destino finale dipende, ciononostante, dall’andamento di piccoli, quasi invisibili, rivoli d’acqua, tra le cui sponde si è instradato il primo acquazzone. I flebili, quasi inavvertibili, trasudamenti di rugiada tra le sue polveri erano, in realtà, gli arbitri della sua forma eterna; erano un tocco più dolce del tocco di un bambino, silenti e delicati come una lacrima trattenuta sulla gota di una fanciulla, eppure incaricati di fissare eternamente la forma del picco e del precipizio, di solcare un granito le cui elevazioni avrebbero spartito la terra e i suoi regni” (15). Un’ampia sezione della sua monumentale opera sui pittori moderni è dedicata a una minuziosa spiegazione volta a decostruire l’ideologia piramidale e cuspidale della montagna (a partire, peraltro, dall’analisi dei dipinti del più grande pittore romantico di paesaggio, Turner), sulla scorta di un’approfondita analisi geologica, visuale ed estetica. Anche nella costituzione delle rocce, secondo Ruskin, si dà a vedere l’autentica immagine della bellezza, alla cui essenza è indispensabile la linea curva, nelle forme prodotte dal clivaggio, dall’azione meteorica, dal dilavamento e dalla caduta: non fratture spigolose, ma sempre scissioni secondo linee incurvate che esprimono una legge organica sottostante all’intera natura: “le rocce saranno governate, nel loro deperimento eterno, dalle stesse regole che guidano l’incurvarsi della canna e il fiorire della rosa” (16).

Con l’analisi - per certi versi unica - di Ruskin, si affaccia l’idea che la “gloria delle montagne” non sia racchiusa nella vetta, nella culminazione della ripidezza, quanto nella decadenza, nel rovinare dell’insieme che, tra l’altro, genera anche le cime
(17). Dunque rovesciamento singolare dell’ottica verticalizzante da cui le montagne avevano ricevuto fascino e attrattiva, in una visione che riconosce lucidamente come frutto di un mediocre effettismo l’esagerazione sublime e stürmer della terribilità del paesaggio alpestre, e insieme raccoglie, dell’eredità speculativa romantica, l’idea di una Naturphilosophie all’interno della quale l’uomo è solo un componente di una tessitura assai più ampia e complessa che va riconosciuta e rispettata integralmente. Ma se questa posizione teorica era destinata a rimanere a lungo un’eccezione, il sentimento estetico di molte rappresentazioni, guidato anche dall’osservazione, restituisce comunque immagini meno “virili” e ascensionali delle montagne: l’arrotondamento delle rocce ad opera dello scorrimento dei ghiacci, le spaccature e le seraccate, l’aspetto fossile e abbandonato delle colate glaciali, e soprattutto pianori e altopiani d’altura in cui lo sguardo riposa orizzontalmente o può liberamente spaziare davanti e sotto di sé, scoprendo, dopo i mari di ghiaccio, i mari di montagne (18) e vallate.

