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Hippie e tradizione (II parte)

di Giuseppe Gorlani - 13/11/2009

  

 In tempi di confusione e di mistificazione dei Princìpi che presiedono all’emanazione e al riassorbimento dell’esistenza, non sarà superfluo sottolineare come l’unico bene veramente degno di essere svelato sia, per il bhakta, l’Unione col Divino o, per lo jnanin, la Conoscenza di Sé[40]; questa ha poco o punto a che vedere con la conoscenza empirica e con la ricerca del possesso ad oltranza: la prima è “esperienza”[41] diretta dell’Essere e libera dalla paura, donando contentezza e pace, la seconda è accumulo nozionistico che, per quanto esteso e per certi limitati versi utile, rimane pur sempre un’infima relatività. L’assolutizzazione di tale relatività, proposta a guisa di unico e supremo bene, è l’errore di fondo dello scientismo.
   Non ci si meravigli dunque che dell’hippie, inteso in senso sapienziale, si sappia ben poco: «Colui che ha la propria legge dentro di sé / cammina nel segreto. […] Colui che cammina nel segreto / ha una luce che lo guida / in tutte le sue azioni»[42]. Uno tra i pochissimi “hippie” italiani con il quale ho ancora contatti di viva amicizia e fratellanza, non sa nemmeno di essere stato un hippie ed è del tutto estraneo ad ogni forma di notorietà, tant’è che non ne posso nemmeno fare il nome, perché so che non gli farebbe piacere. Egli, trascorsi gli anni giovanili in cui partecipò in qualche modo alla temperie del Risveglio, ha tenuto accuratamente nascosta la propria vita ascetica ed interiore, al punto di apparire agli occhi degli altri come una persona intensa ma comune.
   Si sa molto di più dell’arte hippie che produsse cose notevoli, non solo a livello musicale, ma anche pittorico e letterario; essa era fluida, espansiva, organica, ipnotica, realistica e surreale ad un tempo. I giovani di quella generazione aspiravano a trasformare se stessi in “arte”: erano allegri, vestiti di abiti colorati e celebravano la loro gioia di esistere stando insieme sui prati e ballando liberamente sulle note del rock.
   Essi desideravano tornare a vivere in comunità in cui si praticasse la cooperazione, la comunicazione (da cum-munire, “costruire insieme”) e il rispetto tra gli uomini e in cui ciascuno, invece di diventare questo o quello, a seconda dei bisogni della Macchina, potesse concorrere al bene comune, realizzando il proprio svadharma. Scrive in proposito Alain Daniélou: «“Conformarsi a ciò che si è, è dharma” [...] Dharma è un vocabolo che significa “legge naturale”. Conformarvisi è l’unica virtù. Non c’è altra religione che la realizzazione di ciò che si è per nascita, natura, atteggiamenti. Ciascuno deve recitare come meglio può la parte che gli è assegnata nel gran teatro della creazione. La felicità dell’uomo e la sua sopravvivenza dipendono dall’attuazione del posto che egli occupa tra gli esseri viventi come specie e tra gli uomini come individuo» [43].
   Tale loro aspirazione non si basava tanto sulla credenza in un’astratta uguaglianza orizzontale di stampo illuministico, quanto sull’intuizione di un’identità metafisica centrale, dalla quale la molteplicità fenomenica irradia, sulla quale si sostiene e alla quale ritorna. Per contro, nella società occidentale moderna, se da un lato, come già detto, l’uomo si disfa della propria dignità ontologica, dall’altro assume uno spropositato senso dell’”io” soggettivo, contrapposto agli altri “io”. E tutti questi “io”, gonfiati di nulla, sbraitano e si agitano per la durata di alcuni secondi, litigando, ammazzando, rubando, distruggendo, inquinando, catalogando, lavorando e lavorando al servizio della Macchina, prima di annichilirsi tra le braccia della morte. L’intuizione dell’identità con l’Essere non li sfiora mai, ma chiamano il loro cieco brancolare nella nescienza “progresso”, “civiltà dei diritti”, “democrazia”, “cultura” e lo esportano urbi et orbi, quasi fosse una sorta di putrida “benedizione” à rebours.
   Significativamente “Unità nella diversità” è il motto a cui, almeno nominalmente, si ispira la Famiglia dell’Arcobaleno, erede diretta della sensibilità hippie, che ogni anno organizza un Rainbow Gathering europeo e vari incontri minori in ogni nazione. L’orientamento sarebbe di per sé buono, peccato però che l’espansione della coscienza venga bloccata da sigarette[44], sostanze psicotrope usate male, ipocrisia, miseria psicologica e pressapochismo irrisolti, mancanza di consapevolezza intellettuale e sopravvivenze inconscie di ideologie anarcoidi o di sinistra diffuse dalla stessa civiltà dal cui plagio ci si vorrebbe liberare. Del resto chi inquina e offende se stesso non può che estendere tale offesa all’ambiente che lo circonda, facendo decadere nella retorica tutto il discorso di aspirazione alla comunicazione e di amore per la vita. E poi, se l’ente non impara a discriminare tra il pensiero che emana dal Centro di sé e quello indotto e assimilato dall’esterno, tramite mille suggestioni e condizionamenti, il suo dire si riduce a flatus vocis e il suo agire ad un “essere agito”. 
