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L’essere integri richiede l’adeguatezza di scala

di Maurice Ash - 28/09/2005

Fonte: innernet.it

Buddismo verde


L'epoca presente è un periodo di grande prosperità, ma anche di nichilismo senza precedenti; se Dio è morto, la farneticazione ne ha preso il posto. Chiaramente, ci troviamo a un punto di arrivo della storia.
 

L’essere integri richiede l’adeguatezza di scala

Qualcosa mi tormentava da un po’ di tempo: come conciliare i due interessi pubblici che mi hanno assorbito negli ultimi cinquanta anni, cioè l’uso della terra (e la sua pianificazione), e le ricerche sulla realtà e lo spirito. In qualche modo, sono riuscito a tenere separati questi interessi come in due compartimenti stagni, ma recentemente ho avuto la sensazione che deve esserci un filo che li lega. Il risultato è stato questo articolo.

Abbiamo perso la bussola. Una questione di poca importanza, eccetto per coloro che si sono persi davvero nel mare… o nella realtà. Abbiamo gioito alla caduta del muro di Berlino, provando sollievo al crollo di una feroce tirannide, ma ora noi stessi non abbiamo alcun senso della direzione. Se l’ultima guerra ci ossessiona e non riusciamo a dimenticarla (sebbene sia molto più dimenticabile della Grande Guerra che l’ha preceduta), deve essere sicuramente perché il nostro presente è assai infausto. L’epoca presente è un periodo di grande prosperità, ma anche di nichilismo senza precedenti; se Dio è morto, la farneticazione ne ha preso il posto.

Chiaramente, ci troviamo a un punto di arrivo della storia. Questo punto di arrivo verrà inserito negli anni che vanno dal 1789 al 1989 in modo fin troppo naturale: infatti, tale processo di categorizzazione è semplicistico e inadeguato (amiamo la tassonomia: ci aiuta a contare).

Nel 1789 ci fu una Rivoluzione, senza che si sapesse il perché o cosa si sarebbe fatto dopo. Sulle basi del Razionalismo nacque il Terrore: da allora, la storia è andata avanti. Abbiamo dovuto sopportare la tragedia del Modernismo, nelle sue molteplici forme, e tutti gli altri sintomi di ciò che è “autenticamente vero” – per esempio, il romanticismo – per finire con quelle ideologie, ora screditate, le cui rovine ancora ingombrano il mondo.

In realtà, la mancanza di un’ideologia è tuttora considerata qualcosa di cui vergognarsi da più di un commentatore sullo stato del mondo, e della politica in particolare. Ma tali commentatori fanno parte del problema posto da questa mancanza: il problema del fare le giuste domande. Una mediocre cultura da tabloid ha riempito il vuoto… con il vuoto. E tutti quanti noi, non solo i loro lettori, ne subiamo le conseguenze.

Il solipsismo è l’implicito supporto intellettuale di questa cultura decadente. “Il mondo è il mio mondo” è la disperante conclusione del giovanile Tractatus di Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, Einaudi), che non avrebbe trovato seguito nelle più mature Ricerche filosofiche (Einaudi, 1999). Infatti, questa era la conclusione della sua spiegazione della logica, cui era dedicato il Tractatus: la logica della radice soggetto-oggetto nella conoscenza occidentale. Ma, di fatto, nelle pagine finali del Tractatus questa conclusione veniva cancellata, persino ridicolizzata, da alcune delle affermazioni più mistiche della nostra cultura (“Su ciò di cui non possiamo parlare, dovremmo restare in silenzio” ecc.).

Quell’aforisma giovanile di Wittgenstein si è rivelato un terribile presagio per un mondo occidentale in cui la filosofia, dai tempi di Platone, ha sempre battuto avanti e indietro il volano della soggettività e dell’oggettività alla ricerca della realtà, e in cui oggi la morte dell’ideologia ha lasciato il campo – anche se sotto gli auspici del “Mercato” – a uno sterile interesse per il Sé.