3. Le montagne romantiche e il paesaggio soggettivo

Il periodo delle poetiche romantiche investe il paesaggio, e quello alpino in particolare, di significati che lo riconducono all’interiorità e al sentire soggettivo. La disposizione scientifica e analitica che si era mantenuta all’interno del sentire sublime del XVIII secolo lascia il posto a una trasposizione sempre più accentuata della realtà del paesaggio nel sentire e nell’emotività individuale. La natura diventa, soprattutto nell’effetto di ripetizione a livello di massa, una quinta o un pretesto per mettere in scena la soggettività, sia dal punto di vista della sua umbratilità sentimentale ed estetica, che da quello dell’affermazione della sua volontà ed individualità. È una strada che, tra l’altro, giustifica e fornisce stimoli sempre rinnovati alla pratica agonistica dell’alpinismo (19) e alla focalizzazione della montagna nella vetta. Ma la cima non è, per molti versi, che un’occasione per mettere alla prova un’attitudine tipicamente faustiana e superomistica, in cui la natura in quanto tale è sempre meno considerata, o sarà considerata come materia inerte da vincere e superare. L’atteggiamento estetico romantico, nella sua sostanziale e inclassificabile ambivalenza, si trova magistralmente espresso dal quadro-simbolo dell’epoca, Il viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, che mette in scena, per così dire, il senso filosofico profondo dell’attitudine romantica nei confronti della natura: il viandante, visto di spalle, rappresentazione en abyme dello sguardo paesaggistico stesso, contempla, in posa inconfondibilmente signorile, una distesa di nuvole da cui emergono vette isolate, in piedi su un’altura che a sua volta ha conquistato. È la raffigurazione dello sguardo del soggetto occidentale, allegoria del dominio effettivo del mondo, ma anche contemplazione estetica che forse, a rigore, non “vede” nulla, o poco, della natura che gli sta di fronte nella sua abissale alterità, ma molto immagina e proietta, compiacendosi di cieli tempestosi e oscuri, retaggio diretto delle poetiche del sublime (20). Nell’idea che la natura del paesaggio montano possa essere ormai solo evocata, si trova la prefigurazione di molte affermazioni circa l’ineffabilità della Natura, compreso il rischio che tale evocazione possa ridursi a un mero “rispecchiamento” della soggettività dello spettatore. Così Caspar David Friedrich affermava che l’arte “deve solo alludere, ma soprattutto stimolare lo spirito, lasciare alla fantasia un campo d’azione, e dunque il dipinto non deve porsi il fine di rappresentare la natura, ma solo di evocarla. Il compito dell’artista non consiste nella fedele rappresentazione del cielo, dell’acqua, delle rocce e degli alberi; sono la sua anima e la sua sensibilità a doversi rispecchiare nella natura. Riconoscere, penetrare, accogliere e riprodurre lo spirito della natura con tutto il cuore e con tutta l’anima è dunque il compito di un’opera d’arte” (21). E questo è confermato dalla pittura stessa di Friedrich (e di molti altri artisti impregnati di temperie romantica), dove a essere rappresentato e descritto non è più, come nella pittura settecentesca, il luogo, bensì “la situazione, la relazione del soggetto con il sito, il suo modo d’essere nell’ambiente naturale, coscienza prospettica della collocazione dell’io nel mondo” (22).

Ma, come si diceva, vi è sicuramente un altro potente tramite che perpetua lungamente il sentire romantico della montagna: l’alpinismo. Senza qui poter entrare nel merito di questioni storiche e tecniche relative a questa attività, si farà un semplice cenno a quella che si potrebbe chiamare l’“ideologia” alpinistica probabilmente più diffusa, l’impulso a conquistare, a “fare” una vetta. È una disposizione che ha una sua precisa collocazione storico-temporale (l’Occidente moderno) e che, da un punto di vista filosofico, diventa comprensibile nel quadro della Stimmung faustiana della civilizzazione occidentale, nell’anelito alla conquista dello spazio, dell’inaccessibile, del lontano, spiegando la pulsione esplorativa e desacralizzante delle sue manifestazioni culturali in nome dello spirito di obiettivazione scientifica: si tratta di un uomo storico che “è attratto dall’Everest non per la vista che può offrire, ma per il record che gli consente di raggiungere. La biblioteca non è per lui il luogo delle Muse, ma uno spazio di lavoro, completo di arredo tecnico. Trascura di onorare i morti, ma va a frugare dentro alle tombe più antiche”
(23). Da parte di chi si identifica senza distanza nelle ragioni faustiane della mentalità moderna, le pratiche esplorative, all’interno delle quali si possono situare anche l’alpinismo e il turismo, appaiono invece come “un’attività dettata in ultima analisi dal bisogno dell’uomo di riconoscere e sottomettere con la propria presenza fisica qualunque angolo, qualunque anfratto, qualunque minima o enorme protuberanza o cavità di questa crosta terrestre su cui siamo chiamati a vivere. Tutto ciò rientra - e senza pregiudizio degli aspetti più propriamente sportivi della passione alpinistica - in quelle forme del sapere e della cultura che hanno per oggetto la conoscenza della natura largamente intesa” (24).