   All’ultimo Rainbow italiano al quale ho partecipato, nei Monti Simbruini, Mario, un giovane poeta romano, terminava puntualmente le proprie pregevoli improvvisazioni intorno al fuoco con la seguente frase: «È l’ora dell’era dell’oro». La cosa mi ha colpito, giacché ritengo che quest’anelito a vivere l’Era dell’Oro (Satya-yuga), in pieno Kali-yuga (l’Era Oscura attuale, secondo la cosmogonia hinduista), sia un elemento precipuo dello spirito hippie. È dall’aver contezza di chi si è realmente che deriva come conseguenza spontanea il vivere con gratitudine l’atemporale Età dell’Oro. In tale stato di coscienza non c’è storia; afferma Chuang Tzu: «Nell’epoca in cui la vita sulla terra era piena [...] [gli uomini] vivevano insieme nella libertà dando e ricevendo e non sapevano di essere generosi. Per questo motivo nessuno ne ha narrato le gesta. Essi non fanno storia»[45]. Pure nel  film The Holy Mountain di Alexandro Jodorowsky si sottolinea come l’aspirante al Vero in sé non lasci traccia: quando la compagine di discepoli con il maestro giunge ai piedi della Montagna Sacra, compare un ometto vestito da tirolese a dare loro il benvenuto e a introdurli nel Bar del Pantheon; non appena però tali autentici ricercatori se ne allontanano per intraprendere l’ascesa, l’ometto così li apostrofa: «Idioti, non sapete che cosa perdete! Potevate fare la storia, invece vi abbiamo già dimenticato!». Ai piedi della montagna stazionano i gaudenti, i parolai mistificatori della poesia, i sedicenti sacerdoti dell’LSD, i “campioni” che sanno penetrare la materia solo orizzontalmente; in un’ottica esoterica, sono costoro che, strepitando vanamente, fanno la storia, elevandola a “verità” scientifica. Attribuire valore assoluto al tempo storico equivale a celebrare l’effimero, mentre invece rifarsi al tempo mitico dell’orgine significa ravvisare nel perituro l’imperituro, riconoscendo all’esistenza umana un valore metafisico. 
   Il sapere per identità appare alla ratio dicotomica alla stregua di un non-sapere. Lo circondano, infatti, un silenzio, un vuoto ed una tenebra totali[46]; ed è per questo motivo che l’uomo chiuso nella prigione della separatezza, in fuga perpetua dal proprio fondo, lo evita terrorizzato. 
   The Summer of love (“l’estate dell’amore”) fu uno dei più importanti eventi della cultura Americana degli anni ’60; in tale occasione, tra l’altro, gli hippie celebrarono il proprio “funerale” come espressione di ribellione nei confronti della cultura ufficiale che premeva per inglobarli nell’establishment, trasfomando in merce e moda il loro movimento di idee e di aspirazioni; e ciò al fine di invalidarne e banalizzarne gli aspetti rivoluzionari.
   Comunque, già nel ’73-’74 il movimento hippie cominciò a sfaldarsi. Tra i giovani che avevano vissuto quegli anni di fermento culturale, politico e spirituale, molti morirono di eroina, non pochi vennero rinchiusi in manicomi, alcuni finirono in prigione per aver scelto metodi violenti di cambiamento della società, altri si inserirono nelle più svariate scuole o correnti facenti capo a personaggi carismamatici (Hare Krishna, Ananda Marga, Osho-Rajneesh, Bambini di Dio, Kriyananda, Sai Baba, Scientology, Krishnamurti - l’anti-guru che faceva il guru -, Maharishi Mahesh Yogi, ecc.), i più vennero riassorbiti nell’establishment e soltanto un numero assai esiguo sopravvisse in modo affermativo, fuori da ogni rigida identificazione, trasformando le proprie comprensioni e illuminazioni in uno stile di vita coerente, finalizzato all’autoconoscenza e basato sull’armonia con la natura[47].