Questo Sé cerca incessantemente se stesso nel mondo effimero delle mode, dove potrebbe trovare un’identità (se mai ne esistono); naturalmente, questa è un’illusione, qualcosa di letteralmente autolesionistico. Ciononostante, questo è il motore della (nuova) realtà: il Frankenstein che ha sostituito la cronaca degli eventi importanti sulle pagine di giornali un tempo autorevoli. E questa nuova realtà accentua lo strano fenomeno per cui le semplici apparenze si stanno affermando come il nuovo potere della politica: il trionfo del computer e della realtà virtuale (le virtù antiche, ovviamente, sono in declino). Tutto ciò, di fatto, è nella logica della dualità, dalla quale ci siamo lasciati completamente sottomettere (forse per la nostra disperazione esistenziale).

Nel pensiero duale, dopotutto, qualsiasi realtà supposta, qualsiasi oggetto, viene definito in base a ciò che non è: l’oggetto è quel che è solo perché non viene percepito come qualcos’altro; a quel punto, per dargli sostanza, gli si assegna un nome. Il mondo così concepito, tuttavia, è spaventosamente fragile. Si provi a chiedere a un qualsiasi banchiere americano quali prestiti abbiano finora sostenuto la ricchezza di una nazione che ha smesso di risparmiare e la cui classificazione creditizia è stata svalutata dal desolante giudizio di quelle aziende la cui funzione è stimare la realtà economica. Ma la realtà economica non è il prodotto di qualche fenomeno soprannaturale chiamato “l’economia”, metafisicamente nata dall’insipida filosofia dell’utilitarismo, bensì un amalgama abbastanza semplice di transazioni creditizie tra nomi convenzionali. Tale realtà giustifica da sola la preoccupazione per il nostro benessere nel dopo-guerra fredda.

In un senso più profondo, tuttavia, la nostra precedente sinergia con un nemico (ora scomparso) è stata sostituita da una maggiore ricerca su cosa conferisce realtà alla nostra esperienza di vita. La Terra è in grado di sopravvivere all’uso che ne facciamo? O, piuttosto, noi siamo in grado di sopravvivere a quell’uso? L’avvento delle tematiche ecologiche ha provocato un mutamento nella nostra epistemologia, nella nostra nozione di cosa vuol dire conoscere qualcosa: un vero e proprio cambiamento di paradigma, in quanto quelle parole sono entrate nel linguaggio comune un quarto di secolo fa e prima erano svilite (come sempre accade con le parole) da un uso riferito a certe trasformazioni relativamente insignificanti nella prassi industriale e finanziaria (questa “pirateria” è stata, finora, l’unico segno di una mutata comprensione!). La trasformazione “verde” della nostra epistemologia, comunque, è abbastanza profonda da richiedere l’intervento della religione per venire compresa.

Gli insegnamenti religiosi, però, ci illuminano poco su come dovremmo cambiare la struttura del mondo. Ciò non dovrebbe sorprendere, almeno per ciò che riguarda le religioni monoteiste, in quanto queste ultime condividono le stesse radici delle nostre scienze. Queste radici sono la fede nella causalità, nell’impatto causale di un corpo su di un altro: ovvero di una Causa Prima, in quanto la scienza stessa, in ultima analisi, dipende dalla metafisica. Basti ricordare Newton e la sua decade alchemica! E, come ha scritto il poeta R. S. Thomas, “Platone, Aristotele e tutti coloro che hanno segnato di rughe la calma della propria fronte, sono responsabili della bomba atomica” (restano esclusi da questa categoria David Hume e i suoi seguaci – egli vendette solo diciassette copie del suo trattato – nella discussione sulla causalità).

A ogni modo, se esiste una religione oggi non socialmente irrilevante come le altre, è probabilmente (anche se sorprendentemente) il buddismo; non tanto il buddismo come religione (della quale esistono numerose sette), ma come un modo di accostarsi alla realtà.