Storicamente, non è difficile riconoscere nel Romanticismo la temperie culturale che ha fornito un linguaggio all’apprezzamento estetico della natura selvaggia, da cui in precedenza ci si manteneva a una distanza di sicurezza, aborrendola, in nome dei valori umanistici della messa in forma razionale della natura, come deformità e temendola come luogo del pericolo, dell’ignoto, del numinoso, precondizione di ogni successiva forma d’interesse, anche pratico, verso la peculiarità delle montagne. Al Romanticismo, che appone un’indelebile segnatura estetica, ma anche etica, sugli spazi selvaggi delle Alpi, risale quell’interesse estetico per il primordiale, l’incontaminato, il libero da cui deriverà l’attitudine etica alla preservazione, in quanto valori anche di ordine etico, di queste dimensioni all’interno di un mondo sempre più conformato agli imperativi produttivi dell’economia industriale e sempre meno sensibile agli scempi perpetrati in suo nome a danno della natura e di forme culturali differenti. Ma, come si è accennato, c’è un’ambivalenza romantica nel rapporto dell’uomo con la natura: da un lato esaltata, ricercata per con-fondersi in essa, divinizzata; dall’altro, inestricabilmente, oggetto o pretesto per l’enfatizzazione dell’io individuale, per il compiacimento della sua esaltazione, sensibilità, slancio superomistico.

L’affermazione di Schelling, secondo la quale “ciò che noi chiamiamo Natura è un poema di cui la meravigliosa e misteriosa scrittura resta per noi indecifrabile”, sintetizza filosoficamente la cifra del fascino della montagna destinata a fissarsi nel cliché delle rappresentazioni artistiche e poi del sentire comune. L’uomo che ha vinto l’antica paura per le montagne grazie alle risorse tecniche continua nondimeno a sentirsi sovrastato da una grandezza minacciosa e da una ricchezza di manifestazioni che gli fanno sentire l’inadeguatezza delle sue conoscenze umane-troppo umane, l’insufficienza dei suoi linguaggi a restituire il potente sommovimento dell’immaginazione di fronte a manifestazioni della natura di cui condivide sempre meno il senso.

Se questa è probabilmente la cifra filosofica del sentire romantico, non c’è dubbio che essa costituisca l’avvio non soltanto di una fecondissima stagione pittorica, ma anche del sentimento estetico comune, in cui le montagne diventano il principale soggetto del genere paesaggistico, spazio nel quale l’epoca proietta il proprio desiderio di libertà, solitudine, avventura e selvaggio. Pur senza poter in alcun modo ricondurre a una considerazione unitaria i differenti stili e le diverse personalità di moltissimi artisti, la temperie romantica si lascia riconoscere per la Stimmung dello sguardo portato sulla natura dei monti, e anche per la sua collocazione del punto di vista a un’altezza ideale, che, sotto molti aspetti, il gusto paesaggistico per le montagne non ha più abbandonato, favorito anche, con il trascorrere del tempo, dalle nuove possibilità aperte dalle vie di comunicazione e dai mezzi di trasporto per avvicinarsi alle vette (ferrovie, funicolari, funivie, seggiovie, ecc.). Il punto di vista che consente uno sguardo ampio intorno a sé, dapprima ritratto dai pittori e dagli incisori, diverrà una possibilità di massa con la costruzione di terrazze panoramiche e belvederi, o riprodotto nella finzione dei “panorami” e dei diorami cittadini, ma anche delle strade che attraversano valichi, rendendo accessibile a tutti la percezione del movimento e della concatenazione dei massicci montuosi. Sempre di più ci si porta ad altezze elevate, in vista delle cime, con la distesa delle pianure sotto di sé. È noto che le possibilità di produrre vedute panoramiche o scorci pittoreschi fu deliberatamente sfruttata dai costruttori dei tracciati ferroviari in altura: il movimento reso possibile dai mezzi tecnici moderni dinamizza irreversibilmente la percezione “classica” della montagna come emblema dell’immobilità e dell’eternità, potentemente ribadita nello sguardo dal basso verso la mole maestosa, e al contempo la sottrae dalla sua isolatezza remota, immettendola inesorabilmente e rapidamente nel circuito della comunicazione, rendendola accessibile spazialmente e temporalmente.