   Il vuoto e la tenebra avvolgenti la Conoscenza per identità, di cui si diceva poc’anzi, sono assimilabili pure alla metafora iniziatica del “deserto”, con la quale ci si riferisce allo stato coscienziale in cui tutti i sostegni svaniscono. Scrive un anonimo estensore della Scuola di Raphael: «La coscienza deve spogliarsi di tutto e restare completamente nuda [...] È così che un giorno il discepolo si trova senza relazioni, senza contatti, senza sostegni, senza punti di riferimento oggettivi, in uno stato di imponderabilità assoluta. È una condizione psichica, la sua, estremamente penosa, nella quale egli scopre di essere completamente solo e che nessuno, davvero nessuno, può aiutarlo. [...] La sua vita è ormai un deserto circondato da rovine. Non può guardare al passato senza soffrire né può proiettarsi verso un futuro che non ha, ma solo può vivere il presente con la coscienza rivolta al centro e con la consapevolezza che la sofferenza dell’io, per la perdita degli oggetti-sostegni, non può non risolversi nella gioia senza oggetti del Sé»[48]. Una simile riflessione serve a spazzare via la faciloneria che oggi impera in ambito neospiritualistico; faciloneria che diventa vera e propria ottusità quando il sedicente aspirante ritiene di poter ottenere la Conoscenza pagando con denaro. Per risvegliarsi alla Realtà è indispensabile attraversare il deserto, rigettando luoghi comuni, ideologie e appartenenze di ogni genere. Ecco il prezzo da pagare! Appare evidente, quindi, come per l’uomo attuale, schiacciato da mille dipendenze di natura karmica, sociale e religiosa, ciò risulti oltremodo “difficile”. Credere di capire l’identità dell’anima individuata (jiva) con lo stato spontaneo e naturale dell’Essere non basta, anzi può fuorviare; comprendere (da com-prehendere, prendere dentro di sé) è essenziale.
   Uno dei massimi esponenti della filososfia hippie fu Alan Watts. Personalmente me ne andai in India con un suo articolo in tasca, letto e riletto più volte; si trattava di Domani l’estasi, pubblicato, nella traduzione un po’ zoppicante ma comunque efficace di Pariananda, sul n. 8 di Paria, rivista del Canton Ticino. In seguito, a Katmandu, sotto una tettoia, vicino alla grande statua di Mata Kali posta lungo la via principale, donai l’articolo ad un giovane italiano disilluso e depresso, nella speranza che potesse trasmettergli un po’ di entusiasmo.
   Ne cito l’incipit e altri brevi brani: «L’avvenire sarà nell’estasi o non ci sarà, questo vuol dire che la violenza ucciderà la vita. O la vita trionferà e allora sarà l’estasi. Perché noi sappiamo che l’estasi è necessaria all’uomo d’oggi come la salute fisica e la salute mentale. A San Francisco e a Katmadu apparvero negli anni sessanta le barbe e i capelli lunghi dei giovani profeti di vent’anni che dimostravano come l’immagine del Cristo, degli Apostoli e dei profeti non era più quel mito che ci si immaginava. Mentre la tecnica raggiungeva il suo apogeo, questi giovani rifiutavano i falsi valori creati dalla civiltà occidentale: proprietà e rango sociale. I vecchi s’arricchiscono e i giovani proclamano la ricchezza personale. [...] Poi il grande cerchio dell’LSD che irrora con i suoi magici fuochi le voluttuose nubi del fumo della marijuana. Poi si innalzarono canti indù, anche lo joga si innalzò ad accompagnare i canti indù, rendendo ai corpi nodosi l’elasticità di un albero che esplode verso il cielo. Il Misticismo. [...] Intanto ecco quello che ha dichiarato recentemente un giovane che in un flash aveva intravisto il punto/fine: “Lo stato naturale dell’uomo è la meraviglia estatica, non dobbiamo accontentarci di niente all’infuori di questo”».
   Parole come quelle testé citate erano musica per l’Orecchio del Cuore, sede dell’Intelligenza noumenica (la buddhi, in linguaggio Vedanta), che negli hippie si stava svegliando: tra gli adulti vi era qualcuno che comprendeva quello che stavano vivendo. Al di là di residui ideologici e di luoghi comuni di varia provenienza, alcuni uomini intelligenti vedevano chiaramente che essi non erano parassiti drogati, bensì neumi dello Spirito, il cui soffio onnipervadente si risveglia dove vuole, e sinceri amanti del Vero in sé.
   Oltre ad essere un filosofo, Alan Watts fu editore, scrittore, prete anglicano, preside di facoltà, oratore, anche radiofonico, e conferenziere e per oltre un ventennio venne considerato come uno tra i maggiori interpreti occidentali delle filosofie orientali. Scrisse venticinque libri, ciascuno dei quali teso a edificare una filosofia illuminativa da condividere pienamente con i suoi lettori sparsi in tutto il mondo.
