Pensare come una montagna
di Luisa Bonesio - 31/03/2006
Fonte: geofilosofia.it
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“Pensare come una montagna”: una proposizione che fa sobbalzare ogni buon filosofo accademico o gridare allo scandalo di un palese antiumanesimo gli zelanti neoilluministi come Luc Ferry, eppure non estranea, nel suo spirito, al “sentire cosmico”, come l’anima “immota e chiara come la montagna prima del meriggio”, o la “saggezza selvatica” (1) dello Zarathustra nietzschiano. “Pensare come una montagna”, motto del fondatore dell’ecologia profonda Aldo Leopold, tuttavia è anche una proposizione che rischia di non venire intesa in tutte le sue possibilità nemmeno da chi fa della difesa dell’ambiente la sua bandiera, e nemmeno comprensibile nella retorica di molto alpinismo. Nondimeno, credo che si debba riflettere attentamente su questa espressione provocatoria, ben al di là dell’intenzionalità con cui fu pronunciata.
Nell’ampiamente nota storia della “invenzione” moderna dei paesaggi alpestri, che avviene sotto il segno congiunto dell’estetica e degli interessi naturalistici, si nota uno strabismo nel modo di considerare la montagna: all’interesse degli artisti, e poi dei touristi, fa da contraltare una sorta di cecità estetica dei locali. Famosi gli esempi dell’ascesa di Petrarca al Monte Ventoso, in cui gli abitanti del luogo tentano ripetutamente di dissuadere il poeta e suo fratello dall’impresa; e la testimonianza di Cézanne: “Il contadino che vuol vendere le sue cose al mercato non ha mai visto la montagna Sainte-Victoire [...]. Sa cosa viene seminato là o qui lungo la strada, come sarà il tempo l’indomani, se la montagna Sainte-Victoire porterà o no il suo cappello [...] ma che gli alberi sono verdi e che questo verde è un albero, che questa terra è rossa, e questo detrito rosso sono colline, credo veramente che la maggior parte non lo senta non sapendo nulla al di fuori della propria inconsapevole inclinazione verso ciò che è utile” (2). Il che è molto simile a quanto accadde ai primordi della scoperta alpinistica: furono uomini “venuti da fuori”, cittadini, stranieri a “conquistare” quelle vette alla cui ombra vivevano le guide locali. In questa iniziale divaricazione degli sguardi - quelli “disinteressati”, estetici e artistici, e poi del cliché turistico da un lato, e quelli “volti all’utile”, di quelli che il geografo Cosgrove (3) chiamerebbe gli “insiders”, si prefigura la vicenda successiva e il destino moderno delle montagne, e delle Alpi in particolare.
Per andare in montagna, per guardarla esteticamente e “con sentimento”, occorre poterla “vedere”, “metterla a fuoco”. Con Petrarca - per quanto da Rudatis la sua modesta ascesa sia potuta essere sminuita, da un punto di vista alpinistico, come “una turlupinatura” - s’intravede il modo moderno di guardare la natura, la curiosità di scoprire paesaggi mai visti prima, il desiderio di godere la bellezza multiforme degli spettacoli naturali ma anche delle proprie sensazioni al loro cospetto, indipendentemente dalla conoscenza scientifica che potrebbe spiegarli. La scoperta della montagna si inscrive in questa più ampia vicenda dell’affermazione moderna della soggettività, della valorizzazione estetica del sentimento, dell’emozione individuale. La natura da un lato è scrutata e violata con ogni mezzo dalla scienza, assoggettata alla calcolabilità in vista del suo sfruttamento; viene oggettivata, misurata, analizzata, tradotta in cifre ed equazioni, ridotta a pura materialità disanimata passibile di manipolazione; ma dall’altro, in assoluta complementarità, trova una valorizzazione nel sentimento privato dei singoli, che si dilettano delle sue scene, paurose o pittoresche, sublimi o idilliache, in cui proiettare le proprie sensazioni e i propri stati d’animo. Nella grande stagione iniziale dell’estetica settecentesca come nuova disciplina filosofica, sapere di ciò di cui non si può dare spiegazione concettuale, conoscenza di un piacere che rischia sempre di chiudersi nel solipsismo, nella contemplazione solitaria, al pari di tutti gli aspetti disumani e selvaggi della natura, non ancora addomesticati dalla civiltà, la montagna è la grande protagonista del moderno sentimento del paesaggio.
