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Per una sinistra reazionaria

di Giuseppe Giaccio - 06/11/2009

 



La celebre definizione marx-engelsiana della moderna democrazia parlamentare come di un comitato che amministra gli affari della borghesia è andata, col tempo, sempre più perdendo il suo originario carattere polemico per assumere, a poco a poco, i contorni di una sintetica, folgorante descrizione scientifica. Questa natura della democrazia borghese poteva essere meno facilmente percepibile fintantoché la destra, il centro e la sinistra scendevano nell’arena politica presentandosi come portatrici di diverse e contrapposte visioni del mondo, ma da quando, con la fine dell’Urss, l’ideologia liberale è rimasta padrona del campo, questi contenitori si sono in fretta svuotati di ogni istanza e pretesa politico-culturale forte, per connotarsi come agenzie interne al campo del vincitore le cui differenze non si situano nell’ambito strategico, che è lo stesso per tutte le formazioni politiche (l’incremento del pil e quindi dello sviluppo, l’estensione della logica del mercato ad ogni sfera della vita, l’alleggerimento/smantellamento del welfare, la flessibilità, l’esportazione della democrazia), ma in quello tattico, relativo cioè alle diverse dosi di individuo, stato e mercato somministrate ai cittadini, che risulta sempre più arduo distinguere dai clienti e dai consumatori, per raggiungere i medesimi obiettivi. Questa ridefinizione programmatica in senso minimalistico e procedurale della democrazia non poteva, ovviamente, soddisfare quanti si ostinano a pensare che l’esistenza non sia riducibile al solo paradigma del valore di scambio, che ci sia dell’altro, un’eccedenza, variamente definibile (qualità della vita, destino, ecc.) che dovrebbe prevalere sulle esigenze puramente quantitative ed economiche e riverberarsi nel dibattito politico. Bruno Arpaia, apprezzato e pluripremiato romanziere, aderisce a questa seconda corrente e in Per una sinistra reazionaria esprime tutto il suo disagio nei confronti di uno schieramento nel quale continua a riconoscersi, nonostante la sua omologazione agli imperativi del liberalismo, e dal quale si attenderebbe la rivalutazione non di Popper o Adam Smith, bensì di quel filone critico verso gli esiti totalitari della modernità che costituisce una parte importante della tradizione culturale della sinistra e che sembra finito nel dimenticatoio o riservato solo a piccole conventicole: la Scuola di Francoforte, il Pasolini “corsaro” e  “luterano”, il pensiero meridiano di Franco Cassano, quello della decrescita di Latouche, l’elogio della lentezza e della sobrietà, dei doveri prima ancora che dei diritti, del senso di responsabilità e dell’autorità. Come si vede, il patrimonio culturale al quale l’autore si riferisce è alquanto composito e non interamente ascrivibile alla sinistra tout court, ed è forse anche per questo che Arpaia, mostrando una lodevole, e purtroppo poco diffusa, apertura mentale finisce con l’incontrare e interrogare criticamente intellettuali come Marcello Veneziani e Alain de Benoist senza esibire quella puzza sotto il naso tipica di tanta parte dell’intellighenzia di sinistra quando si imbatte in idee o personaggi considerati sulfurei e perciò poco raccomandabili. Cosa viene fuori da queste esplorazioni? Diciamo subito che un lettore particolarmente severo e/o umorale potrebbe facilmente stroncare il libro, che si presenta formalmente come un costume di Arlecchino i cui vari pezzi sono cuciti con ago e filo di qualità talvolta non eccelsa, ovvero come un collage di citazioni tenute insieme in modo non sempre convincente, cosicché non poche pagine risultano essere stiracchiate, stentate. Lo stesso autore è, del resto, pienamente consapevole dei limiti del suo lavoro, e lo dice chiaramente, quasi