L’approccio in questione (anche se potrebbe essere contestato praticamente da tutte le sette buddiste) è essenzialmente quello dell’agnosticismo, meglio conosciuto, forse, come la “Via di mezzo”. Esso ruota intorno alla nozione di contingenza, la nozione cioè che nulla è assoluto, nemmeno la contingenza stessa. Vale a dire – ciò potrebbe suonare familiare agli scienziati quantistici – che non esistono gli oggetti in quanto tali, ma che, piuttosto, tutto è interdipendente; anche il Sé, con qualsiasi cosa stia osservando. A questa filosofia si arriva con la riflessione, la pratica nella vita quotidiana e, non ultima, la meditazione. Ma ricordatevi: “Coloro che credono nel Nirvana sono incurabili!” (tutto questo, e molto ancora, è contenuto nella recente edizione di Verses from the Center di Nagarjuna, a cura di Stephen Batchelor, Riverhead Books, 2001). Ma in che modo ciò si collega alle strutture sociali del nostro mondo in crisi, così profondamente immerso nei principi meccanicistici dell’occidente?

Certamente non si vuole dire che, se ognuno si convertisse al buddismo, tutto andrebbe bene (finiremmo semplicemente con l’avere un numero ancora maggiore di sette!). Di maggiore interesse è il fatto, fin troppo ovvio, che la nostra nascente coscienza verde si riflette a stento nell’azione sociale e politica. Ciò non è dovuto, fondamentalmente, all’inettitudine o a dissensi profondi tra i Verdi stessi (come quelli, in Germania, tra i Verdi cosiddetti “realisti” e “fondamentalisti”). Piuttosto, le sue radici sono nell’epistemologia stessa, che resta legata all’occidente.

L’ambiente, in altre parole, viene ancora considerato un oggetto in mezzo ad altri oggetti. Ma così non può essere. A differenza di un oggetto, l’ambiente non ha nulla al di fuori di sé. Questo non vuol dire che esso non può essere nulla di meno dell’intero universo o del mondo, ma che è ciò che può essere inteso come un tutto. Si tratta, se vogliamo, di un tutto parziale, ma che va comunque considerato in modo diverso da qualsiasi parte di un tutto. Altrimenti, ogni ambiente richiederebbe il suo ambiente, proprio come ogni oggetto può esistere solo in un ambiente. In discussione, quindi, è una comprensione diversa di una realtà diversa.

D’altra parte, potrebbe essere salutare per i Verdi ricordare che Hitler era un convinto vegetariano e che, per reazione al caos economico, l’ideologia primitiva del Partito Nazista era plasmata sul movimento per il “Ritorno alla natura”. Gli “ambientalisti” dei giorni nostri dovrebbero muoversi con cautela. In altre parole, abbiamo di fronte una ricostruzione più o meno autoritaria del mondo, una riconsiderazione della realtà stessa.

Fin qui, i Verdi sono stati uniti da un’affinità emotiva. Tale affinità resta valida; di fatto, è indispensabile. Ma le emozioni sono transitorie. Senza una base intellettuale, i Verdi si divideranno sicuramente, e la nostra civiltà con loro. I Verdi devono prendere urgentemente lezioni sulla comprensione buddista della realtà, così come l’ho abbozzata di sopra.

La prima lezione riguarda il Sé: non esiste un sé sostanziale, e quindi non esiste alcun osservatore distaccato di particelle isolate. Esiste solo l’interdipendenza.

Secondo, e più importante: la questione della scala sociale, politica ed economica. Il buddismo è stato una pratica largamente basata sul monachesimo e (avvertimento necessario) di fronte alle invasioni musulmane dell’India, ciò si rivelò una debolezza fatale. Tuttavia, il senso di integrità sul quale si basa, richiede, se vogliamo comprenderlo, un limite nelle dimensioni del mondo di ognuno. Non per nulla Schumacher permise che il suo libro venisse chiamato Piccolo è bello, o che il suo capitolo forse più famoso, sull’“Economia buddista”, fosse semplicemente una confutazione dell’utilitarismo alla base dell’economia, tollerando quindi il riduzionismo, le “economie di scala” della società contemporanea. E una scala ridotta, ovviamente, favorisce il regionalismo.