   Dal punto di vista filosofico, egli cercò di cogliere in ogni tradizione quelle correnti che andavano oltre il dualismo, ispirandosi in ciò alla saggezza universale rivelata nelle Upanishad, la parte più esoterica dei Veda, i testi sacri dell’India, ma anche al Taoismo, al Buddhismo Zen e Ch’an, al Sufismo, al Neoplatonismo di Plotino e a quello rinascimentale, e alla Mistica apofatica Renana.
   Quantunque, almeno secondo lo scrivente, egli abbia diffuso interpretazioni riduttive e ambigue della dottrina buddhista dell’anatman[49], in sintesi contribuì a consolidare il ponte che sin dalla più remota antichità unisce l’Occidente all’Oriente[50]. Tale ponte venne definito dallo studioso Ananda K. Coomaraswamy Sophia Perennis, riferendosi ad una saggezza universale, in essenza inesprimibile, la quale, sebbene variamente additata, trascende ogni confine geografico e permane intoccata dal tempo[51]. Per coniare la locuzione in questione, il noto studioso anglo-cingalese attinse probabilmente all’opera De perenni philosophia di Agostino Steuco, edita nel 1540.
   L’espressione Philosophia Perennis venne comunque usata anche da autori lontani dal tradizionalismo di stampo guénoniano, al quale A. K. Coomaraswamy apparteneva; per esempio: K. Jaspers, A. Huxley e il nostro A. W. Watts[52], il quale, però, nella prima Prefazione ad uno dei suoi libri più notevoli, The Supreme Identity, scrive: «Fin dalla stesura di Behold the Spirit ho ricevuto un grande aiuto dall’opera di due scrittori che hanno, in un certo senso, profondamente cambiato la mia comprensione della portata e della natura delle dottrine orientali e della loro relazione con il cristianesimo: René Guénon e Ananda Coomaraswamy. Vorrei approfittare dell’occasione per esprimere la mia gratitudine verso questi due uomini. Nello stesso tempo, è mio dovere spiegare che il presente lavoro, pur mostrando la loro influenza, non pretende in alcun modo di essere una fedele rappresentazione di come loro vedono gli argomenti trattati»[53].  
   Alan Watts, soprattutto sul finire della sua vita, divenne un importante punto di riferimento per la cultura hippie americana ed europea; suoi articoli e saggi comparvero su diverse riviste underground degli anni ’60 e ’70. Negli ultimi anni (morì in California nel ’73), persino il suo aspetto e il suo stile di vita cambiarono: i suoi capelli e la sua barba crebbero, sostituì camicia e cravatta con tuniche ampie e comode, si dedicò alla calligrafia, al tiro con l’arco, al canto e alla danza.
   Il movimento hippie si spense tra il ’73 e il ’75. Nel ’77 o ’78 non era rimasto più nulla, forse solo qualche strascico di profumo da cui presero il via i movimenti alternativi ed ecologisti degli anni ’80 e ‘90 e nuove comunità propugnanti un radicale ritorno alla terra. Dapprima tutto ciò che richiamava lo stile hippie venne rigettato e poi parodiato: si diffuse la moda dei capelli rasati, degli abiti neri, dei tatuaggi, dei piercing. Dal rock estatico si passò al rock commerciale, perfettamente registrato ma anodino, al punk, alla disco, alla techno, al rap. Negli anni ’90 certi aspetti dello stile hippie vennero ripresi, ma edulcorati, banalizzati e commercializzati. Basti vedere in che cosa si era trasformato nel ’94 e nel ‘99 il raduno di Woodstock: uno spettacolo penoso, improntato alla bruttezza e alla desolazione psichica, che nemmeno il commento favorevole di Ginsberg o gli interventi di Joe Cocker e di altri grandi del rock riuscirono a migliorare[54].
   Uno studioso di esoterismo mi disse un giorno che il movimento hippie era fallito perché non un solo giovane, durante i numerosi raduni psichedelici di quegli anni, aveva superato la soglia del sacrificio dell’ego, e cioè della morte iniziatica. C’è qualcosa di vero in ciò, ma non credo sia tutto. Secondo me, alcuni giovani, rari, riuscirono a balzare oltre la polarità, diventando “invisibili”: quando la propria azione e quella del Tao coincidono non c’è più nessuno che possa essere visto. Prima ancora, però, dovettero attraversare le nebbie del neospiritualismo, al quale, in un primo momento, avevano attinto, ma del quale, in seguito, attraverso  l’esperienza di stati superiori dell’Essere, scorsero i limiti e le contraddizioni.
