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1929: la fiducia in una crescita infinita

di Filippo Ghira - 30/10/2009

 

 



Sono passati 80 anni dal martedì nero del 1929 quando i listini della Borsa di New York precipitarono, trascinando nel crollo tutte le borse e innescando la cosiddetta Grande Depressione che provocò una disoccupazione di massa come mai si era vista e che in Europa alimentò le condizioni economiche, sociali e politiche per lo scoppio, dieci anni dopo, della seconda guerra mondiale. Una Depressione dalla quale gli Stati Uniti, dove era iniziata, non furono in grado di uscire nemmeno dopo nove anni di presidenza di Franklin Delano Roosevelt con una politica economica tutta all’insegna del “deficit spending”, ossia della spesa pubblica finanziata in disavanzo ed usata come moltiplicatore degli investimenti, del reddito e dell’occupazione. Una politica alla quale un economista come John Maynard Keynes, che vi vide applicate le sue tesi, dette dignità dottrinaria nel 1936, con la sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” divenuta dopo il 1945 la Bibbia degli statalisti o quantomeno di chi voleva utilizzare la spesa pubblica come fattore di sviluppo economico, senza però cadere nel dirigismo marxista. A salvare gli Usa non fu comunque il New Deal ma l’entrata in guerra fortemente voluta da FDR. Nel dicembre 1941, quando i giapponesi portarono l’attacco a Pearl Harbor, il numero dei disoccupati era infatti maggiore che nel gennaio 1933 quando Roosevelt iniziò la sua presidenza.

Quali similitudini
tra il crack del 2008
e quello del 1929
Oggi, dopo la crisi finanziaria iniziata a fine 2007, gli esperti economici o pseudo tali continuano ad interrogarsi sulle differenze e sulle somiglianze tra la situazione di allora e quella più recente, sul tipo di speculazione che le ha caratterizzate, sul credito troppo facile e sulla mancanza di controlli da parte delle autorità di governo e della Federal Riserve. A voler ben vedere, in tutte queste disquisizioni ed analisi manca però quello che è l’aspetto predominante e che meglio di qualunque altro servirebbe a spiegare bene come tutto, allora come oggi, sia potuto accadere. In altre parole la fiducia quasi fanatica in una crescita infinita dell’economia e di conseguenza dei listini azionari. Se si inverte la sequenza temporale dei due fenomeni peraltro il prodotto non cambia. Si tratta di un elemento di per sé evidente ma di cui nessuno sembra voler tenere conto, e nel caso dell’ultima crisi la colpa è stata addossata semplicemente alla speculazione come tale. Sia essa venuta dalle grandi banche e dalle società finanziarie o dai singoli risparmiatori speranzosi di partecipare al banchetto che si annunciava. Quasi nessuno degli economisti “conservatori” o “liberal” che hanno dottamente commentato il recente crollo delle borse ha sollevato qualche interrogativo se il disastro in cui siamo tuttora immersi sia dipeso non già dall’imperfezione di un mercato che non riesce ad aggiustarsi da solo quanto invece dal modello stesso nel quale la voracità della speculazione, che ne rappresenta un elemento portante, ha potuto pienamente dispiegarsi. Quando si sollevano simili obiezioni l’accusa di essere vittime e soggetti di una deriva “populista” è sempre dietro l’angolo. Ma è proprio la saggezza dell’uomo della strada che può indicare quali sono le cose che non vanno e che cozzano con il semplice buon senso. In primo luogo che non si possono investire i soldi che non si possiedono.

Gli Stati Uniti
e il primo dopoguerra
Gli Stati Uniti erano usciti vincitori dalla Prima Guerra Mondiale con tre conseguenze di non poco conto. Si erano affermati come la prima potenza militare del pianeta, Wall Street aveva sostituito la City londinese come la prima piazza finanziaria mondiale. Il dollaro era saldamente attaccato al prezzo dell’oro: il sistema del “Gold Standard” dava l’idea che gli Usa fossero la nuova Gerusalemme terrestre e il modello americano, l’american dream, si stava affermando in Europa come succede sempre alle culture importate dai Paesi vincenti. Una supremazia che nei “ruggenti” anni venti fu ulteriormente alimentata dalla diffusione del cinema americano, del jazz e della letteratura di autori come Francis Scott Fitzgerald. Una ventata di ottimismo prese ad avvolgere tutti gli Stati Uniti. Dagli uomini politici ai banchieri, dagli intellettuali fino all’uomo della strada, la fiducia nel futuro prese a contagiare tutti. Siamo la terra e il popolo benedetti da Dio, siamo la Terra Promessa di tutti i reietti del mondo che qui potranno veder realizzati i propri sogni, come promettono ai nuovi arrivati le parole scolpite alla base della Statua della Libertà. Una società però che non poteva scordare le proprie radici puritane. Tanto che nel gennaio del 1919 l’amministrazione Wilson varò il Volstead Act, dando inizio all’era del Proibizionismo con la quale su tutto il territorio federale furono vietate la produzione e la vendita di sostanze alcoliche. Fu una legge imposta curiosamente all’America urbana tendenzialmente democratica e cosmopolita dall’America rurale tradizionalista e repubblicana. L’America “bagnata” e l’America “secca”. Fu in ogni caso una vera manna caduta dal cielo per i gangsters irlandesi, italiani ed ebrei che si arricchirono in misura incredibile e per i quali rappresentò la classica primitiva accumulazione di capitale (di stampo marxiano) che venne successivamente impiegata in altre attività capaci di moltiplicare all’infinito queste risorse, come il controllo dei sindacati e il traffico di stupefacenti. A dimostrazione che per tutti negli Stati Uniti c’è la possibilità di trasformare i propri sogni in realtà. Se fu un presidente democratico (Wilson) ad imporre una legge di stampo repubblicano, fu poi sempre un presidente democratico (Roosevelt) ad abolirla nel dicembre del 1933.
Il presidente democratico Woodrow Wilson (1913-1920) l’uomo dell’Alta Finanza che cercò di utilizzare la nascente Società delle Nazioni come strumento per imporre un modello unico mondiale di sistema politico, lasciò ai suoi successori repubblicani, Warren Harding (1921-23), Calvin Coolidge (1923-28) ed Herbert Hoover (1929-32), un Paese vincente e sicuro di sé e i cui cittadini si erano convinti che tutto fosse possibile e che ogni traguardo fosse raggiungibile. Ed anche il consumo di alcolici che il Proibizionismo paradossalmente non fece altro che moltiplicare, contribuì in misura determinante a creare quel clima di euforia che spinse la Borsa ad un continuo rialzo salvo poi farla cadere nel precipizio.