prevedendo e anticipando le critiche che gli sono poi state da alcune parti effettivamente rivolte. Scrive infatti: «In fondo, non sono né un teorico, né uno storico; pensare la politica o il suo al di là non è il mio mestiere. Di solito racconto storie». Dopodichè, paragona il suo saggio a «una specie di “copia e incolla” ragionato che tenta di rimettere i puntini su qualche “i”». Arpaia dunque sa bene di muoversi su un terreno che non gli è abituale e sul quale può facilmente scivolare, come quando, ad esempio, definisce il compianto Gianfranco Miglio “un oscuro professore, che non avevo mai incontrato, nemmeno in nota, sui libri che mi erano serviti per dare i miei sei o sette esami di diritto all’università” (sic!). Peggio per lei, caro Arpaia, verrebbe da commentare. E comunque, è ancora in tempo a rimediare, leggendo i libri e i saggi di uno dei nostri più prestigiosi costituzionalisti e scienziati della politica. Nonostante le sue lacune, il nostro decide in ogni caso di avventurarsi in uno spazio per lui accidentato, con una risoluzione che, a nostro parere, non nasce, malgrado tutto, né da superficialità, né da incoscienza, ma da una volontà, che ci pare sincera, di capire le ragioni di una evoluzione – che dal suo (e nostro) punto di vista è in realtà un’involuzione – del quadro politico e culturale, ridotto a una marmellata insapore e inodore di posizioni opportunistiche (nel senso più negativo del termine e non in quello del “grande opportunismo” un tempo vagheggiato da Cacciari). Probabilmente, è proprio in virtù di questo sguardo, per così dire, “vergine” e naif, alieno da pregiudizi e retropensieri, che Arpaia – uscendo dal recinto della sinistra e incamminandosi sui sentieri della destra “sublime”, alla ricerca di quella possibile “reazione” che potrebbe rivelarsi salutare per la stessa sinistra, insegnandole “la resistenza alla liquefazione del mondo” (Cassano) – ottiene il risultato più interessante del suo saggio, tale da renderne comunque non inutile la lettura, da non ridurla a “tempo perso”, per citare il titolo di un suo romanzo.
Analizzando le tesi di Veneziani e de Benoist, Arpaia comprende che mentre il primo è senz’altro un intellettuale di destra, il secondo sfugge a questa catalogazione, al punto che l’autore rimprovera alla sinistra di averlo “superficialmente e sbrigativamente regalato alla destra”. Egli, in altri termini, si rende conto che de Benoist (precisiamo: il de Benoist di oggi) è un pensatore davvero trasversale, non collocabile in nessuna area o famiglia politica e culturale predefinita. È, questa, un’acquisizione importante che corrisponde, in primo luogo, a ciò che lo stesso de Benoist dice di sé, quando afferma: “Mi sono sempre sforzato di essere un Selbstdenker, uno che non è il portavoce di nessuno, e che si interessa più ai contenuti che alle etichette” (cfr. Il pensiero ribelle, vol. 1, Controcorrente, Napoli 2007). E corrisponde, in secondo luogo, a ciò che scrive il più acuto studioso dell’iter metapolitico debenoistiano, Pierre-André Taguieff, in Sulla Nuova destra (Vallecchi). Ora, se sulla base della lettura di un solo testo di Alain de Benoist, e cioè Oltre il moderno (Arianna), Arpaia, che non è uno specialista della materia, giunge a una conclusione convalidata sotto il profilo scientifico anche da Taguieff, questo significa che, per l’osservatore onesto, non dovrebbe essere un’impresa proibitiva inquadrare correttamente il profilo intellettuale di de Benoist e che, se questo non accade, è o a causa di una stanca coazione a ripetere (e allora ci si dovrà liberare di una pigrizia e di un pressappochismo indegni di chi, più o meno professionalmente, “lavora” con le idee), o a causa di un atteggiamento settario, fanatico (e in tal caso, purtroppo, non c’è niente da fare, si può soltanto sperare in un miracolo). 