   Antonio Castronuovo in un interessante saggio intitolato La Gnosi Psichedelica, confuta le critiche di quelli che non ritengono valida la scorciatoia psichedelica, poiché aprirebbe a tutti, e in modo automatico e facile, le porte del Sacro. In realtà la via psichedelica non è affatto facile, anzi è pericolosissima, come del resto tutte le vie tantriche - riservate ai mahavira, i grandi eroi dello Spirito -, in cui si entra nella tana del leone per verificare l’indistruttibilità della propria natura intrinseca. Riferendosi all’LSD, Castronuovo scrive: «[...] l’effetto più compiuto della sostanza si manifesta in menti aguzze. La diffusione della “eucarestia” lisergica, in forma di pasto sacro per le masse, non ha avuto l’esito da molti sperato: che tutti coloro che ne fecero uso ne fossero illuminati. Ha invece agito in senso squisitamente gnostico: ha soggiogato – e forse anche dannato – molti, concesso illuminazione e conoscenza a pochi. E come sempre, i pochi sono senza indugio collocati nell’area dei predestinati». E ancora: «I predestinati ci sono: l’esperienza psichedelica è del tutto efficace se provata dagli gnostici physei sozomenoi, “eletti per natura”. È alquanto scorretto affermarlo, ma la storia dell’LSD dimostra che non era una cosa per tutti»[55].
   Tra l’altro, è stato constatato come gli effetti delle droghe non siano oggettivi e costanti ma varino da soggetto a soggetto, da situazione a situazione. Persino l’intento con cui vengono assunte influisce profondamente sulle risposte che offrono. In pratica esse funzionano come amplificatori o stimolatori di potenzialità presenti nello sperimentatore; non possono cioè dare qualcosa che questi non abbia già, sebbene sopito. C’è chi vive l’esperienza con le sostanze psicotrope parlando di calcio o di trattori e chi, immergendosi negli imi della coscienza, accede a stati contemplativi o di anamnesi più o meno intensi. Evidentemente esse agiscono non soltanto a livello chimico sul corpo fisico dello sperimentatore, ma anche, e soprattutto, su quello sottile-energetico che sfugge ad analisi di tipo scientifico. Ecco perché nello Yoga e in altre discipline esoteriche è di fondamentale importanza avere conoscenza preliminare di una fisiologia o struttura sottile, esulante dal dominio della percezione densa, con centri di coscienza (cakra), canali conduttori di prana (nadi), ecc.; dedicarsi ad una simile indagine equivale a studiare una mappa.
   Oltre all’intenzione con cui le si assume, non si deve trascurare l’importanza di una guida, di un maestro e del supporto di un’ambiente sapienziale tradizionale. In proposito si veda come nella pellicola cinematografica Altered States, del regista Ken Russell, l’esperienza psichedelica, che viene inscritta in una visione di tipo scientifico-evolutiva, priva di aspirazioni autenticamente metafisiche e di riferimenti tradizionali, dia risultati illuminativi pressoché nulli o addirittura invertiti. Quando il protagonista va in Messico per sperimentare una potente bevanda sacra preparata da alcuni vecchi indigeni, i quali gli anticipano che potrebbe risvegliarsi, passando attraverso una “spaccatura”, alla sua “anima increata”, la differenza nel modo di vivere l’esperienza tra il primo e i secondi salta evidente agli occhi. Il primo si agita, urla, uccide un grosso lucertolone e, mentre se ne va, invece di provare riconoscenza per quella gente e ammirazione per la bellezza della natura primordiale nella quale è immerso, non vuole credere a quello che ha vissuto e discute animatamente con l’amico che l’aveva accompagnato; i secondi, con i loro volti ieratici, che sembrano scolpiti nella pietra, chiudono gli occhi ed entrano in se stessi. Nella parte conclusiva dell’opera, il protagonista, rivolgendosi alla propria compagna, dice: «Tu mi hai salvato, mi hai ripreso dal fondo dell’abisso. Ormai ero arrivato a quell’ultimo momento di terrore che è l’inizio della vita, ed è il nulla. Un semplice orrendo nulla. La verità assoluta di tutte le cose è che non esiste verità assoluta. La verità è ciò che è transitorio, è la vita umana, la realtà. Non voglio spaventarti, Emily, ma quello che cerco di dirti è che quel momento di terrore è un orrore vivente e reale che ora vive e cresce dentro di me. E l’unica cosa che gli impedisce di divorarmi sei tu»[56]. In tutta evidenza siamo qui mille miglia lontani dall’insegnamento tradizionale e dalle testimonianze lasciateci da sadhu, rishi e yogin. Affermare che «La verità è ciò che è transitorio, è la vita umana, la realtà» banalizza l’anelito alla conoscenza del protagonista, svuota di significato l’esistenza umana e cosmica, tutto. E poi, quale assurdità è sostenere che il qualcosa emerge dal nulla! Il “vuoto”, il “nulla”, semmai, sono tali solo dal punto di vista dell’esperienza del manas dicotomico. Invero, come recita lo Yajur Veda Bianco: «Om. Quello è Pieno, questo è pieno. Il pieno è attinto dal Pieno. Prendendo il pieno dal Pieno, rimane pur sempre Pieno. Om! Pace, pace, pace!»[57].
