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Una proposta pedagogica per il nostro tempo: l'umanesimo cristiano di Sergej Hessen

di Francesco Lamendola - 23/10/2009


«L'uomo - diceva Maritain - si evolve nella storia. Tuttavia la sua natura come tale, il suo posto e il suo valore nel cosmo, la sua dignità, i suoi diritti, le sue aspirazioni come persona e il suo destino davanti a Dio non cambiano».
Partendo da questa considerazione, possiamo inquadrare e meglio comprendere la proposta pedagogica di un pensatore russo poco conosciuto in Occidente - tutti parlano del solito Makarenko, come se la Russia avesse prodotto solo una pedagogia marxista: Sergej Osipovic Hessen, nato a Ust Sysolsk (oggi Syktyvkar), in Siberia, da una famiglia di giuristi, nel 1887, e morto nel 1950, dopo una vita burrascosa, passando attraverso le rivoluzioni del 1917 e l'adesione giovanile al bolscevismo, per poi distaccarsene ed emigrare, nel 1923, alla ricerca di orizzonti di libertà per la propria ricerca filosofica e pedagogica.
Presentiamo brevemente una sintesi del pensiero pedagogico di Hessen, attraverso le parole di Fernando Salvestrini, Liliana Carboni e Pierangela Zeppa, nel corso «Pedagogia. Storia e problemi» (Milano, Editrice Massimo, 1975, 1977, vol. III, pp. 200-201):

«A conclusione dello sviluppo della pedagogia europea nella prima metà del sec. XX, poniamo Sergej Hessen (1883-1950, il cui itinerario intellettuale e morale va da posizioni scientiste e materialistiche di pretta ispirazione marxista, attraverso un progressivo distacco e una lunga riflessione culturale, fino a giungere all'umanesimo cristiano. La sua pedagogia che dapprima si rivela come sistema ordinato di principi filosofici, passa poi a maturare attraverso una pedagogia sociologica, e finalmente approda alla chiara visione della pedagogia della salvezza: la pedagogia cristiana.
Giunto alla filosofia occidentale dopo aver studiato in Russia la filosofia marxista, Hessen elabora una pedagogia filosofica il cui fine è la promozione della cultura in funzione della piena espansione del soggetto umano. La cultura per Hessen è la maturità della personalità, la piena espansione di tutte le capacità del soggetto: cultura è il patrimonio spirituale letterario e filosofico e scientifico, cultura sono  documenti dell’arte, cultura è il lavoro industriale e tutta la realtà che l’uomo costruisce. Colui che assimila questa cultura è l’uomo spiritualmente evoluto, ricco, formato.
Per Hessen la pedagogia è la scienza filosofica perché si occupa necessariamente dei valori dell’uomo e non può quindi essere solo metodologia. La biologia e la psicologia sono scienze utili, ma non sono la base della pedagogia perché l’uomo integrale (libertà, spiritualità, valore) ci è dato solo da una concezione filosofica.
L’educazione è il processo della formazione psico-fisica dell’organismo umano, mentre l’istruzione riguarda la formazione della personalità.
La vita passa attraverso tre momenti: l’età del GIOCO (pre-scolastica); del LAVORO (scolastica); della CULTURA (post-scolastica). Quest’ultima è intesa come ciò che investe tutto l’uomo e non solo la sua mente (non è solo istruzione). Essa non può essere insegnata, ma la scuola dà l’occasione per apprenderla. Infine essa non è SOVRASTRUTTURA, ma motivazione dello sviluppo economico, sociale e politico perché essa è saggezza, spiritualità e modo di vivere.
Perché tutti gli uomini possano raggiungere l’autonomia è necessario rinnovare le strutture scolastiche. La scuola deve essere unica per tutti, ma non uniforme perché articolata in tre corsi che s adeguano alle diverse fasi psicologiche con diversità di programmi e metodi (“corso globale” dai 5 ai 7 anni corrispondente alla nostra scuola materna e alla prima elementare; “corso episodico” da 7 agli 11 anni; “corso sistematico” dagli 11 ai 18 anni, suddiviso in due gradi).
La lezione poi deve essere integrata dal lavoro libero e dalle attività parascolastiche. Per ciò che riguarda il metodo, l’Hessen ritiene che i mezzi di insegnamento dipendano dai fini: per cui non può esistere una didattica pura e semplice, perché il metodo è formato dall’umanità dell’educatore e non dalle sue tecniche.
