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Copenaghen: il braccio di ferro tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo continua

di Andrea Boretti - 06/11/2009

Il summit di Copenaghen si avvicina; ancora un mese per stabilire gli obiettivi fondamentali da fissare e intraprendere per ridurre le emissioni entro i prossimi 10 anni. Uno scontro acceso tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo.


 

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Continua in modo sempre più travagliato il percorso di avvicinamento alla conferenza dell'ONU sul clima che si terrà a Copenhagen dal 7 al 18 Dicembre prossimo
Continua in modo sempre più travagliato il percorso di avvicinamento alla conferenza dell'ONU sul clima che si terrà a Copenhagen dal 7 al 18 Dicembre prossimo. In questi giorni, all'Hospitalet, in pieno centro di Barcellona, si stanno svolgendo gli incontri preliminari della suddetta conferenza, e le cose, ancora una volta, non paiono volgere al meglio.

 

Se, infatti, sugli obiettivi di lungo periodo (meno 80% emissioni di CO2 entro il 2050) pare esserci il consenso generale, è sulle azioni da intraprendere immediatamente e sui target dei prossimi 10 anni che si sta consumando lo scontro.

Al momento, infatti, solo l'UE ha avanzato un'ipotesi di riduzione del 20% delle emissioni (aumentabile a 30% in caso di largo consenso) entro il 2020, ma, se si esclude il Giappone che pare sulla stessa linea (il neo-premier Giapponese ha parlato di 20-25%), la posizione Europea è di totale isolamento. Così, in attesa di riconquistare la leadership sulla questione, Barack Obama, che pare totalmente assorbito dalla situazione politica interna, tace, e con lui anche il Canada, che ha una delle situazioni climatiche più disastrose.

Constatata la situazione, mercoledì 4 novembre, i 53 paesi africani - per la prima volta uniti - appoggiati da altri 73 paesi in via di sviluppo tra cui (forse un po' opportunisticamente) il BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) hanno abbandonato la seduta causando di fatto il blocco delle trattative. ''L'Africa già soffre per gli effetti del cambiamento climatico, la gente muore a causa del modo di vivere occidentale, mentre i paesi sviluppati nascondono quale sarà la loro riduzione delle emissioni'' ha dichiarato l'algerino Kamel Djamouai, portavoce africano.

Ma non è tutto. Il problema sono le emissioni (l'Africa chiede una diminuzione del 40%), ma è anche l'apertura di un discorso serio sugli aiuti che i paesi ricchi dovrebbero dare ai poveri per l'acquisto di nuove tecnologie che, in previsione di uno sviluppo delle aree più povere, dovrebbe impedire a queste di intraprendere industrializzazioni ad alto consumo di combustibili fossili. Senza contare che gran parte di queste tecnologie verrebbero comprate proprio nei paesi occidentali. ''Se non parliamo di cifre di riduzione delle emissioni, e di cose serie, questo e' un esercizio inutile'' ha affermato il sudanese Lumumba Sanislaus Di-Aping. E ancora, "I paesi africani hanno espresso un forte livello di frustrazione, e la loro inquietudine di fronte all'assenza di impegni ambiziosi da parte dei paesi industrializzati rimane forte'' ha rilevato il responsabile Onu per il cambiamento climatico (Unfccc), Yvo de Boer.

La crisi, seppure nel malcontento generale, pare ora essere rientrata e gli africani sono tornati ai negoziati. Certo è che viste le premesse, il rischio di un flop del più atteso summit dell'anno diventa, sempre più, un'ipotesi tristemente concreta. Divisi da sviluppo economico e cura degli interessi nazionali e di conseguenza ciecamente bloccati nelle proprie posizioni, gli stati si preparano così a Copenaghen, dove - come abbiamo già detto più volte -il superamento dei reciproci egoismi è assolutamente necessario.

Se così non fosse, l'unico risultato ottenibile sarebbe un documento con obiettivi di lungo periodo, oltre che un impegno politico a cui non corrisponderebbe alcuna assunzione di responsabilità. Nel 2050, infatti, nessuno degli attuali attori della vita politica internazionale si presume sarà ancora sulla scena e sarà quindi qualcuno dei nostri nipoti ad assumersi oneri e onori di quanto avverrà.