Prima che Paccard e Balmat aprissero la via alle spedizioni scientifiche di Horace Bénédict de Saussure, e poi alle innumerevoli ascensioni ed escursioni, è proprio l’estetica a “inventare” la via alla montagna, nella forma delle poetiche del sublime. La natura impervia, se non ostile e minacciosa, dei monti esercita una sua specifica fascinazione, analoga a quella dell’oceano in tempesta, di uno spettacolo di grandezza e di potenza che eccede i limiti umani. La smisuratezza della montagna intimorisce, ma al tempo stesso fa piacevolmente sperimentare all’uomo la propria capacità di tradurre in godimento estetico, grazie alla sensibilità e alla cultura, qualsiasi aspetto della natura, anche il più terribile e minaccioso, affermando così, in ultima istanza, ancora una volta la propria superiorità. Ed è anche, se non nelle intenzioni dei filosofi e degli artisti settecenteschi, certamente negli effetti storici, un modo per sottomettere ancora una volta la natura alla misura umana, nei suoi aspetti più soggettivistici e idiosincratici, riducendola a semplice correlato emotivo o a occasione per provare sempre nuove situazioni. E’ da notare come qui sia la radice prima, anche se ormai inconsapevole, della ricerca di quell’“estremo” che caratterizza così fortemente un approccio sempre più in voga alla montagna.
Quando la via alla montagna è così aperta, dalla letteratura e dalle arti, su di essa comincia a focalizzarsi l’attenzione e la curiosità di un pubblico che, mutando i tempi, da colto e poco numeroso, assume dimensioni sempre maggiori fino a diventare quello di massa dei giorni nostri. Parallelamente all’invenzione (4) estetica della montagna, ne avviene un’altra, non meno rilevante, di ordine scientifico e naturalistico: mi limito a ricordare le menzionate spedizioni pionieristiche di Saussure sul Monte Bianco, e in seguito i vari viaggi di Alessandro Volta nelle Alpi svizzere. La cultura occidentale torna in tal modo a guardare le montagne, iscrivendole in un sistema di rappresentazioni che le correla alla soggettività, al sentire del singolo: così che, quando si daranno le condizioni sociali ed economiche, oltre che ideologiche, per un consumo “di massa” della natura come paesaggio e luogo di salubrità, il turismo non farà che usare, ridotte a slogan, le parole dell’estetica del pittoresco e del sublime, degradando a kitsch la natura selvaggia e retorizzando, spesso fino al caricaturale, le virtù salutari del clima. Oggi noi siamo in grado di cogliere appieno gli effetti di questa vicenda di uso “estetico” delle montagne, con le differenze innegabili che esistono fra singole regioni o località. A questa inscrizione nella logica cittadina come spazio turistico o sportivo, si aggiunge una più generale inscrizione - che non è sempre forzosa, ma spesso auspicata dagli stessi abitanti - nella grande logica globale, mediante vie di comunicazione, trasporto di energia, assedio dell’industria e dei suoi rifiuti. Contro i fianchi delle montagne battono sempre più insistentemente le mareggiate dell’industrialismo, della logica di massa, dell’assalto a uno degli ultimi territori differenziati del continente europeo, che fino a qualche generazione fa era rimasto in un equilibrio intatto, di tipo preistorico (5).
Se la codificazione estetica delle montagne è stata l’occasione per estrarle da quell’aura di leggendarie paure e di diffidente tenuta a distanza, essa, però, le ha inevitabilmente “tradotte” in un sistema di rappresentazioni in cui esse non “parlano”, né tantomeno “pensano”, né sfiora la mente dell’homo tecnicus la preoccupazione di comprendere che cosa possa voler dire “pensare” come loro. Per molti versi, le montagne “sono” così come la ha costruite un’operazione immaginale che ha l’età della modernità: imponenti, sublimi, terribili, minacciose, affascinanti... Chi potrebbe resistere alla tentazione di appropriarsene, almeno in immagine, o per impresa sportiva, o per partecipazione al grande rito collettivo delle vacanze? Il valore estetico finisce con il diventare sempre più un valore economico e del consumo, cui nulla sembra potersi sottrarre nel nostro mondo, e quindi finisce con l’essersi trasformato, da sguardo alla gloria delle montagne in strumento del loro stravolgimento. Non si guardano più i monti per intenderne il nomos, non se ne contempla il volto per imparare a conoscerlo e ad accordarsi con esso, ma dei monti e delle valli si fanno scenari e pretesti di svago o di titanismi.