La grande illusione
L’economia americana, potendo contare anche su abbondanti riserve di petrolio, registrò una impetuosa crescita alla quale si affiancò una massiccia espansione del mercato borsistico. A guidare questa crescita furono in particolare il settore dell’auto con due aziende come General Motors e Ford che dettero il via ad un primo accenno di motorizzazione di massa. Ma fu soprattutto la RCA (Radio Corporation of America) a guidare la danza dei listini dopo aver portato in tutte le case uno strumento visto all’inizio come una scatola magica. A innescare il crollo del 29 ottobre 1929, il “martedì nero”, furono soprattutto quattro elementi. Il primo fu la fiducia diffusa che i listini di borsa sarebbero cresciuti senza fine e questo a prescindere da qualsiasi relazione con lo stato di salute delle società che li avevano emessi. Il secondo fu il credito facile reso tale dai bassi tassi di interesse stabiliti dalla Federal Reserve e di riflesso dalle banche che resero disponibili per la speculazione enormi masse di denaro. Terzo elemento fu l’assoluta mancanza di controlli da parte di autorità centrali che vigilassero sul livello dei debiti delle banche commerciali e di investimento e sulla loro patrimonializzazione. Ultimo ma fondamentale elemento, effetto del secondo, fu la possibilità offerta a qualunque cittadino, anche della più umile condizione sociale, di farsi dare soldi in prestito per scommettere sull’aumento della quotazione di un titolo. Si creò in tal modo una situazione per la quale tutti erano indebitati con tutti, nella quale ognuno investiva e rischiava anche il denaro che non aveva, sperando che ci fosse sempre qualcuno disposto a comprare, ad un prezzo ovviamente superiore, i titoli che virtualmente si possedevano. Bastava possedere un dollaro, una finanziaria ne imprestava altri nove, e il signor Smith ne poteva scommettere o investire dieci, senza peraltro ritrovarsi mai in mano i pezzi di carta, le azioni che aveva virtualmente acquistato. Era insomma un gigantesco gioco d’azzardo generale che nelle previsioni, o meglio nelle speranze, qualcuno prima o poi avrebbe dovuto pagare. Il classico ultimo trovatosi con il cerino in mano o rimasto in piedi al gioco della sedia. In un approccio del genere ci sono però due inconvenienti, Il primo è che esso prevede l’esistenza del classico pollo disposto sempre a farsi spennare. Il secondo la possibilità per i partecipanti di puntare cifre sempre più alte su un rialzo continuo ed infinito delle quotazioni. Se uno dei due elementi viene meno il disastro è assicurato e infatti fu proprio quello che successe.
Eppure negli anni precedenti qualche segnale d’allarme c’era stato. Si era già avuta una caduta della borsa che aveva provocato non pochi impoverimenti di scommettitori poco previdenti ma nessuno vi fece troppo caso perché il rialzo dei listini era ripreso e si pensò si trattasse di un incidente di percorso. All’inizio del 1929 qualche osservatore più attento degli altri intravide i primi segnali che lasciavano sospettare che qualcosa non andasse o che stesse andando troppo bene per essere vero. L’economia e la Borsa negli ultimi quattro anni erano molto cresciute ma poiché il fenomeno era stato concomitante la cosa non aveva dato adito a timori.
I tassi di interesse erano stati tagliati sotto la presidenza di Coolidge, nell’agosto del 1927, ma se l’economia ne risentì positivamente in termini però fisiologici, la Borsa prese la rincorsa per poi accelerare dal marzo del 1929 fino al tracollo di ottobre. Un effetto domino che travolse tutto quanto incontrò sul suo cammino.
Milioni di persone si ritrovarono senza un dollaro in tasca e con titoli che altro non erano che carta straccia. Le banche non poterono fare fronte alle richieste dei correntisti di avere indietro i propri soldi perché li avevano spesi nella speculazione o avevano rimborsato i primi presentatisi agli sportelli. La conseguenza fu anche una caduta verticale della domanda interna, tanto che i fallimenti delle industrie, prive di richieste per i propri prodotti e prive di finanziamenti, si sommarono a quelli delle banche. Si innescò in tal modo una disoccupazione di massa mentre di milioni di famiglie si ritrovarono in mezzo alla strada senza la casa sulla quale avevano acceso un mutuo che non erano più in grado di pagare e costretti a vagare in cerca di una sistemazione. Eppure, 80 anni dopo il meccanismo si è ripresentato puntualmente e tutti a chiedersi dove avevano sbagliato quando sarebbe bastato tenere conto della lezione del passato. Ma sarebbe troppo pretendere questo da politici e da banchieri.