Anche se cronologicamente misurabile in pochi decenni, il tempo che separa i dipinti di Caspar Wolf dalla moda dei “panorami” distanzia due mondi ormai eterogenei. Già ampiamente ridotte a cliché cartolinistico, le Alpi, il “terreno di gioco” d’Europa, sono diventate meta di massa, e la loro trasformazione è in atto. È tuttavia da notare come, per molto tempo, il fascino della loro massa rocciosa continui a essere identificato, nell’immaginario collettivo fin quasi ai nostri giorni, con gli scorci e le vedute in cui le poetiche del pittoresco e del sublime l’avevano colta, all’inizio della loro scoperta estetica, nella prima codificazione del gusto paesaggistico. Ancora oggi, se si guardano le foto delle agenzie turistiche che reclamizzano le attrattive di un viaggio alpino, in esse appare riconoscibile, pressoché identica, la messa in forma originariamente sublime di molti luoghi, la ripetizione della scelta prospettica, la valorizzazione - nel diverso medium di rappresentazione - degli stessi effetti. La fascinazione ambivalente e straniante del sublime in cui avvenne l’invenzione delle montagne rimane come appeal fino al marketing turistico: in effetti, la ripetizione del cliché, che nell’arte alta avrebbe portato a un effetto di saturazione, sembra continuare a garantire la riconoscibilità dell’immagine montana come specifico costrutto di una cultura, spesso funzionando anche da inconsapevole e rassicurante protezione rispetto a una vera conoscenza della realtà - naturale e culturale - del mondo alpino.

È infine interessante accennare, come caso esemplare e, per certi versi, eccezionale, a quello che si può considerare l’imprimatur artistico su una vallata alpina tra le ultime ad essere “scoperte” dal turismo: l’Engadina. Altopiano ampio e dai profili dolci, con laghi, circondata da imponenti ghiacciai, enclave culturale che ha saputo mantenere quasi intatta la sua fisionomia architettonica e paesaggistica, è entrata nel circuito di un turismo - soprattutto estivo - caratterizzato da una forte impronta intellettuale, grazie alla duplice investitura di Nietzsche e Segantini. Il primo, che vi soggiornò ripetutamente negli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo, la descrisse nelle sue opere e nella sua corrispondenza cogliendone la particolarità, climatica e luministica, di paesaggio “intermedio tra il ghiaccio e il Sud”, in cui le asperità tipicamente montane si trovano stemperate in un’ampiezza e chiarità d’orizzonte abbastanza insolita nelle Alpi
(25): “questo luogo stupendo, a cui la mia gratitudine vuol fare dono di una fama immortale” (26). Il secondo la consacrò visivamente in alcuni dipinti (Segantini aveva anche progettato di realizzare una serie di quadri con l’intero giro d’orizzonte per un diorama) che si possono a buon diritto considerare il monumento che ha creato il mito dell’Engadina, della sua luminosità, della felicità delle vette elevate e della trasparenza dell’aria: “Il suo cantico dell’Engadina ha attirato in questa vallata d’altura milioni di persone. […] Poco prima che gli sport invernali schiudessero un nuovo avvenire alle elevate vallate montane, Segantini ha innalzato, nei suoi dipinti, un monumento alla gloria della bellezza e del silenzio dell’alta montagna, facendo vibrare ancora una volta tutte le emozioni dello spirito e dell’anima che si erano destate al tempo di Rousseau e di Goethe” (27). Il tipo di frequentazione che ne è scaturito è stato fortemente improntato alla “filosofia” di queste due codificazioni, e l’Engadina, certamente in misura maggiore rispetto ad altre località delle Alpi, è stata meta intellettuale, artistica e spirituale in piena contemporaneità, rafforzando, anche grazie a questo sguardo non massificato, la vocazione locale alla conservazione e alla valorizzazione della propria identità culturale e paesaggistica. Inoltre, restituendo trasparenza al paesaggio montano, dipingendola nel suo aspetto invernale, Segantini aveva avviato quella smaterializzazione delle masse alpine e quell’effetto di progressiva levitazione che culmineranno nei profili azzurri di Hodler intorno alle superfici dei laghi; ricapitolazione sintetica, quasi un moderno e vibrante geroglifico, dell’immagine montana e dell’immensità del paesaggio, ma anche modalità inedita di realizzare l’idea dell’altitudine, dipingendo solo la parte superiore delle montagne, e non più il corpo intero, e proiettandole, per così dire, verso lo spazio del cielo, spesso raddoppiato dall’apertura beante dei laghi. Ormai conosciuta in tutti i suoi particolari, e consumato l’effetto della mole e dell’elevazione sublime, la montagna può essere allusa nel grafismo vibrante e colorato della silhouette, permettendo così a un importante elemento del paesaggio alpino, i laghi, di essere ritratti al di fuori di ogni ricerca del pittoresco.

