La fine di tutte le strade. L'esotismo imploso di Annemarie Schwarzenbach
di Luisa Bonesio - 03/04/2006
Fonte: geofilosofia.it
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Segantini, Le cattive madri |
E’ un autodistruttivo anelito verso la terra promessa a portare Annemarie Schwarzenbach lungo le strade del mondo, e in particolare in quella Persia che, nei primi decenni del secolo, conservava ancora gran parte del suo fascino esotico e straniante. Ma sarebbe ingenuo attendersi, nei suoi racconti e visioni, la restituzione di un cliché archeologico, o l’apertura curiosa verso altri popoli e altri costumi, o la disponibilità a un’eventuale palingenesi culturale, come, ad esempio, in colei che sarà una sua compagna di viaggio, la scrittrice e giornalista Ella Maillart (1). Tardivo e fragile frutto dell’iperconsapevole cultura dell’Europa, la Schwarzenbach viaggiò spinta più dall’inquietudine che dalla curiosità, pur avendo lasciato significativi reportages ed essendo stata sinceramente da un impegno politico in cui si profuse con generosità, accanto a Erica e Klaus Mann (2), alla ricerca di sé e della verità più che di panorami da collezionare. Eppure, potrebbe essere riduttivo leggere le due scritture scaturite dal viaggio in Persia compiuto assieme al marito, il diplomatico Claude Clarac, nel 1935, come semplice sfogo lirico o come visioni frutto del consumo di oppiacei. Tod in Persien, rielaborato successivamente come Das glückliche Tal (1940) (3) con il cambiamento al maschile dell’io narrante, più che un semplice resoconto dell’esperienza di un soggiorno nella valle d’altura del Damavand, vicino a Teheran, o un “diario impersonale” (4), può essere letto come una drammatica traversata del problema dello sradicamento e della solitudine in un mondo dove sono già ben chiari i segni della globalizzazione e della progressiva sparizione dei caratteri propri anche delle più antiche culture: se il vicino Oriente risuona per un europeo colto ancora di memorie classiche e di precisi riferimenti archeologici, esso è nondimeno già sottoposto alle logiche dell’industria e del profitto, ferrovie e oleodotti transcontinentali mettono per forza di cose a contatto modernità e arcaicità, disinvolte donne europee che viaggiano in automobile e tecnici delle compagnie petrolifere si incontrano con carovane di pastori sui cammelli. La biografa della Schwarzenbach, Areti Georgiadou, scrive: “Il Medio Oriente diventerà per lei il luogo per eccellenza in cui confrontarsi con se stessa e il mondo. Qui, dove ha inizio la storia della cultura europea, lei celebrerà il suo distacco dall’Europa. Annemarie Schwarzenbach ben presto non sarà più solo una viaggiatrice in Persia, non più solo una visitatrice, ma una donna che nella vastità dei deserti di questo paese rifletterà e piangerà il destino del suo continente natio in declino. Le montagne persiane saranno il grande scenario del suo male di vivere, della sua mancanza di patria e della sua condizione di sradicata” (5). Ma nella sua scrittura la Persia diventa un prisma in cui si scompongono e sovrappongono le sembianze dei luoghi, in una paradossale operazione di smarrimento e di riconoscimento incrociati: le particolarità reali di un luogo, descritto spesso con grande forza espressiva ed evocativa, finiscono con lo svanire sotto la pressione di un’angoscia di spaesamento che le rarefà fino a farvi riconoscere, in filigrana, le sembianze del paese amato e lasciato alle spalle: come una lunga e tormentata traversata dell’estraneo in cui soltanto è possibile l’agnizione della terra promessa, che come tale, non può che essere all’origine.