   Dunque, non è la droga in sé che può condurre a questa o a quella mèta. Scrive Manolo Bertuccioli, riferendosi ad uno studio di Frits Staal: «Le droghe a cui qui si fa riferimento sono quelle psichedeliche come l’LSD, i funghi, la mescalina e simili. Lo studioso afferma che una droga non ha un unico effetto, ma molti e diversi. Il fatto particolare è che ciò avviene non solo se la sperimentiamo su persone diverse, ma anche sulla stessa persona. Nasce il sospetto che l’effetto dipenda da altri fattori oltre che da quelli chimici. Si può allargare il discorso dicendo che un vero e proprio stato di realtà non-ordinaria non è indotto sufficientemente da specifici stati fisici o cerebrali. Quindi gli effetti di una droga possono essere molto vari e, altro punto importante, non necessariamente dirompenti; si vuole sottolineare ciò perché ancora molti credono che l’effetto di una droga procede con l’ineluttabilità di una valanga»[58].
   Concordo pienamente con le riflessioni di Castronuovo e di Bertuccioli e vi aggiungo alcune considerazioni: sebbene la divulgazione indiscriminata delle conoscenze esoteriche venisse ritenuta una profanazione nell’antichità, nei tempi attuali, pur restando nefasta, vale come opportunità provvidenziale per l’esigua schiera di quelli che, benché dotati delle qualificazioni indispensabili, non possono beneficiare di istruzioni preliminari dirette a causa dell’oscurità imperante[59]. L’apertura delle porte dei templi è senz’altro pericolosa, poiché la conoscenza che per taluni è farmaco per altri è veleno. C’è un momento, inoltre, in cui il ricercatore, trovandosi di fronte a svariate prospettive sapienziali, che gli sembrano ad un tempo tutte vere e false, si sente aggredire dalla confusione. Si noti, dunque, come non sia soltanto l’assunzione di “piante che danno luce”[60] ad essere rischiosa e temibile, ma anche e soprattutto l’accesso a plurimi orizzonti intellettuali, alcuni dei quali particolarmente vertiginosi. Nota Nagarjuna, ne Le Stanze del Cammino di Mezzo: «La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata»[61]. E Raniero Gnoli, nell’Introduzione a tale opera, scrive, citando Damascio: «Davanti all’ineffabile, osserva Damascio, Platone si è ritratto. “Se infatti, egli dice, Platone, arrivato fino all’uno tacque, questo ben gli si addice, il fatto dico di affatto tacere, secondo l’antico costume, circa quanto è affatto indicibile. Pericolosissimo era in realtà, infatti il discorso, ove fosse caduto in orecchie volgari”»[62]. 
   Non a caso nell’India tradizionale, la lettura delle Upanishad era consentita soltanto a persone dotate di precise qualificazioni: si sapeva che la filosofia in essa contenuta induceva l’ente non fissato in una salda discriminizione a immortalare l’io contingente o, all’estremo opposto, a cadere nella disperazione che deriva dal confrontarsi con la vacuità dell’esistenza condizionata. Eppure le Upanishad oggi si trovano sugli scaffali di qualsiasi libreria e sembra che l’ardua dottrina advaita sia diventata una specie di moda. Anche qui, e forse più ancora che con l’LSD, abbiamo “dannazione” per molti, liberazione per pochi.    
   Quanto da me sostenuto in questo modesto studio non ha alcuna pretesa di esaurire l’argomento o di convincere chicchessia; mi rendo conto, tra l’altro, di come esso possa essere considerato frutto di una prospettiva affatto soggettiva. Sebbene l’obiezione sia legittima, resta il valore - non so se più o meno piccolo - di una testimonianza che procede dall’aver vissuto in prima persona il “viaggio” caratterizzante quel periodo. In tutta sincerità devo però ammettere che nell’affrontare l’argomento delle “esperienze” sovrasensibili sono stato trattenuto da un certa reticenza: so che la pretesa di razionalizzarle e divulgarle le deforma. Come si spiegherebbe altrimenti che dei Misteri Eleusini nessuno osò mai lasciare più di qualche scarna vestigia? Evidentemente l’Ineffabile si protegge da solo, giacché non è con il semplice uso della mente empirica che può essere descritto, còlto e neppure intuito. Osserva Giorgio Colli: «Bello, senza riserve, è l’amore della verità. [...] Voler mostrare la verità nuda è meno bello, poiché turba come una passione. [...] non rimane che proteggere la verità, nasconderla di nuovo. In realtà proteggeremo così noi stessi; essa è intangibile nel profondo, e neppure le parole che scriviamo adesso le fanno male. La verità non è mai compromessa, tutto quanto si dice sul suo conto può essere falso e illusorio»[63].