Nella sua opera, che fu come il suo testamento spirituale, “Democrazia moderna” (Ed. Armando), Hessen esalta la libertà, della quale addita l’autentica realtà, conducendo una severa e rigorosa critica sulle varie forme di attuazione storica di regimi di libertà, ivi compresa la libertà marxista. Soprattutto Hessen ricorda che la libertà è figlia della cultura e ne è la generatrice feconda. Dunque senza scuola, senza apprendimento della cultura non vi può essere godimento di libertà, perché non v’è la conoscenza di che cosa essa sia. L’educazione è pertanto uno strumento di liberazione e di libertà.
Filosofo sistematico, critico tenace e profondo, pedagogista paragonabile a Comenio per la vastità della sintesi elaborata, Hessen conobbe nella sua stessa esperienza personale il travaglio del secolo: l’attrattiva illusoria del materialismo marxista come soluzione dei drammatici problemi in cui si dibatte il mondo attuale. Ma la sua forte capacità di analisi, la sua nobile coscienza morale, il suo sentimento d libertà e di giustizia lo condussero, come per mano, a riscoprire gli antichi valori della pedagogia umanistica, classica, della cultura e della metafisica. E in questa direzione approdò alla pedagogia dello spirito e della persona umana, che ha il suo valore in rapporto a Dio.»

Hessen, dunque, parte dal concetto fondamentale che la storia è storia della cultura, o meglio dei valori culturali; nel senso che l'elemento decisivo per la formazione dell'individuo è il modo in cui egli viene inserito nel complesso degli stili di vita  e dei valori che costituiscono, nel loro insieme, la cultura di una determinata società.
Tre, per Hesse, sono le fasi della vita dell'essere umano, per cui tre dovranno essere anche i differenti orizzonti educativi: biologico, sociale, spirituale.
La fase biologica si caratterizza anche come fase dell'ANOMIA, nel senso che il soggetto dipende interamente dalle forze esterne. È il periodo del gioco, cui corrisponde, come abbiamo visto, al corso globale, dai 5 ai 7 anni di età.
La fase sociale corrisponde al periodo dell'ETERONOMIA, quando il bambino è in grado di comprendere ed accogliere le norme che riceve dall'esterno, improntando ad esse la propria condotta, e interagendo con i coetanei in vista di un fine collettivo. È il periodo del lavoro, cui corrisponde il corso episodico (che coincide, cronologicamente, all'incirca, alla nostra scuola elementare).
La fase spirituale, infine, corrisponde alla conquista dell'AUTONOMIA, e quindi all'uscita della scuola e all'ingresso nelle attività parascolastiche e in quelle del tempo libero; corrisponde al corso sistematico e arriva fino ai 18 anni.
Il corso sistematico, a sua volta, si divide in due gradi: sistematico primario, dai 7 ai 14 anni, nel quale ha inizio la differenziazione del sapere in singole discipline; e scientifico, dai 14 ai 18 anni nel quale viene favorita la futura differenziazione professionale.
Hessen, che credeva fermamente in una società democratica, era convinto della necessità che lo Stato obblighi tutti i cittadini alla frequenza scolastica, per liberarli dall'ignoranza, così come  come, per altri aspetti, li deve libertà dalla povertà e dalle malattie. Questo è l'aspetto che potremmo definire «neoilluminstico» della sua pedagoga, oltre che paternalista; e, secondo noi, il meno interessante e originale.
Più ricca di prospettive la sua idea relativa alla scuola del lavoro, che dovrebbe corrispondere sostanzialmente alla fase dell'eteronomia e, quindi, alle attività da svolgersi nel quadro del corso episodico.
Secondo il pedagogista russo, nessuno lavora solamente per se stesso: l'attività di ciascuno si somma e si completa con quella di ogni altro, così che il gruppo integra tutti i suoi membri e, al tempo stesso, è in grado di valorizzare al massimo il contributo specifico di creatività da parte di ognuno di essi.
