Il Veneto passò all'Italia in una camera d'albergo
di Fernando Riccardi - 04/11/2009
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Nel 1866, prima di quella che è passata alla storia come la terza guerra di indipendenza, il Piemonte si era impadronito di gran parte della penisola italica. Mancava soltanto Roma (che verrà presa nel settembre del 1870), Trento e Trieste (per le quali si dovrà aspettare la grande guerra) ma mancava soprattutto il Veneto. Dopo che nel 1859 la Lombardia era stata strappata all’Austria, ora si doveva arrivare fino a Venezia. La preda, del resto, era lì, a portata di mano, pronta per essere ghermita. Bisognava soltanto allungare la mano e metterla nel paniere. Per fare ciò, però, si doveva muovere guerra agli austriaci. La qualcosa non allettava troppo il buon Vittorio Emanuele II di Savoia troppo impegnato nella caccia alle anatre e alle polpose contadinotte piemontesi. Era indispensabile, perciò, trovare alleati e magari sperare che fossero gli altri a cacciare le castagne dal fuoco. Proprio come era accaduto qualche anno prima. Questa volta, però, la Francia, non era disposta a scendere in pista. Il Piemonte, che già aveva grossi problemi nella parte meridionale dello Stivale con la rivolta brigantesca, non se la sentiva di fare tutto da solo. Era indispensabile trovare un amico, uno di quelli tosti. Se la Francia nicchiava ci si doveva rivolgere altrove. E così ci si mise a flirtare di brutto con re Guglielmo di Prussia. Le trattative si incanalarono subito nella giusta direzione. E se la Prussia mirava a ridimensionare l’arroganza di Vienna, il maggiore ostacolo alle sue aspirazioni di stato guida della variegata nazione germanica, il Piemonte voleva mettere le mani sul Veneto. Il trattato di alleanza fu firmato l’8 aprile del 1866. Qualche settimana più tardi l’Austria, che cercava in tutti i modi di scansare la guerra (temeva molto la straripante forza militare dei prussiani), offrì il Veneto all’Italia in cambio della sua neutralità. La Marmora, però, fremeva per entrare trionfalmente a Venezia alla testa dei suoi soldati e rifiutò sprezzantemente l’offerta. E così la parola passò alle armi. Il 25 giugno, da Verona, rompendo gli indugi, le truppe austriache iniziarono a marciare verso la Lombardia. La Marmora, capo di stato maggiore dell’Esercito, poteva godere di una netta superiorità numerica: 200 mila uomini contro i 135 mila dell’arciduca Alberto d’Asburgo. Gli ufficiali sabaudi, però, erano l’un contro l’altro armati. Pessimi erano i rapporti tra La Marmora e Cialdini la qualcosa portò a dividere l’esercito in due tronconi: 12 divisioni al comando di La Marmora si schierarono sul Mincio mentre altre otto, agli ordini di Cialdini, presero posizione sul Po. In tal modo il consistente vantaggio andò a farsi benedire. Lo scontro si ebbe il 24 giugno a Custoza, oggi frazione del comune di Sommacampagna, nel veronese. Un luogo infausto dove già nel luglio del 1848 Radetzky aveva sconfitto Carlo Alberto di Savoia. Sedici anni dopo le cose non andarono granché meglio. Più che una battaglia si trattò di una serie di scaramucce che videro reparti dei due eserciti confrontarsi con alterne vicende. Alla fine della giornata le perdite austriache furono di gran lunga superiori a quelle italiane. Però, ironia della sorte, i primi restarono vittoriosi sul campo mentre i piemontesi si ritiravano in disordine al di là del Mincio. La Marmora era convinto di aver subito una grave sconfitta e voleva continuare ad indietreggiare fino all’Adda. Cialdini, dal canto suo, era rimasto immobile sulle sue posizioni. Si sarebbe potuto passare subito al contrattacco per cercare di infliggere al nemico il colpo decisivo. Tutto, invece, restò fermo. E mentre si discuteva sul da farsi, a Sadowa, in Boemia, l’armata prussiana sconfiggeva l’esercito austriaco. Fu la battaglia decisiva. L’Austria si affrettò a chiedere la mediazione della Francia per giungere alla cessazione delle ostilità. L’Italia, invece, che non era riuscita a cavare un ragno dal buco, rischiava di rimanere con il cerino in mano. Un burrascoso consiglio di guerra presieduto dal re in persona intimò a Cialdini di gettarsi all’inseguimento degli austriaci che si ritiravano verso l’Isonzo in cerca di un successo che potesse risollevare le sorti dell’onore sabaudo. Lo stesso ordine fu impartito alla flotta. Ma anche sul mare le cose andarono male, anzi malissimo. Il 20 luglio, a Lissa, un isolotto di fronte alla costa dalmata, la flotta di Persano subì una pesante sconfitta ad opera di Tegetthoff. Pesantissimo il bilancio: due corazzate affondate (la “Re d’Italia” e la “Palestro”) e 700 marinai finiti in fondo al mare. Eppure Persano (ritenuto poi responsabile della disfatta, processato e radiato dalla marina) poteva contare su 12 corazzate contro le 7 del rivale. La sconfitta bruciava ancora di più se si pensa che i marinai austriaci erano in gran parte veneti, istriani e dalmati e che il loro ammiraglio dava gli ordini in dialetto veneto. |