4. Dalla selvatichezza alla modernizzazione

Se l’aspetto che ha maggiormente colpito l’immaginazione culturale sette- e ottocentesca è stato quello della mole minerale, e le rappresentazioni ne restituivano un volto solitario, estremo, spesso desolato, quasi di terra primigenia, non va dimenticato che un accentuato interesse per i costumi degli abitanti si era manifestato fin dal Settecento sotto l’influsso del poema di Haller e poi della filosofia di Rousseau. Per molti versi questo interesse era molto simile a quello portato dalla cultura europea sui mondi esotici, prefigurazione dell’atteggiamento etnografico con cui ci si volge alle culture in via di sparizione. Per molti decenni la cultura alpina è stata, agli occhi di quella cittadina che la usava per il proprio svago o il proprio interesse economico, una manifestazione folkloristica, e quasi sempre gli stessi abitanti delle regioni alpine più soggette al turismo hanno cercato di conformarsi a questo sguardo o sono stati costretti ad entrare nelle logiche economiche provenienti dalle zone urbane e di pianura. Dal punto di vista della percezione estetica, l’immissione nel tempo e negli spazi dell’industria e delle comunicazioni ha prodotto molte trasformazioni dell’immagine montana, sempre meno pacificamente assimilabile alle rappresentazioni ideali del passato. Probabilmente la cosa non va vista esclusivamente nell’ottica negativa del venir meno di caratteri (appartatezza, solitudine, silenziosità, incontaminatezza dell’aria, salubrità del clima, armonia dei paesaggi tradizionali, ecc.) che la connotavano in passato, ma anche in quella di elementi di novità che entrano a connotare l’immagine contemporanea delle Alpi.

Edifici alberghieri, insediamenti turistici, ma anche sanatori, centrali e impianti idroelettrici, l’arditezza dei tracciati stradali identificano e qualificano i luoghi nella percezione della realtà alpina, sottraendola definitivamente all’aura di un tempo arcaico e immutabile che l’impervietà naturale avrebbe preservato. L’afflusso sempre maggiore di forestieri nelle montagne cambia gli stili di vita degli abitanti, si ripercuote sulla loro edilizia, sulle forme economiche tradizionali. L’immagine novecentesca della montagna è sempre più quella di un luogo mondano (soprattutto nella prima metà del secolo), dove le stazioni celebri di villeggiatura spesso sono anche centri cosmopoliti e culturali, in cui la borghesia si celebra con le proprie dimore di vacanza. Una scorsa alla cartellonistica dell’epoca, alle affiches che reclamizzano le località del turismo montano, alcune delle quali sede di olimpiadi invernali, mostra un’immagine delle Alpi pienamente avviate verso le forme contemporanee del consumismo, valorizzate particolarmente nella stagione degli sport invernali, cui sono ormai dedicati vari impianti e infrastrutture destinate col tempo a incidere pesantemente sulla figura del paesaggio tradizionale e sugli assetti ecologici. L’offerta delle superfici sciabili e delle loro qualità paesaggistiche e agonistiche e il moltiplicarsi degli sport invernali diventa decisiva nella concorrenza fra le località, ma non lo sono meno le possibilità ricreative che ne costituiscono la cornice mondana. Così una grande stagione degli alberghi di lusso, soprattutto in Svizzera e nelle Dolomiti, rimane impressa nell’immaginazione collettiva, ma anche ritratta nella letteratura dell’epoca, sulla scia del Bergroman manniano, ma anche efficacemente testimoniata nelle vicende biografiche di molti artisti e scrittori, da Ludwig Kirkchner a Annemarie Schwarzenbach. Se le Alpi sono diventate il salotto invernale internazionale, da St. Moritz a Cortina, ci sono anche le Alpi di un’élite della roccia, che ha usanze meno mondane e moderniste dello sci, eleggendo luoghi e stili più austeri.