Ma quei locali che ai cittadini apparivano così indifferenti al bello, perché gravati dal duro e sapiente compito del sopravvivere in montagna, e che invece ne erano stati i consapevoli partners nel cooperare alla formazione di quei paesaggi tanto ambiti, forse avevano consapevolezza di cosa potrebbe voler dire “pensare come una montagna”: là dove la distruzione moderna, l’abbandono, lo stravolgimento non hanno agito del tutto, là si vede (ammesso che si sia ancora in grado) come quella lentezza, quell’immobilità tanto sbeffeggiata dai contemporanei, sia stata una delle cifre più profonde dell’abitare la montagna. Altro ritmo, altro tempo in cui si salvaguardava (e si esprimeva) l’estraneità di questi luoghi alla logica del novum, del consumo, dell’accelerazione: niente di meno futuristico delle montagne, con buona pace di varie utopie architettoniche (da Viollet-le-Duc a Bruno Taut) che hanno maggior parentela con l’opprimente assurdità della geometria aliena delle Montagne della follia di H.P. Lovecraft (6) che con un pensiero consono ai luoghi, una sapienza della località, una consapevolezza del genius loci. Domandarsi se gli attuali abitanti delle montagne abbiano conservato questa sapienza dell’equilibrio con il proprio luogo è altrettanto importante dell’interrogarsi sulle modalità di accostarsi ai monti da parte dei turisti e degli appassionati.
2. “Le culminazioni dell’alpe”
Abbiamo già visto come non necessariamente quelli “che vanno in montagna” coincidano con quelli “che stanno in montagna”: o almeno, ne siano, almeno inizialmente, profondamente diversi gli intenti. Ancora oggi, per lo più, un caricatore d’alpe ha del territorio montano una visione assai diversa da quella dell’escursionista o del turista, sia in termini di conoscenza che di individuazione dei suoi possibili usi; così come un cercatore di cristalli all’epoca della scoperta del Monte Bianco rispetto a un artista che ne immortalava le vedute. Sicuramente anche il modo di “vedere” le montagne dei monaci tibetani o di quanti si recano in pellegrinaggio sul Kailash (o su qualsiasi altra montagna sacra) è diverso da quello degli occidentali che vi si recano per le loro ascese.
Nella cultura del Novecento esistono significative posizioni di critica i miti della modernità - progresso, democraticismo, economicismo, fede nella scienza e nella tecnica, materialismo -, in cui il turismo viene interpretato come una forma massificata e priva di consapevolezza dell’accostarsi alla natura. Il turismo e il mito della natura incontaminata appaiono come uno dei segni della decadenza spirituale della nostra epoca, oltre che fenomeni che finiscono col distruggere o compromettere l’ambiente naturale, senza peraltro assicurare durevolmente quei benefici che fungono ormai per lo più da alibi e retorica per la commercializzazione di qualcosa che non dovrebbe poter essere considerato una merce. Questo punto di vista non vuole ripristinare un passato improbabile, ma, al contrario, richiamare l’attenzione sul fatto che ogni luogo richiede comportamenti e misure specifiche che ne rispettino il nomos sapendone riconoscere il significato.