1. Una lontananza intransitiva
Sono i nomi segnati sulle carte geografiche a chiamare, con il loro fascino, al viaggio, quasi per potere constatare che esistono. E’ un dubbio sulla realtà che porta a esperire la lontananza, a “raggiungere i nomi, toccare i muri e camminare per i vicoli, sentire risuonare i miei passi sul selciato e battere il mio cuore”. Ed è questo struggente desiderio che spinge verso l’ignoto, a esporsi ad esso, fino a diventare estranei a se stessi: “Ora ero già sull’antica rotta dei popoli, sulla strada reale degli Achemenidi, sulla cima del passo Peitak. Lontano dai familiari conforti, solo. L’estraneità mi toccava, non mi riconoscevo più” (6). Un’identica estraneità porta sulle rotte dell’allontanamento; ma esso si risolve in un’impossibilità di direzione, mancando l’orizzonte nel quale situarsi, e la domanda “verso dove?” trova una risposta crudele nel chiuso e sublime orizzonte della valle dove il mondo giunge alla fine, dove l’interrogativo su ciò che esiste fuori di se stessi, l’ansia di dare un volto ai nomi della lontananza, di vedere brillare “le cupole dorate nella luce della sera”, “alla fine dello spazio, alla fine del tempo” (7), trova risposta nell’impervietà intransitabile che ne mostra la vanità: “La lontananza non esiste perché non possiamo salire più in alto, non abbastanza in alto per guardare oltre la nostra valle e oltre le rocce e i pendii che la delimitano” (8). E’ anche l’impossibilità di distinguere il cielo dalla terra che ha bruciato con la vampa infuocata del sole a rendere impossibile l’orientamento, così come la smisuratezza del paesaggio si risolve in sublimità annichilente e distruttiva, l’eccesso di grandezza non dà riparo, si sottrae ad ogni misura umana, elude ogni calcolo: “Le rocce mi vennero incontro abbattendosi su di me all’improvviso, i fiumi stavano i agguato con il lento impeto delle loro masse di acqua gialle d’argilla, pietre grigie, basalto nel blu, erano dolorosamente desolate, le pianure non erano nemmeno ostili, solo troppo grandi” (9).
E’ “la mortale grandezza”, sono “le cose sublimi e luttuose della Persia”, sono la landa e il cielo troppo grandi in cui si consuma l’idoleggiamento estetico e l’ansia esotica dell’Occidente, dove finisce l’illusione di ritrovare un’altra grandezza, la selvaggia desolazione, la malia delle antiche rovine, la vastità nostalgica dei deserti. In realtà quella bellezza mostra la sua terribilità ancora più rapidamente che altrove, e il “sentire forti emozioni” viene soppiantato da “questa terra straniera [che] prende il sopravvento su di noi e ci rende estranei al nostro stesso cuore” (10). Fuggendo dall’Europa che cela dentro di sé il deserto, gli occhi non incontrano che distese inospitali “giallo lebbra”, soli implacabili, venti assordanti, l’incessante franare dei pendii, un cielo troppo alto e bianco, immobile, inanimato, metallico come una cupola dorata o un tetto di piombo: “Qui non sono più in balia dei miei antichi desideri, non mi estenuo più sulle vie dell’incanto, non chiedo più teste di toro coronate e gigli d’acqua, non sello più il cavallo e non invio più falchi viaggiatori. [....] Mi accorgo dell’orrore di appartenere ancora alla vita, senza patria, senza pietà, in balia di questo paese, delle sue distese sotto la luna, delle sue coste, dove si sono arenate le navi, della sua desolazione, dei suoi giardini senza vento” (11). Sublime che schiaccia con la sua vuota smisuratezza, con la sua inesorabile inospitalità, con l’esplicita disumanità che rende anche qui impossibile un consistere e costringe a un’incessante viandanza.