E ci sono le montagne incantate dei sanatori, che dai primissimi anni del Novecento (è del 1901 la fondazione del primo sanatorio italiano, Pineta di Sortenna) conoscono una significativa presenza, contribuendo a diffondere (tramite degenti e medici) la conoscenza delle regioni alpine anche in mondi molto distanti. Inoltre l’immagine delle montagne che viene consacrata nella letteratura di sanatorio appare molto lontana da quella prevalente, all’insegna dello svago e della salute sportiva. La fissità del paesaggio che si è “condannati”, spesso per anni, a contemplare, è l’opprimente e inevadibile parete dei monti che chiudono l’orizzonte, lo scatenarsi inesorabile delle bufere invernali
(28), o l’avvicendarsi ripetitivo delle stagioni costituiscono il paradosso di un pittoresco che diventa la monotona condanna dell’immobilità ansiosa del malato, mentre la montagna torna a connotarsi di ostilità, mutezza, geologica indifferenza. Sia gli alberghi di lusso che i sanatori e le terme, con il loro stile spesso fantasioso, che individua indelebilmente un’epoca, hanno lasciato un’impronta significativa, ormai sempre meno avvertibile o definitivamente consegnata alla documentazione fotografica, nell’architettura liberty e nel paesaggio della belle époque della montagna; mentre permane, caratterizzando spesso anche l’esperienza di escursionisti domenicali, la presenza di quel tipo di costruzioni che forse contrassegnano maggiormente lo spirito faustiano della moderna architettura, nelle Alpi, gareggiando titanicamente con le forme stesse del paesaggio: gli impianti idroelettrici, i laghi artificiali e le dighe.

Lo sguardo estetico portato sulle montagne, dopo essersi soffermato sull’effetto d’insieme, sulle ampie vedute panoramiche e le forme più spettacolari, anche grazie all’entrata in scena del mezzo fotografico
(29), va progressivamente specificandosi, dettagliando la realtà alpina in ogni suo aspetto naturale ed etnografico, avvalendosi anche dei circuiti delle riviste e pubblicazioni specializzate, che oggi hanno sostituito, nella diffusione delle immagini alpine a livello di massa, le cartoline e le stampe di un tempo. È inoltre fondamentale ricordare che se l’alta montagna sembra uno dei paesaggi meglio conosciuti e più visti, è merito essenzialmente della fotografia, che con le sue immagini rende possibile anche a tutti quelli che non ci sono mai stati (e sono la stragrande maggioranza) il godimento delle vette, creste e panorami delle montagne di tutto il mondo. Divenute senza quasi residui oggetti da commercializzare, le Alpi mettono a frutto il ruolo primario della riproduzione fotografica e delle sue risorse tecniche, innanzitutto la potenzialità del colore, che può essere accentuato e variamente manipolato al fine di ottenere effetti di grande impatto, o viceversa, di valorizzare i contesti più quotidiani o inappariscenti della montagna. Il transito delle stagioni, i loro segni, il lavoro contadino e pastorale, gli oggetti domestici e la vita comune, il fieno, gli animali, i fiori, le acque prendono il posto dei soggetti grandiosi e unici, venendo incontro alla richiesta del pubblico di icone di vita semplice, “autentica”, minimale, di spazi e di ritmi di fatto in gran parte sradicati con l’immissione dell’ecumene alpina nella mobilitazione totale della tecnica. Così l’attuale produzione di immagini delle Alpi corrisponde alla duplice anima del moderno, di consumo commerciale e assoggettamento sempre più pervasivo alle logiche del turismo da un lato, e dall’altro di tardiva ed estetizzante pietas nei confronti di mondi culturali e dimensioni naturali che la logica dell’economia e della tecnica hanno condannato alla sparizione; così come talora la maestria del fotografo e l’uso di effetti particolari (p.es. foto di paesaggi innevati al chiaro di luna, effetti d’acqua, foschie, nuvole) è espressione di un sentimento nostalgico della natura che ne valorizza le cariche armonizzanti, rasserenanti, rispetto alle quali è suggerito dalle immagini fotografiche l’invito a rendersi partecipi ed empatici rispetto alla sua bellezza. Lontane dall’intento spesso plateale di “vendere” un prodotto, o di renderlo appetibile “gastronomicamente” con l’esibizione smaccata dell’appeal, queste foto, che hanno preso piede negli ultimi anni parallelamente al desiderio sempre più ampio di “ritorno” alla natura, cercano di suscitare una conciliazione con la natura offesa e deturpata, destando una forte empatia con essa attraverso cromatismi di grande effetto o la struggente poetica della residualità o del minimalismo di gesti e aspetti contemplati nella consapevolezza della perdita.