Una declinazione particolare di questa attitudine di rifiuto dello svilimento delle montagne nella logica consumistica o sportiva è ravvisabile nell’interpretazione della pratica alpinistica come disciplina ascetica e spirituale. L’alpinismo di chi si rifà a valori spirituali e metafisici si distacca recisamente da ogni interpretazione della disciplina in senso agonistico e sportivo. Lo sport è infatti una delle manifestazioni della civiltà di massa e del culto della forma fisica fine a se stessa che caratterizza il nichilismo contemporaneo, viceversa significativamente poco preoccupato della salute spirituale -, costitutivamente volto all’agonismo, o addirittura al superomismo - dunque prodotto estremo della volontà i potenza che pretende di essere metro di tutte le cose, visibili e invisibili, signoria sulla terra che, faustianamente, non tollera alcun limite alle sue conquiste, ma è sempre proteso ad affermarsi in nome di quel titanismo con cui ha cambiato la faccia della terra (7).
Se l’ascensione viene considerata per le possibilità spirituali e iniziatiche che offre, la sacralità della montagna, testimoniata dal suo universale simbolismo come corrispondente di stati interiori trascendenti o sede di divinità, o di eroi trasfigurati, insomma luogo di partecipazioni a forme di vita più alta, diventa luogo di manifestazione simbolica di significati trascendenti, come l’esperienza stessa della montagna alla nostra più profonda interiorità, purché venga realizzata adeguatamente, suggerisce.
Questo modo di accostarsi alla montagna respinge sia l’atteggiamento “lirico”, ossia sentimentale in senso banalizzante e retorico - il cliché della montagna-panorama secondo gli standard del pittoresco e di un certo lirismo ottocentesco - estraneo sia agli abitanti dei monti che ai veri alpinisti; sia l’atteggiamento “naturistico”, che come abbiamo già visto, è piuttosto un sintomo di decadenza spirituale, una sorta di misticismo primitivistico della natura che rimane segnato da un carattere di reazione e di evasione dalla negatività della vita quotidiana; sia l’atteggiamento per cui il valore di un’ascesa è visto nella sensazione e nell’eroismo fisico, in cui il rischio è l’esasperazione di una fisicità fine a se stessa, un ideale della prestazione agonistica che di fatto è già ampiamente sviluppato nel carattere di lavoro che permea tutti gli aspetti della vita sociale, ma non può essere in sé considerato la base per conquistare una spiritualità superiore. Questo punto merita attenzione, dal momento che qui si può far rientrare, oltre alla caccia all’emozione, all’eccitante, all’“estremo”, al “no limits”, anche una certa esasperazione degli aspetti e dei supporti tecnici dell’arrampicare. In secondo luogo, è da notare come a questo orizzonte di esasperazione sportiva si scateni appartenga la corsa al primato, la competizione, la rincorsa alla scoperta di nuove montagne, che è anche l’escogitazione delle “vie”, delle difficoltà, ecc. Come se alla montagna non ci si potesse accostare che con un atteggiamento di competizione, di sfida, di appropriazione (significativo il gesto del piantare la bandiera sulla vetta), di “conquista”. Anche questo aspetto, in realtà, è perfettamente coerente con l’affermazione del soggettivismo che contrassegna l’epoca moderna: come nella scienza non vi deve essere, per definizione, alcun aspetto che possa sottrarsi all’indagine, come il cammino della cosiddetta civiltà prevede la sottomissione e l’affermazione della libertà umana sui vincoli della natura, analogamente e come logica conseguenza, non deve restare dominio o recesso del mondo naturale nel quale l’uomo non porti la propria presenza appropriante, non “firmi” - di solito con ingombranti rifiuti - il suo passaggio.