Così non è certo casuale che il protagonista di La valle felice, proprio come l’autrice durante il suo primo viaggio in Persia, lavori come archeologo, professione emblematica di una civilizzazione tarda e affascinata dall’arcaico, ossessionata della memoria che non ha più, esteticamente nostalgica e lacerata dalla consapevolezza delle proprie radici perdute. L’archeologia, la restituzione delle origini sepolte diventa un pretesto per la fuga, l’alibi per la mancanza di una “sana” costruttività che l’epoca richiede, per inoltrarsi su una strada ignota e verso una conoscenza incerta, senza nemmeno più la consolazione della visione auratica dell’antico, dello “scendere attraverso gli strati dei secoli, gli strati di terracotta e di argilla, i cocci, le case crollate, i templi abbattuti, le tombe rese alla terra, giù, fino alle feste da lungo tempo finite, i culti dimenticati, i trionfi celebrati e caduti nell’oblio, gli incendi, i terremoti e le resurrezioni - giù fino ai pozzi più profondi” (12), perché quello che si dà a vedere, tradendo il desiderio appassionato e nostalgico che conduce su strade perdute (13), è ormai solo “la miseria delle rovine sgretolate” (14). Come lo spazio, anche il tempo è privo di profondità, e i resti riportati alla luce sono oggetto di un processo di lavoro da cui ogni avventurosità schliemanniana è sparita. Al pari della lontananza spaziale, anche quella temporale è intransitiva, implode su se stessa, impedendo il ricordo e il progetto, dissolvendo l’identità personale e la memoria storica, e così cancellando e ingarbugliando le strade del mondo e disperdendo nell’indefinitezza l’origine: “Si dovrebbe poter ricordare. Si dovrebbe poter ritornare indietro, passo dopo passo, e allora forse si ritroverebbe l’inizio. Si dovrebbero evocare dei nomi, richiamare dei volti, risvegliare dal sonno le città. Si dovrebbero inviare dei suonatori di tromba davanti alle mura e alle porte di Baghdad, Gerico, Hama, Beirut, Aleppo, Latakia, Gerusalemme fino a farle cadere. Ritornare fino alla torre di Ur, la ziqqurat, la possente piramide a gradoni che ho visto sorgere dal deserto all’alba [...] Sono i ricordi, sto sognando, cerco nel sogno? Quale fatica, quale immane sforzo, gettati su una pista che conduce in un mare di polvere gialla!” (15).
In un modo simile a quello ch’era stato di Rilke nei Quaderni di Malte, l’evidenza delle cose si sfa, venendo meno la certezza e solidità dell’io; occorre allora imparare a vedere (16), svuotandosi di sé, dei propri desideri, delle ansie, in una “spoliazione solitaria” che possa trasmutarsi in un “dono magico che permetteva di entrare in rapporto con quelle immagini, di assorbirne insieme i colori, le forme e le misure, insieme il loro movimento e la loro stasi, il loro contenuto di gioia o di dolore, il loro silenzio, il loro linguaggio, il loro canto, la loro schiacciante vicinanza, la loro intoccabile lontananza e i ricordi che da esse scaturivano, i presentimenti che ne nascevano” (17). Ed è tutto nel segno di una paradossale ascesi il viaggio verso la “fine del mondo”, altro nome della “valle felice”: è per lasciarsi alle spalle la patria, l’Europa, la famiglia, le usanze, se stessa, per accedere all’impossibile verità delle cose e di sé, che l’autrice si offre in una totale esposizione, si rimette alla più completa spoliazione, fino a diventare assolutamente inerme, “una delle più deboli”. Il mettersi per via procede da una volontà di liberazione (18), ma anche dal desiderio di dare un volto ai nomi delle carte geografiche che facevano sognare da bambini che si sfalda sotto il peso insostenibile della grandezza della realtà: “Là, la striscia gialla all’orizzonte, sul cielo che si raffredda - quale paesaggio riceve le sue ultime fiamme? Prima ancora che possa coglierlo con lo sguardo, sprofonderà per sempre. E le navi sul fondo del mare, le città sommerse, i palazzi sotto la sabbia del deserto - la mia impotenza mi soffoca! E inoperoso mi lascio sfuggire il tempo - perdo ogni ora, con la sua esperienza unica” (19). Così l’ansia del vedere si capovolge nell’abbacinamento che deriva da una sensitività portata ai suoi estremi limiti, indipendentemente dall’uso di droghe che non fanno che esasperarne l’ossessività e lo scacco: il desiderio di “toccare” la realtà delle cose si capovolge nell’insopportabilità del mondo sulla propria sovraesposta sensibilità, proprio come la volontà del mettersi in viaggio non incontra che naufragi e arenamenti: “Sapevo che in questo stato di ricettività nessun grido d’uccello sopra il Mar Caspio mi sarebbe sfuggito e che la sua roca selvatichezza, il suo lamento crescente, il suo disperdersi nel vento mi avrebbe richiamato la sperduta malinconia di quella costa battuta dal vento [...]. Sì, sapevo che non vedevo solo immagini, che non udivo solo suoni e li raccoglievo e li disponevo a mio piacimento, ma che tutto ciò mi apparteneva, in maniera assoluta, che tra me e il mondo visibile, percepibile, sensibile, tangibile non vi era più nessun ostacolo. Ma non sapevo più come proteggermi - i torrenti mi attraversavano e toccavano il mio cuore” (20).