Giunti a questo punto, ci sembra utile soffermarci a riflettere brevemente su alcuni aspetti ed implicazioni della pedagogia di Hessen, con particolare riguardo alle esigenze del nostro tempo; senza dimenticare che la sua proposta educativa, collocandosi interamente entro la prima metà del XIX secolo, 1950, deve per forza di cose essere aggiornata, adattandola ai rapidissimi mutamenti sociali, tecnologici e culturali degli ultimi decenni.
In primo luogo, è interessante la concezione di Hessen della cultura, intesa nel senso più ampio e comprensivo del termine, e dell'uomo come essere culturale; sicché solo l'individuo che abbia saputo assorbire e maturare gli stimoli culturali della propria società può dirsi veramente completo e formato.
Vi è qualche cosa di vasto, di luminoso, di rinascimentale (nel miglior senso della parola) in questa visione della cultura come l'elemento che porta ala piena maturazione le potenzialità creative dell'individuo; e vi  anche, crediamo, un utile ammonimento nei confronti della nostra epoca, un po' troppo protesa verso il miraggio della specializzazione ad oltranza.
Il super-specialista non è un uomo di cultura: dunque, non è nemmeno un uomo nel senso vero e completo del termine. Si ricordi, in proposito, la critica di Ernest Jünger alla società dei «tecnici» (cfr. il nostro precedente articolo: «»
Un altro aspetto valido della proposta di Hessen è lo stretto legame esistente tra pedagogia e filosofia, in quanto, per essa, l'educazione è un fatto di valori e non di metodologie. Purtroppo, si direbbe che gli orientamenti attuali vadano in tutt'altra direzione, visto che perfino la parola «pedagogia» è stata bandita dal linguaggio universitario, quasi fosse una parolaccia, per essere sostituita dalla pretenziosa espressione «scienze dell'educazione». Chi oserebbe ancora parlare di valori, a proposito dell'educazione?
Eppure, i risultati disastrosi di questo atteggiamento sono ormai sotto gli occhi tutti, se li si vuol vedere. Perciò, con buona pace di tutti i razionalisti, i laicisti, gli scientisti, i tecnocrati e i paladini di un'educazione rigorosamente strumentale, dovremmo proprio tornare ad una pedagogia dei valori, perché l'essere umano non è riducibile - come essi pretenderebbero - al dato biologico ed a quello psicologico.
Già: ma quali valori? Ecco, appunto, che la questione pedagogica rimanda necessariamente alla dimensione filosofica: non si può nemmeno pensare ad una seria azione educativa, se non all'interno di una società che abbia saputo elaborare una visione unitaria del reale, come abbiamo sostenuto nel recente articolo «Abbiamo bisogno di una visione unitaria del reale, non di un Pensiero Unico che ci omologhi» (inserito sul sito di Arianna Editrice in data 22/10/2009). E solo una concezione unitaria del reale ci potrà dare anche una concezione integrale dell'uomo, che non è fatto solo di corpo e mente, ma anche di libertà, spiritualità e valori.
Altra intuizione preziosa di Hessen è che la cultura non è affatto sovrastruttura, come insegnavano - materialisticamente - Marx e Lenin, bensì ma motivazione dello sviluppo economico, sociale e politico, in quanto essa è saggezza, spiritualità e modo di vivere. Insomma, per Hessen la cultura non è un di più, che si possa aggiungere all'individuo, quando si sia riempito il suo stomaco; non è un lusso per individui che abbiano raggiunto l'autosufficienza materiale: ma sviluppo integrale della personalità e piena integrazione dell'essere umano nella società.
L'idea della scuola unica per tutti i cittadini è ispirata ad un forte democraticismo e, probabilmente, costituisce un retaggio della giovanile adesione di Hessen alla rivoluzione bolscevica. Notiamo, peraltro, che l'innalzamento dell'età scolastica in tutti i Paesi dell'Europa va, in parte, in tale direzione; e, anche se manca l'elemento unificatore dei corsi scolastici, è in atto una notevole ristrutturazione degli indirizzi della scuola superiore, che tendono a una semplificazione e, in qualche misura, a una riduzione delle distanze tra indirizzi professionali e indirizzi liceali.