Infine, dal buddismo i Verdi devono imparare l’adattabilità delle nozioni alle varie culture. Dopotutto, a Lhasa vi sono delle moschee costruite per quei musulmani che venivano fatti venire al fine di macellare gli animali che i tibetani non vogliono uccidere. E i Samurai erano i guerrieri Zen del Giappone. In altre parole, è sicuramente futile per i Verdi immaginare di poter influire, tramite “l’azione ambientale”, in una società meccanicistica come la nostra, dove solo ciò che è quantificabile ha qualche credibilità (e l’unico criterio comune di valore è il denaro). Questa società va cambiata.

Una tale trasformazione, tuttavia, non è inconcepibile (forse siamo più buddisti di quanto pensiamo). Essa non implica una rivoluzione nel senso antico. Un massiccio trasferimento di soldi e potere dal centro alle autorità locali, a ogni livello, non è rivoluzionario; oppure, se lo è, la Svizzera è un paese rivoluzionario! Sostenere un’educazione a scala umana non è rivoluzionario. La Danimarca possiede un sistema dell’istruzione che potremmo copiare in ogni minimo dettaglio, ivi incluse le piste ciclabili che sono parte integrante di ogni scuola o l’assenza di quegli esami che affliggono il bambino inglese; e io non penso che la Danimarca sia una potenza rivoluzionaria.

Un fisco che ricorra alle ipoteche non è rivoluzionario, sebbene Whitehall lo tema come una minaccia alla propria autorità. Il ritorno del valore del suolo edificabile alla comunità che lo ha prodotto non è rivoluzionario, altrimenti John Silkin, che nel 1975 lo impose attraverso i suoi funzionari pubblici nel Community Land Act, la legge sul suolo pubblico, è il più improbabile rivoluzionario di tutti i tempi, e sospetto che Margaret Thatcher, il cui primo intervento legislativo fu cancellare questa legge, l’avesse compreso (naturalmente, bisogna ammettere che tutto ciò comporterebbe delle conseguenze per la nostra antica dipendenza dai conquistatori normanni e il loro influsso sul sistema britannico delle classi; ma questa sarebbe una contro-rivoluzione assai modesta). Il sostegno all’agricoltura a piccola scala, anziché quello pericoloso all’agricoltura a grande scala, unico in Europa e dovuto a una fede cieca nella tecnologia (ricordiamoci di “mucca pazza”), non sarebbe rivoluzionario. Ripristinare il legame tra le industrie e le località in cui sono situate (perso con la sconsiderata abolizione del vecchio Rating System) non sarebbe rivoluzionario. E così via.

Tale scenario di trasformazioni incrementali non ha nulla a che vedere con l’ideologia politica, né offre l’Illuminazione. È solo una “via di mezzo” (e non una “terza via”) che obbliga ognuno di noi, in ciascun caso particolare, a usare il nostro discernimento migliore (più, si potrebbe dire, sul modello del suk che del supermarket). Chiaramente, una conoscenza più diffusa del buddismo – lasciando da parte i suoi dogmi – faciliterebbe questo processo. Ma, come disse Nagarjuna: “Il Buddha non ha mai insegnato niente a nessuno”.

Ciò che fece, piuttosto, fu porre domande; ma non le domande cercate dalle nostre risposte, come facciamo noi. Quando questo processo comincerà ad accadere – quando noi, tutti insieme, cominceremo a riprendere la nostra vita nelle nostre mani – dovremmo tornare a vivere più nel presente, abbandonando le ombre del passato. E non esisterebbero più ideali fissi cui restare attaccati.

Maurice Ash dirige la comunità Sharpham, dove studi buddisti e attività agricole vengono condotti fianco a fianco.