Quando le vette sono tutte conquistate, dunque, inizia la retorica della “sfida” al pericolo, alla difficoltà, ai limiti, con tutte le sue infinite, per quanto ripetitive, varianti. Nella visione e nella pratica più diffusa della “sfida” al pericolo e alle difficoltà agisce un paradigma superomistico che ha poco a che vedere con l’effettiva concezione nietzschiana dell’oltreuomo, ma molto con una certa vulgata che afferma i valori, che un tempo erano quelli dell’ascesi e della fortificazione dello spirito, in un contesto completamente secolarizzato e con un’intenzione del tutto profana: si tratta di superare i propri limiti di resistenza fisica, di vincere le paure, di lottare contro la montagna per dimostrarsi metaforicamente e letteralmente alla sua altezza, si affrontano sacrifici, pericoli, si rischia la vita in una sorta di eroismo solitario, ma il fine è semplicemente quello di un’affermazione di sé, una specie di narcisismo eroicizzante. Semplificando per far emergere con chiarezza l’essenziale, si potrebbe dire che in quest’ottica non conta la montagna per quello che è, ma come supporto, occasione e oggetto dell’impresa di un singolo. Portato alle sue estreme, ma del tutto coerenti, conseguenze, si tratta sempre di quell’atteggiamento di riduzione di tutto l’esistente alle ragioni o alle sensazioni soggettive: si tratta pur sempre di un accostarsi estetico o estetizzante - cioè tale da privilegiare la sensazione, l’emozione, il sentimento individuale, l’autorappresentazione fino al punto di non “vedere” più la montagna, ridotta ormai a scenario delle imprese umane-troppo umane. Anzi, a rigore non è più in gioco “la montagna” (come qualsiasi altro paesaggio), ma una finzione rappresentativa e fortemente artificiale, in cui non si mette in gioco la propria vita, ma si fa, piuttosto “teatro”: è l’atteggiamento “di chi cerca la natura per eseguire in essa l’ultima possibile recita in un mondo per il resto totalmente umanizzato. [...] Ovunque, in montagna, in viaggio nei deserti, sulle spiagge, come nel paesaggio urbano l’individuo si comporta sempre più da attore che recita, seguendo un copione che suggerisce non solo i comportamenti ma anche i luoghi giusti, gli ambienti adatti a esprimersi, secondo i modi che tornano a vantaggio dell’economia consumistica” (8).
Quello che ancora una volta rimane inascoltata è l’eco contenuta nell’emozione e nell’intuizione che portano verso la montagna: grandezza che richiama a qualcosa che non è più umano, che è primordiale, inaccessibile, enigmatico, immutabile (9). Se si “pensasse come una montagna”, si lasciassero risuonare questi richiami, cercando di trasformarli in meditazione, contemplazione, si potrebbe avviare una realizzazione spirituale corrispondente all’esperienza della montagna: si tratterebbe di recare l’illuminazione di una visione simbolica adeguata sull’esperienza della montagna, trasformando la vita quotidiana, diventando quelli che non ritornano mai dalle vette in pianura (10). Non tornare in pianura, ossia a quelle che Nietzsche chiamava le “bassure” della vita comune che cerca le sue piccole sicurezze e il suo confortevole benessere, significa in realtà che non vi sarebbe più né andare né tornare, una volta “realizzata” la Montagna nel proprio spirito, tradotto il simbolo in realtà. E’ superfluo sottolineare quanto una visione del genere, pur in un’attività che superficialmente sembrerebbe essere la stessa di ogni alpinista, si distacchi, nei suoi aspetti ascetici e conoscitivi, ma anche in quelli del comportamento verso la montagna, da ogni pratica sportiva che della montagna faccia solo un pretesto, una palestra o un palcoscenico di avventure narcisistiche e di comportamenti consumistici: è, come ha detto efficacemente Rudatis, “la scalata che va oltre tutte le scalate” (11).
Questo significato forte dell’ascensione conduce a riflettere sul pericolo di degradazione simbolica che le montagne corrono nei nostri tempi. Oggi che tutte - o quasi - le montagne sono state conquistate materialmente, esiste il rischio che anche questo volto della natura perda il residuo significato simbolico, e dunque le montagne siano “abbassate” e rese equivalenti a tutto il resto. E’ quanto si è già verificato, anche solo a livello del consumo estetico, nella inesorabile progressiva appropriazione immaginale, prima dalla rappresentazione artistica e letteraria, poi dal mondo della vita sociale che li fruisce come luoghi turistici e, così facendo, li consuma secondo la logica moderna della ricerca incessante della novità, che spinge inesorabilmente alla “scoperta” e all’appropriazione di paesaggi e aspetti della natura sempre diversi (12). In questa forma del consumo estetico-turistico di massa è racchiuso un enorme pericolo, di ordine economico e di ordine simbolico (13). Ma se è dalla perdita del valore simbolico che deriva ogni altro fenomeni di degrado, materiale, immaginario ed estetico, la riflessione circa i modi di “valorizzare” le montagne può ricevere una nuova luce: valorizzare dovrebbe voler dire: salvaguardare il valore intrinseco della montagna, non svenderla o tramutarla nella caricatura di una periferia metropolitana; e preservare l’intangibilità delle montagne, salvaguardarne il carattere appartato e selvatico, mediante zone di rispetto, una viabilità non corriva verso le spinte commerciali, una rinnovata educazione alla loro grandezza .