   Lungo le strade dell’Oriente o ai raduni psichedelici o nella comunità sorte in Italia incontrai centinaia, migliaia di giovani che venivano genericamente definiti hippie; moltissimi erano animati da entusiasmo sincero, ma pochi, dal mio modesto punto di vista, erano davvero hippie nel significato che ho tentato di tratteggiare nel presente scritto. In ogni caso questi ultimi esistevano e si riconoscevano l’un l’altro e venivano riconosciuti dai sufi afghani o dai sadhu indiani non occidentalizzati. Così, mentre le moltitudini, debitamente pilotate, inneggiavano al progresso e sbraitavano che le barbarie della tradizione erano finalmente state debellate, quei “pochi” vennero effettivamente iniziati e si inserirono nella Tradizione sovrareligiosa che, come un filo aureo, attraversa ed unifica le varie tradizioni particolari e tutti gli sforzi umani sinceramente tesi alla Conoscenza. In tempi tenebrosi, la via più difficile e alta è la più sicura.

Note
40) Riferendosi al Centro del Cuore, la Shruti (la Tradizione direttamente udita o rivelata) addita ciò che deve essere conosciuto: «[...] in questa cittadella del Brahman vi è questo piccolo ricettacolo che ha la forma di un fiore di loto. Al suo interno vi è un piccolo spazio. Quello, che è all’interno di esso, è ciò che si deve ricercare; Quello, invero, è ciò che si deve desiderare di conoscere», Chandogya Upanishad, VIII.1.1, a c. del Gruppo Kevala, Roma, Ediz. Asram Vidya, 2006.
41) Le virgolette servono ad evidenziare l’inadeguatezza del termine; non si può avere “esperienza” della Non-dualità. Le parole, anche quelle più eccelse, si rivelano inadeguate non appena si pretende di parlare dell’Indescrivibile. 
42) In T. Merton, op. cit., p. 164.
43) Op. cit. pp. 13,14.
44) Pare che una sigaretta contenga ben seicento sostanze chimiche aggiunte; tutt’altra cosa è il tabacco naturale.
45) Op. cit., p. 94.
46) «Tenebra ricoperta da tenebra era in principio; tutto questo (universo) era un ondeggiamento [salila] indistinto. Quel principio vitale che era serrato nel vuoto, generò se stesso (come) l’Uno mediante la potenza del proprio calore [tapas]», Inni del Rigveda, X.129.3, a c. di V. Papesso, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1979. Si noti altresì come nel cuore del tempio hindu (garbhagriha) - in cui viene installato il simulacro, spesso aniconico o appena accennato, del dio, il “Purusha della residenza” - regni il buio. Cfr. P. Magnone, op. cit.
47) Scrive F. Ponzetta (op. cit., nota n. 26, p. 87): «In Italia vi fu, come è stato rilevato spesso, “un altro sessantotto”, che vide i pionieri della futura ricerca spirituale viaggiare in lungo e largo per la penisola asiatica alla ricerca di se stessi, trovando poi, spesso, o le spiagge hippy di Goa o guru come Rajneesh». Senz’altro “spesso” accadde così, ma non sempre. L’hippie come lo si intende in questo scritto, pur essendo passato da Goa, dove visse momenti illuminativi fondamentali e si riconobbe in altri fratelli, non si sentì minimamente attratto dai guru famosi, immersi nel lusso, che si rivolgevano agli occidentali o agli indiani addomesticati ormai incapaci di comprendere la propria tradizione sapienziale. In entrambi i casi, questi ultimi, pur credendosi affamati di risposte, non si sentivano pronti a mettere in gioco se stessi e dunque pagavano col denaro o con la sottomissione a nuove ideologie ciò che può essere “pagato” solo con la totalità di se stessi. L’hippie non si sentì attratto neppure dalla retorica gandhiana, come del resto da nessun’altra retorica.
48) Anonimo, Dalla Teoria alla Prassi, Periodico Vidya, novembre 2008, Roma, Ediz. Asram Vidya.