Note:
 

1. Riprendo il termine nell’accezione codificata nel testo di Ph. Joutard, L’invenzione del Monte Bianco, tr. it. di P. Crivellaro, Einaudi, Torino 1993.
2. Cfr., p. es., A. Roger, Court traité du paysage, Gallimard, Paris 1997.
3. Cfr. E. Pesci, La scoperta dei ghiacciai. Il Monte Bianco nel ‘700, CDA, Torino 2001 e P. Giacomoni, Il laboratorio della natura. Paesaggio montano e sublime naturale in età moderna, Angeli, Milano 2001. Sul viaggio pittoresco, cfr. G. Scaramellini, Il pittoresco e il sublime nella natura e nel paesaggio, in M. Baldino, L. Bonesio, C. Resta, Geofilosofia, Lyasis, Sondrio 1996, E. Pesci, La montagna del cosmo. Per un’estetica del paesaggio alpino, CDA, Torino 2000.
4. Cfr. A. von Haller, Die Alpen (1729), tr. it. di P. Scotini, Tararà, Verbania 1999.
5. P. es. J.J. Scheuchzer, Itinera per Helvetiae Alpinas regiones (1708).
6. Sull’evoluzione della pittura alpina, il rimando classico è a U. Christoffel, La peinture de Montagne, CAS, Zöllikon 1963.
7. H.-B. de Saussure, Voyages dans les Alpes, tr. it. parziale a cura di P. Brogi, Le prime ascensioni al Monte Bianco, Savelli, Roma 1981.
8. La citazione dall’Allgemeines Künstlerlexicon è in U. Christoffel, op. cit., p. 73.
9. Sulle culture di paesaggio e le culture senza estetica del paesaggio, cfr. A. Berque, Les raisons du paysage. De la Chine antique aux environnements de synthèse, Hazan, Paris 1995 e L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 2000.
Secondo lo stereotipo che aveva il suo luogo d’origine nei dipinti di genere di Salvator Rosa, e che darà luogo all’espressione di Horace Walpole, rivelatrice della matrice artistica dello sguardo estetico portato inizialmente sulle Alpi, “precipizi, montagne, torrenti, lupi, cupi tuoni, Salvatore Rosa”, coerente con un gusto avventuroso ed esoticheggiante di cui il viaggio di William Whindam e Richard Pockoke verso il Monte Bianco, nel 1741, testimonierà (cfr. S. Schama, Imperi verticali, abissi della mente, in Paesaggio e memoria, tr. it. di P. Mazzarelli, Mondadori, Milano 1998).

11. Leslie Stephen, cit. in ivi, p. 516.
12. “Voi avete disprezzato la natura; cioè tutte le profonde e sacre sensazioni dello scenario naturale. I rivoluzionari francesi trasformarono le cattedrali di Francia in stalle; voi avete trasformato le cattedrali della terra in piste di gara. La vostra unica idea di divertimento consiste nel percorrere in ferrovia le loro navate e apparecchiare la tavola sui loro altari” (J. Ruskin, cit. in S. Schama, op. cit., p. 518).
13. Secondo Ruskin non erano, nelle Alpi, più di cinque: Finsteraarhorn, Wetterhorn, Bietschhorn, Weisshorn e Monviso.
14. T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975, p. 276, che aggiungeva: “sulla cresta del Gorn, si presenta invece come anello di una catena infinita”. Cfr. anche la lettura densamente filosofica della figura del Cervino, esemplarità della montagna che apre, heideggerianamente, il proprio luogo, in H. Maldiney, Cervino, tr. it. di M. Del Ranco, Tararà, Verbania 2002.
15. J. Ruskin, op. cit., p. 1469.
16. Ivi, p. 1445.
17. Tema che si troverà significativamente ripreso nel saggio di G. Simmel, Le Alpi, in Saggi di cultura filosofica, tr. it. di M. Monaldi, Guanda, Parma 1993.
18. Sui “mari di montagne”, cfr. J. Ruskin, op. cit., parte V, cap. XV.