Peccato, tuttavia, che Arpaia (ed altri con lui) non tragga dalla giusta acquisizione di cui sopra tutte le auspicabili e implicite conseguenze. Per chiarire qual è il suo obiettivo, egli si affida alle parole di Cornelius Castoriadis, il quale parla della necessità di “una nuova creazione immaginaria che non ha paragoni possibili con il passato, una creazione che metta al centro della vita umana altri significati rispetto all’espansione della produzione e del consumo, che ponga scopi di vita diversi e tali da poter essere riconosciuti come validi dagli esseri umani”. Meta ambiziosa per raggiungere la quale il primo (anche se, certamente, non unico) passo da compiere, per chi opera in un contesto culturale, dovrebbe consistere nell’abbandonare, come un serpente nel periodo della muta, la vecchia pelle, le antiche appartenenze, per cercare di offrire contributi nuovi e alchimie originali, pena il trasformarsi in un contemplatore del proprio ombelico o in una vecchia e acida zitella che rimpiange i bei tempi della propria giovinezza, quello che poteva essere e non è stato, che si scaglia, piena di rancore, contro i fedifraghi e i traditori degli ideali giovanili e che, come recita una canzone di De André, regala consigli, peraltro non richiesti, non potendo più dare il cattivo esempio. Malauguratamente, è proprio questa la strada imboccata da Arpaia, che si attarda in una inutile (perché già fatta mille altre volte, senza alcun risultato) critica della sinistra istituzionale, dalla quale riceve in cambio solo un “glaciale silenzio”, come egli stesso ha scritto sul “Corriere della sera” dello scorso 11 aprile (cfr. l’articolo “La sinistra è nuova se abbatte il mito del progresso”). Ed è logico che sia così. Dopo essersi lasciato alle spalle il comunismo, ed aver in tal modo acquisito una piena legittimità democratica in quanto forza di governo, facendo venir meno il “fattore K”, non è realistico pensare che la sinistra istituzionale sia disposta a farsi di nuovo rinchiudere in un angolo con una critica seria e serrata dell’occidentalizzazione del mondo. Lo stesso discorso vale, mutatis mutandis, per la destra ex o post-fascista, che ha accolto con compiacimento i rilievi di Arpaia alla sinistra, non comprendendo, o facendo finta di non comprendere, che, rovesciati di segno, essi potevano tranquillamente riferirsi anche alla destra. D’altra parte, nemmeno dalla sinistra sedicente radicale e antagonista Arpaia viene trattato molto meglio. Qui, a fungere da barriera è il contatto contaminante che il romanziere ha stabilito con de Benoist, di cui avrebbe evitato di discutere i “capisaldi speculativi sorprendenti e inquietanti”, come gli rimprovera Roberto Gigliucci (si veda l’articolo “Tante grazie, ma la destra non ci fa invidia”, su “Liberazione del 7/4/2007). Morale della favola: non ha alcun senso continuare a gironzolare intorno alla rappresentazione lineare-assiale della politica, baloccandosi con aggettivazioni più o meno scandalose, perché prima o poi si finisce con l’essere risucchiati, recuperati. L’immaginazione invocata da Castoriadis si rivela, in Arpaia, talmente poco immaginifica da non consentirgli di immaginare un taglio del cordone ombelicale che continua a legarlo alla sinistra, peraltro ad un livello puramente formale, perché, se guardiamo ai contenuti, riesce difficile inserire le sue tesi lungo l’asse destra-sinistra. Non si cava un ragno dal buco opponendo alla sinistra conservatrice una sinistra reazionaria. O, nel caso della destra, presentandosi come “progressisti” in quanto discepoli italiani di Sarkozy. Si tratta solo di boutades prive di solide basi e destinate a vivere lo spazio di un mattino. Badiamo piuttosto alla sostanza, vale a dire alla costruzione, con chi ci vuole stare e senza chiusure pregiudiziali e settarie, di una prospettiva di cambiamento profondo e al tempo stesso democratico, alla creazione di inedite linee di consenso e di conflitto ulteriori al liberalismo, e accantoniamo le etichette, che servono soltanto a intrappolarci. Del resto, non è proprio una certa sinistra a ripetere in continuazione, da alcuni anni a questa parte, come se fosse un mantra, che bisogna battersi contro il branding? Siamo talmente d’accordo che ci permettiamo di suggerire ad Arpaia, e a quanti condividono le sue preoccupazioni, di ampliare la lotta e trasferirla dall’ambito socio-economico, cioè dalla critica delle multinazionali, a quello della cultura politica. Anche qui, lo slogan deve essere “no logo!”.

Autore: Bruno Arpaia
Titolo: Per una sinistra reazionaria
Edizioni: Guanda, Parma 2007
Pagine: 182