Per Hessen, la scuola primaria dovrebbe iniziare a 5 anni e terminare a 7, ed essere incentrata sul gioco, sia pure finalizzato al lavoro: nel senso che il bambino dovrebbe abituarsi a non lasciare alcun gioco interrotto, ma a prendere tale attività con il dovuto impegno. E anche questa è una proposta su cui varrebbe la pena di fermarsi a riflettere. Forse, un bambino di cinque anni realizzerebbe meglio le proprie potenzialità e rafforzerebbe di più la propria strutturale spirituale dedicandosi al gioco, sotto la guida degli insegnanti, che non iniziando un corso scolastico primario vero e proprio, con tanto di insegnamento delle lingue straniere e dell'informatica.
Infine, Hessen ha molto insistito sul rapporto esistente tra cultura e libertà, affermando che solo la cultura rende possibile la comprensione e l'esercizio della libertà; e ci sembra che, anche questa, sia una intuizione notevole, di cui dovremmo fare tesoro, perché è evidente che una società in cui l'educazione sia considerata un peso morto  per le casse dello Stato e una palla al piede rispetto al libero gioco dell'iniziativa economica privata, la dissoluzione della cultura crea i presupposti per la disintegrazione sociale e per l'abdicazione dei cittadini all'esercizio della libertà.
È questo, in gran parte, quello che sta avvenendo, e che si percepisce in modo più evidente proprio nelle regioni più progredite dal punto di vista dello sviluppo produttivo e del benessere materiale, ma nelle quali dilaga una crisi di socialità e una carenza di affettività che sono riconducibili, in ultima analisi, proprio ad un deficit di cultura, e quindi di valori.
L'ultimo aspetto di cui vorremmo dire qualcosa è la proposta cristiana di Hessen, che ne fa un po' una mosca bianca nel panorama della pedagogia del Novecento, eccezion fatta per l'ambito spiritualista francese e italiano (Mounier, Stefanini, ecc.). Evidentemente, nel clima secolarista e larvatamente anticristiano dominante nella cultura odierna, che è essenzialmente orientata nel senso del radicalismo politico, questo è l'aspetto più imbarazzante e «politicamente scorretto», ovvero il più controcorrente.
Sci spingeremmo troppo lontano se ipotizzassino che  anche per questo motivo il pensiero di Hessen - il quale pure visse ed insegnò a lungo in Germania, in Cecoslovacchia, in Polonia, dopo essere stato professore all'Università di Pietrogrado e in quella di Tomsk - è, ancora oggi, così poco conosciuto in Occidente? Sia come sia, può perfino accadere che la «voce» a lui dedicata nella «Enciclopedia Biografica Universale» della Treccani, non citi neppure la parola «cristianesimo»: tutto quel che il lettore viene a sapere, consultandola, è che Hessen «subì anche l'influsso del pensiero idealistico italiano», ma che «non è uscito dall'ambito della pedagogia liberale o pedagogia della cultura» (perché non condivideva l'idea che la cultura sia una semplice sovrastruttura?); e che «negli ultimi anni di vita accolse diversi elementi della concezione socialista […], giungendo a definire se stesso un socialista liberale».
Ora, questa è una autentica mistificazione: tacere l'ispirazione cristiana della pedagogia di Hessen, sarebbe come parlare di Vittorino da Feltre senza parlare dei valori rinascimentali, o di John Dewey senza parlare del pragmatismo: un assurdo e uno scandalo.
E allora viene da chiedersi: che cos'è che dà tanto fastidio, nella proposta educativa cristiana di Sergej Hessen, ai signori della cultura occidentale odierna? Se la sua fervida ispirazione religiosa appare loro come un puro e semplice anacronismo, perché si danno tanto pena per passarla sotto silenzio?
Viene il sospetto che qualcuno o qualcosa, nell'establishment culturale post-moderno, voglia fare di tutto per confinare la proposta pedagogica cristiana nella «riserva», restringendola ai soli adepti e impedendole, per quanto possibile, di dialogare liberamente con gli altri indirizzi culturali ed educativi, sì da rafforzare l'idea, nelle giovani generazioni, che essa sia soltanto un residuo del passato, destinato a scomparire mano a mano che l'umanità continuerà ad avanzare verso «le magnifiche sorti e progressive» della Ragione e della Scienza.
Complottismo, paranoie?
Chissà.
Forse, a forza di gridare che il Diavolo non esiste, non ci siamo accorti - come osservava acutamente Baudelaire - che gli stiamo facendo il favore più grande che egli potesse mai aspettarsi da noi: e si frega le mani, in silenzio, soddisfatto.