2. L'inquietante familiarità dell'estraneo
Il naufragio non può che avvenire nella valle del Lar, “alla fine del mondo”, quasi soglia verso l’ultraterreno, la cui intransitabilità la fa assomigliare alla morte (21): lì sembra che tutte le strade che si volevano evitare e quelle che si sono prese giungano a ricongiungersi, in uno “scenario da fine del mondo”. La Heimatlosigkeit viene pienamente assunta dalla Schwarzenbach come il destino dell’esistenza nella modernità, senza alcuna indulgenza romantica, proprio come il tema esotico viene riletto alla luce di un impietoso disvelamento della sua natura di illusoria proiezione dell’anima occidentale e della sua stanchezza di vivere. La premessa a Morte in Persia previene la possibile delusione del lettore che non troverà nel libro avventurosità, né edificazione, né sollievo dell’evasione: nel mondo della disperazione inaggirabile dell’autrice che si fa estrema voce della “crisi dello spirito” europeo, non può essere credibile che davvero “una persona si lasci trascinare fino in Persia, una terra lontana ed esotica, solo per cedere laggiù a tentazioni senza nome” (22): non quella della droga, non quella dell’amore per le donne, perfettamente perseguite e perseguibili in Europa. Piuttosto, la “rivelazione” che si rende possibile in Asia, dove “labile è il confine fra disumano e sovrumano”, è quella dell’insopprimibile genius loci delle terre in cui ci si vorrebbe recare solo per sfuggire a qualcosa, che si stende inospitale, opponendosi nella sua impenetrabilità al desiderio di un consolante e compensatorio appaesamento. In fondo, la criticata ipersoggettività, gli sfoghi lirici eccessivamente autobiografici rimproverati all’autrice, soprattutto nella prima versione del racconto, Morte in Persia, rivelano in controluce proprio la consapevolezza dell’impossibilità della fuga decadente o romantica, il miraggio di terre selvagge o incontaminate in cui rigenerare il proprio esausto io. Piuttosto, esse fanno a pezzi ogni residuo di soggettività, come l’episodio dell’angelo indica: occorre sopportare “la desolazione e la solitudine” di quelle terre, di ogni luogo, in cui si va cercare un’impossibile palingenesi o la tardiva resurrezione di memorie spente. Perché ogni terra ha i suoi angeli (o è un angelo, come pensavano gli antichi abitanti della Persia), e gli angeli hanno la loro terra, la loro notte, il loro vento che li accoglie (23), a differenza degli umani che hanno rinunciato alla patria e alla terra, costretti a un’erranza ineludibile, in cui, tuttavia, “l’estraneo può rivelarsi il proprio e il proprio risultare l’estraneo” (24).
E’ così che partiti per lasciarsi alle spalle il proprio mondo, quasi subito si prova la nostalgia di casa, e, con essa, la domanda senza risposta sulla propria identità. “Io: ospite, estraneo, avventuriero, cos’altro? Curioso, avido di conoscere, impaziente in viaggio - solo” (25): aggettivi che fissano, in un’estrema e rarefatta sintesi, le caratteristiche dell’anima faustiana analizzata da Spengler nel Tramonto dell’Occidente. E’ perché non “esiste angolo della terra dove i venti non abbiano accesso”, “dove non si incrocino strade, dove nessuna strada riporti a casa” (26), che un viaggio che si oblii felicemente in altro è impossibile. Al contempo, però, il viaggio è necessario per trovare la propria terra, per conoscerne davvero il volto, quando un ciuffo d’erba nel deserto basta a richiamare un mondo che sarebbe rimasto invisibile nella perennità della consuetudine: “L’erba richiama centinaia di ricordi, il fieno caldo è un mondo familiare. A casa i prati confinavano con il nostro giardino, d’estate, all’alba si sentivano le falciatrici e si aprivano le imposte [...] E prati di montagna, sul Rigi, sul Mythen, in Engadina!” (27). E’ così che sull’impervio e schiacciante paesaggio montano della valle persiana del Lar possono disegnarsi in filigrana i tratti dei familiari paesaggi svizzeri, in una trasparizione che fa scoprire o rammemorare il volto della terra patria nelle montagne nei deserti mediorientali: “La Persia? Paesi lontani? Esco dalla porta bassa della chaykhana - potrei essere su un alpeggio, lassù sul passo Julier” (28). Ma questa agnizione imprime un’oscillazione ancor più vertiginosa alla realtà, alla misura del lontano e del prossimo, del familiare e dello straniero, facendo smarrire definitivamente l’orientamento: “Era questa la strada verso la terra promessa? Avrei dovuto evitarla, tornare indietro, ieri ancora? Avevo osato avventurarmi troppo lontano? Era forse intervenuta una mano estranea, un caso, per gettarmi su questa rotta verso l’ignoto? - Questa spaventosa penombra, questa mortale immensità! - Ciò non mi era destinato, non ne ero all’altezza, non io avevo scelto questa strada - questo io che un tempo aveva giocato all’ombra degli alberi frondosi, respirato l’odore del fieno, dell’erba calda e del terreno umido dei boschi, specchiandosi nei laghi blu, conquistato ridendo le alture con piede leggero [...], questo io che era salito su tutte le torri e aveva contemplato quel paese ameno e prospero […] Ma che serviva porsi tali domande? mi ero lasciato alle spalle le coste del Mediterraneo, i vigneti e i cedri del Libano - avevo barattato l’ultima sponda familiare con il deserto” (29).