19. Cfr. L. Bonesio, Montagne romantiche e rocciatori dello spirito, in Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio 2002.
20. Ruskin sottolineava criticamente come fosse propria della pittura contemporanea la predilezione per cieli tempestosi, nuvolosi, per l’oscurità, i contrasti improvvisi di luce, la foschia, i colori scuri, gli scenari tristi, selvaggi e caotici.
21. C.D. Friedrich, Scritti sull’arte, tr. it., SE, Milano 1989, pp. 40-41.
22. S. Pegoraro, Nel solitario cerchio. L’infinito e la pittura di C.D. Friedrich, Pendragon, Bologna 1994, p. 66.
23. E. Jünger, La forbice, tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996, p. 157.
24. M. Mila, Scritti di montagna, Einaudi, Torino 1992, p. 24. Per un’analisi dell’ideologia romantica della montagna, cfr. L. Bonesio, Montagne romantiche e rocciatori dello spirito, in Oltre il paesaggio, cit.
25. “In molti paesaggi di natura scopriamo di nuovo noi stessi, con piacevole brivido; è la più bella rassomiglianza.- Come dev’essere felice colui che ha quel sentimento precisamente qui, in quest’aria di ottobre costante e soleggiata, in questo birichino e felice scherzare del vento da mattina a sera, in questa purissima chiarità e mitissimo freddo, in tutto il leggiadro e serio carattere collinoso, lacustre e selvoso di quest’altopiano, che si è accampato senza paura accanto agli orrori delle nevi eterne, qui, dove Italia e Finlandia si sono strette in alleanza e dove sembra esserci la dimora di tutti i toni argentei della natura” (F. Nietzsche, Il viandante e la sua ombra, in Umano, troppo umano II, tr. it. di S. Giametta e M. Montinari, Mondadori, Milano 1970, pp. 241-242). Moltissime sono le affermazioni entusiastiche di Nietzsche sul clima e la bellezza dell’Engadina, in particolare di Sils-Maria: “Recentemente ho visitato la Svizzera dal punto di vista del paesaggio, e mi sono persuaso che Sils-Maria non ha il suo eguale: meravigliosa fusione di mitezza, grandiosità e mistero…” (F. Nietzsche, Epistolario 1865-1999, a cura di B. Allason, Einaudi, Torino 1962, p. 214).
26. F. Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, tr. it. di R. Calasso, Mondadori, Milano 1977, p. 86. Non va dimenticato che fu il paesaggio dell’Alta Engadina a suggerire al pensiero di Nietzsche, tra l’altro, l’idea dell’eterno ritorno, oltre che significativi tratti dello Zarathustra. Sull’importanza che l’Engadina ha rivestito per il filosofo, cfr. C. Resta, Il luogo del pensiero: Nietzsche e la montagna, in Oltre le vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna, a cura di A. Stragà, Il Poligrafo, Padova 2000; mentre sulla diffidenza di alcune correnti filosofiche nei confronti dell’estetica della montagna, cfr. L. Bonesio, Montagne romantiche e rocciatori dello spirito, cit.
27. U. Christoffel, op. cit., p. 117.

28. Cfr. S. Satta, La veranda (1928-’30) Adelphi, Milano 1981: “Questo mirabile mondo che ci sta dinanzi cominciava a seccare con la sua monotonia di cartolina illustrata” (p. 39).
29. Sulla reciproca mimesi tra pittura e fotografia di montagna, cfr. G. Garimoldi,
L’immagine contesa. L’iconografia alpina tra belle arti e fotografia, in Le cattedrali della Terra. La rappresentazione delle Alpi in Italia e in Europa 1848-1918, Electa, Milano 2000. Un notevole esempio di ripresa, consapevolmente citazionistica, degli stilemi sublimi della rappresentazione alpina, ma con un intento critico nei confronti della crescente commercializzazione spettacolare delle Alpi, si trova nell’opera fotografica di Enrico Peyrot, Voyages autour du Mont Blanc1990-1994, Peyrot edizioni, Aosta 1998.