Una montagna vista innanzitutto nel suo carattere “alto”, impervio, selettivo, ascensionale e solitario non può favorire comportamenti di facile appropriazione, di consumo e distruzione indiscriminata, di annessione indifferente. Una montagna come axis mundi, luogo sacrale, cratofania o santuario, o anche semplicemente come luogo di una singolarità irripetibile, se davvero compreso come tale, non può essere considerata come un bene di cui disporre indiscriminatamente, neppure nell’immaginario. Ma anche una montagna compresa come luogo delle culture che vi sono insediate, come sempre più precario retaggio tradizionale sopravvivente nell’estrema modernità, non dovrebbe essere cancellata nella sua identità con gli alibi della valorizzazione commerciale, che è l’acido più corrosivo nei confronti del senso di appartenenza.
3. Mons silvaticus
L’orizzonte di tutte queste considerazioni è la questione epocale dell’identità dei luoghi, della loro salvaguardia e del loro significato. Rilke, alla svolta del secolo, affermava la necessità di sottrarre alla consuetudine le nostre immagini della natura e dei paesaggi, logorate dalle molte rappresentazioni letterarie e iconografiche, fino ad essere diventate un cliché che impedisce lo sguardo su ciò che veramente è. Lasciare che la natura ci ridiventi straniera, per coglierne l’effettiva estraneità al mondo delle nostre rappresentazioni, e, misurando questa distanza, lasciar essere la differenza, accettare che tutto quanto vi è di comune fra uomini e cose si ritiri nella “profondità comune donde traggono nutrimento le radici di ogni divenire” (14). L’esigenza di lasciare che la natura si ritragga nell’enigmaticità e quindi riconquisti, nella distanza, la sua aura, è la sostanza delle posizioni di difesa della Wilderness, gli aspetti selvatici del paesaggio terrestre, non certo per amore di esotismo, ma nel nome di un’estrema difesa delle radici selvatiche della stessa umanità, di quella radicatezza senza la quale la cultura è messa a repentaglio. La selvatichezza è il terreno vitale in cui crescono le culture attente alla necessità di non interrompere la comunicazione con l’altro, e dunque consapevoli della loro dipendenza dall’altro: sia nel senso della sopravvivenza e prosperità materiale, che in quello simbolico, della differenza in relazione alla quale soltanto può sussistere identità. Quando la dimensione della selvatichezza viene attaccata e distrutta, la terra feconda in cui si radicano le civiltà si trasforma nel deserto di cui parla la filosofia del Novecento. Desolazione di un luogo andato in rovina, sia negli aspetti naturali che nelle realizzazioni della cultura: solitudo, in cui l’uomo è rimesso alla via senza uscita della propria stoltezza. La desertica ripetitività del sempre uguale è il destino di chi pensa che la natura, soprattutto nei suoi aspetti indomiti, sia un fastidioso contrattempo sul cammino della progettualità umana.
La Wildnis è la questione dell’intera civiltà terrestre nell’epoca della tarda modernità. Occorre perciò salvaguardare attivamente la fisionomia singolare dei luoghi riconoscendone le radici selvatiche: senza la presenza e la simbolizzazione dell’estraneazione incarnata nel lato ombroso della civiltà, nel selvatico appunto, la costruzione umana è destinata a somigliare a una torre di Babele cui venga meno il fondamento. La presunta razionalità che vige nell’ordine metropolitano, assieme a tutte le sue realizzazioni, assomiglia sempre più a una sopravvivenza fantasmatica di cui l’immaginario legato alla realtà virtuale è un’eloquente manifestazione.