L’esperienza dell’erranza e dello spaesamento fa emergere con lacerante forza la nostalgia di essere “sulle rive di un lago, a casa”, nella quiete montana di Sils: come se vedere “il ricco Manzandaran, quintessenza della malinconia” (30) o lo svegliarsi la mattina in un vecchio giardino persiano scuro e ombreggiato, o percorrere la strada per la casa di Jalé, con la radice sporgente all’ultima curva che fa sobbalzare l’automobile, altro non fossero che tappe della nostalgia di casa, per le “regioni più amene, con distese di colline verdi, laghi azzurri, vele bianche, serenità” (31). Così come è dall’incapacità di situarsi nel proprio tempo (32) che si è chiamati a percorrere la straniante stratificazione temporale nel viaggio o nella ricerca archeologica, quando “i limiti tra i secoli sono sospesi, gli antichi monumenti sono l’immagine dell’eterno ritorno e le tracce transitorie delle ore sono i segni dell’eterna armonia” e ci si può illudere di un’estatica sospensione del tempo, senza legami, ricordi che annodino corrispondenze, ombre che si frappongano tra sé e il mondo, di poter sopportare il silenzio disumano che domina le rovine o il vento del deserto che sospinge la marea gialla della sabbia del deserto. Per la tattica di elusione qualsiasi meta è in fondo equivalente, e solo “alla fine di tutte le strade” (33) si comprende che non una meta, ma la partenza è la ragione profonda del viaggio, “luminosa tristezza delle sere d’estate ai margini di città straniere dove si respira sempre aria di partenza - cammelli, asini, cavalieri con berretti di pelo d’agnello; la porta di piastrelle colorate si apre per farli uscire, fuori inizia il deserto, scompaiono in una nube di polvere...” (34).
Ed è nella poesia, di sapore testamentario, dedicata a Sils (35), che ancora una volta il paesaggio dell’Engadina (“l’anello saliente delle cime montuose”, il “rivo ameno / che nella canicola meridiana, all’epoca del raccolto, / ruscella copioso su pietre argentate una stillante frescura, / e all’abbeveratoio, / dove, la sera, sostavano scuotendo le criniere, cavalli dal manto dorato”) e quello persiano (il “deserto”) si trovano apparentati e quasi sovrapposti come un unico “tessuto”, nel cui vertiginoso intreccio si dà a vedere la “ricerca della patria”. Non Sils, non Persia; ma, in fondo, Sils e Persia, laghi engadinesi e piramide del Damavand: come, non molto prima di Annemarie Schwarzenbach, aveva riconosciuto, nella sovrapposizione immaginale dei medesimi luoghi, Nietzsche, nomade ed errante, che nel paesaggio di Sils aveva visto chiarità mediterranee e profetici deserti persiani, approdando infine alla sua terra d’elezione.
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6 . A. Schwarzenbach, La valle felice, cit., p. 37. 21. A. Schwarzenbach, Morte in Persia, cit., p. 30 e p. 37. |
"Hesperos", 1, 2001