Ma le radici selvatiche, di cui la montagna è emblema e riserva, non potrebbero essere lasciate disseccare senza un più generale svigorimento simbolico. Si potrebbe dire che quando i simboli cominciano a diventare muti, le foreste cominciano a essere ridotte a riserva di legname o ad ostacolo all’espansione cittadina e le montagne a parco di divertimenti. È per questo che la montagna deve tornare a poter essere vista come l’emblema dello spazio elevato e sacro, del luogo dell’aprirsi, reale e simbolico, di una dimensione la cui alterità e distanza, anche fisica, dall’usuale, mostra una dimensione di verticalità essenzialmente estranea al mondo del nichilismo. In ogni luogo, oltre agli elementi visibili, oggetto dell’indagine geografica e storico-artistica, vi sono elementi non obiettivabili, non suscettibili di quantificazione scientifica, e nondimeno simbolicamente essenziali. Nel riconoscimento della profonda simbolicità delle manifestazioni della natura è racchiusa ogni possibilità di armonizzazione con la morfologia ambientale e di suo sapiente assecondamento, che si traduce sempre anche in opera di bellezza.
La tarda modernità tende a esotizzare sempre più “la natura”, “il selvatico”, il “tradizionale”, rescindendoli come riserve o come mere citazioni, quando non come oggetti dell’industria culturale o turistica. D’altra parte, però, si assiste alla diffusione di un desiderio di appartenenza, o di “ritorno” alla “natura” che per molti versi è un fenomeno di provenienza urbana. Ritorno dunque “sentimentale”, avrebbe detto Schiller, e non “ingenuo”: come è ogni vero ritorno (15). Ma già in questo è forse possibile intravedere il ridestarsi di una memoria e l’affiorare di una consapevolezza differenziale nell’omologazione contemporanea. Gli sviluppi in senso sempre più immateriale della tecnica, l’uso di sistemi di comunicazione che rendano obsoleto il proliferare di grandi strade, assieme a una chiara comprensione dei limiti da rispettare, potrebbero rendere meno utopica e nostalgica la difesa dell’individualità dei luoghi, e nella fattispecie della montagna, sottraendola al tempo stesso alla prospettiva della mera esteticità o di un devastante consumo sportivo. Ritornare, dunque, con nuova consapevolezza, nei pressi delle radici selvatiche e rocciose della civiltà, prima che tutto sia distrutto nichilisticamente - ossia anche per superficialità, tracotanza o rassegnazione o appagamento nell’integrazione (16) - per salvaguardarne almeno la memoria: primo, indispensabile, passo verso quel riorientamento che solo potrebbe salvare la terra.
Quest’opera della memoria non è volta a fabbricare un ricordo, né un ennesimo simulacro di un “regno perduto”: è piuttosto un’opera di meditazione sul volto della terra a venire che procede da uno scavo nelle rovine del presente, si immerge nella solitudo dell’oggi come in un controluce che ne rivela i tratti essenziali, o in un’algidezza in cui si trasfigura il crescente irrigidimento della vita nell’ascesi della riflessione, in cui le “montagne da pascolo” del turismo possano riassumere il sembiante di Mons Victorialis, di luogo solstiziale dello spirito. Le radici selvatiche, le forme dell’elevatezza e della distanza, quelle che Evola chiamava “le culminazioni dell’alpe”, sono per noi l’ultimo punto di vista differenziale dal quale comprendere il mondo e metterlo in prospettiva. Che si possa anche solo per un momento sostare nel silenzio della montagna e intenderne la voce, è una delle estreme possibilità di salvaguardia di questo mondo. Ma chi lo potrà fare non sarà né turista, né sportivo, né collezionista di record o di imprese estreme, ma qualcuno che avrà compreso la legge del luogo e si sarà messo in consonanza con essa: montanaro, pastore, boscaiolo o incamminato sulla via del Sé, tutti attenti e responsabili della conservazione delle condizioni di appartatezza, della costitutiva ed essenziale distanza, tutte figure del “pensare come una montagna”, della consapevolezza che essa deve tornare segreta e salva come un vero Montsalvat: monte della salvazione, perché montagna della selvatichezza.
1. Cfr. L. Bonesio, La saggezza selvatica di Zarathustra, “Letteratura Tradizione”, 5, 1998. |
7. “L’impulso di natura plutonica non sorge più alla ricerca dell’oro, ma di energie capaci di trasformarsi in utopie, dai combustibili fossili fino all’uranio. Mossi da tale ricerca, non si agisce secondo criteri di economia, ci si comporta invece come lo scialacquatore che dissipa l’intera eredità per perseguire un’idea fissa. Nei sogni di Plutone non vi sono tesori nascosti, ma il vulcano. E’ attratto dall’Everest non per la vista che può offrire, ma per il record che gli consente di raggiungere. La biblioteca non è per lui il luogo delle Muse, ma uno spazio di lavoro, completo di arredo tecnico. Trascura di onorare i morti, ma va a frugare dentro alle tombe più antiche” (E. Jünger, La forbice, tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996, p. 157).
8. E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia 1998, p. 132. Sono tutti atteggiamenti, come si può constatare, che derivano da un'esasperazione di aspetti della personalità in senso soggettivistico, limitati a un'idea povera e in sostanza ampiamente consumistica dell'affermazione di sé e a un mondo che “comporta la riduzione dello scenario a un paesaggio del tutto denaturalizzato, che anche nei suoi aspetti selvaggi è ricondotto, fittiziamente, alla nuova e totale teatralizzazione del mondo” (Ivi, p. 133).
9. Un significativo esempio di questo arrampicare attento a connotazioni simboliche ed esoteriche sono gli scritti di D. Rudatis, in particolare Liberazione, Nuovi Sentieri, Belluno 1985.
10. J. Evola, Spiritualità della montagna, in Meditazioni delle vette, Il tridente, La Spezia 19863, ora raccolto in J. Evola-Samivel, Il sorriso degli dèi. Note su uomini di montagna e montagne degli dèi, Barbarossa, Milano 1996. Sia pure in un più ampio contesto di pensiero, le riflessioni di Evola su questo tema, insieme con quelle dell'accademico del CAI Domenico Rudatis, sono del massimo interesse. Un’utile raccolta di scritti appartenenti a questa prospettiva è il volumetto di AA.VV., Il regno perduto. Appunti sul simbolismo tradizionale della montagna, Il cavallo alato, Padova 1989.
11. D. Rudatis, Sulla via del senso cosmico, “Annuario CAAI”, 1990, p. 14.
12. Cfr. J. Ritter, op. cit., n. 57.
13. In un contributo molto significativo da questo punto di vista, Evola annovera tra i sintomi di decadenza spirituale l’approccio “discendente” alla montagna rappresentato dallo sci (di discesa): “Laddove l’alpinismo è caratterizzato dall’ebrezza dell’ascesa come conquista, lo sciismo è caratterizzato dall’ebrezza della discesa, della velocità e quasi diremmo della caduta” (J. Evola, Ascendere e discendere, in Meditazioni delle vette, cit., p. 71). La caratterizzazione evoliana dello sci può facilmente essere estesa, oggi, a tutti gli sport che perseguono “tecnica, giuoco ed ebbrezza della caduta”: in essi si esprime lo spirito della modernità, “spirito ebbro di velocità, di ‘divenire’, di un moto accelerato, incomposto, fino a ieri celebrato come quello di un progresso, laddove esso, sotto molti aspetti, altro non è che quello di un franare e di un precipitare” (Ivi, pp. 71 e 72).
14. R.M. Rilke, Del paesaggio e altri scritti, tr. it. di G. Zampa, Cederna, Milano 1949, p. 33.
15. Sul tema del viaggio e del ritorno in patria, cfr. la lettura heideggeriana di Hölderlin (M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988).
16. Jünger ha sottolineato come il carattere devastante del nichilismo contemporaneo provenga dal buon adattamento dell’“ultimo uomo” di nietzschiana memoria a condizioni di vita impossibili per una civiltà “normale” (nel senso che la Tradizione attribuisce a questo aggettivo). Cfr., ad esempio, E. Jünger, Oltre la linea, in M. Heidegger-E. Jünger, Oltre la linea, tr. it. di F. Volpi e A. La Rocca, Adelphi, Milano 1989.
Pubblicato in Antonio Stragà (a cura di), Oltre le vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna,
Il Poligrafo, Padova 2000