49) A. Watts nella sua opera La Gioia di Vivere (Torino, Casa Edit. MEB, 1977), considerata come il suo testamento spirituale (il titolo originale è The Essence of Alan Watts), affronta alcuni temi fondamentali, di cui il primo è “L’Ego”. Con argomenti validi Watts nega ogni realtà all’”io”; e finché si tratta del coacervo di desideri, paure, bisogni che chiamiamo “io” si può prudentemente concordare. Egli sostiene che siamo un’allucinazione, ma non spiega su che cosa si fondi tale allucinazione. Dalle sue riflessioni si deduce che siamo una sorta di trama indefinita di relazioni, ciò tuttavia non risponde alla domanda “Chi sono io?”, “Chi osserva?”, “Chi scopre e comprende di non essere questo o quello?”. Secondo le dottrine hinduiste, l’ego non è un puro nulla, bensì un grado della Realtà o, quantomeno, una sua proiezione apparente. Esattamente come nelle dottrine platoniche le cose sono ombre delle idee. Riguardo poi al sostenere che l’ego non può disfarsi di se stesso attraverso se stesso, le dottrine tradizionali sostengono che nell’io individuato è immanente un aspetto sottilissimo, detto buddhi o mente intuitiva o intelligenza del cuore: una sorta di filo d’Arianna o di ponte per mezzo del quale l’ente può intravvedere la propria identità metafisica, senza cancellare ogni valore alla contingenza. Comunque, resta assai interessante l’intuizione dell’Autore circa l’indissolubilità tra ambiente e corpo, tra esterno ed interno.
50) Contrariamente alla communis opinio, sembra inevitabile ammettere l’esistenza, sin da tempi remoti, di una comunicazione osmotica tra Oriente e Occidente. Ne è prova l’animus sostanzialmente gnostico-orientale dell’Orfismo, degli Eleati, del Platonismo e del Neoplatonismo. A livello bibliografico basti citare: Fra Oriente e Occidente di Santo Mazzarino (Firenze, Boringhieri, 2007); Mistica Occidentale, Mistica Orientale di Rudolf Otto (Casale Monferrato, Marietti, 1985), in cui si mettono a confronto Meister Ekhart e Shankara, il codificatore del Vedanta non dualistico, identificandone le notevoli e sorprendenti affinità; Sapienza Orientale e Cultura Occidentale di A. Coomaraswamy (Milano, Rusconi, 1975); lo studio di P. Vicentini, Il problema dei rapporti tra filosofia greca e orientale, comparso sul Quaderno n. 2/2008 dell’Associazione Eco-Filosofica di Treviso; gli atti del Convegno Neoplatonism and Indian Philosophy, che ebbe luogo a New Delhi durante gli ultimi giorni del 1992 ed i primi del 1993, edito dalla State University of New York Press; Pensiero Indiano e Mistica Carmelitana, di Swami Siddheshvarananda (Roma, Ediz. Asram Vidya, 1977); Iniziazione alla Filosofia di Platone, di Raphael (Roma, Ediz. Asram Vidya, 1984); Orfismo e Tradizione Iniziatica, di Raphael (Roma, Ediz. Asram Vidya, 1985); Antica India la Culla della Civiltà, di G. Feuerstein, S. Kak & D. Frawley (Milano, Sperling & Kupfer Ed., 1999), in cui il capitolo L’India e l’Occidente è interamente dedicato al processo osmotico al quale si è accennato. Persino il rinomato grecista Giorgio Colli, che ritiene «impensabili» reciproci «influssi di qualsiasi genere» tra la Grecia antica e l’India delle Upanishad, non può esimersi dal constatare ripetutamente le notevoli affinità tra i due sistemi di pensiero (cfr. G. Colli, op. cit., p. 21, nota n. 21).
51) Nell’Introduzione al Brahmasutra, a c. del Gruppo Kevala – Roma, Ediz. Asram Vidya, 2000 -, si legge: «Benché inserito nel contesto filosofico tradizionale indiano, il Vedanta rappresenta nell’ambito della conoscenza l’espressione più pura e feconda di quella Sophia perennis che è patrimonio spirituale di tutta l’umanità».
52) Cfr. La prospettiva interculturale di Ram Adhar Mall di P. Vicentini, fonte: Associazione Eco-Filosofica.
53) A. Watts, La Suprema Identità, Vicenza, Ed. Il Punto d’Incontro, 1993, pp. 17,18.
54) Si veda My Generation – Woodstock 1969 – 1994 – 1999, un film prodotto e diretto da Barbara Kopple, Polygram 2000.
55) Op. cit., pp. 41,43.
56) K. Russell, Altered States, Warner Bros., 1980.
57) Trad. di P. Magnone, op. cit.
58) M. Bertuccioli, Carlos Castaneda e i Navigatori dell’Infinito, Milano, Mimesis, 2004, p. 163.
59) Circa l’occasionale provvidenzialità della divulgazione delle conoscenze esoteriche, va precisato che essa si limita ad una fase preliminare di accostamento alla ricerca del Vero in sé, poiché nulla di norma, salvo rarissime eccezioni, può sostituire il contatto diretto con un maestro.
60) Cfr. Hippie: Sadhu d’Occidente, op. cit.
61) Nagarjuna, Madhyamaka Karika, XXIV. 11, a c. di R. Gnoli, Torino, Edit. Boringhieri, 1968
62) Ibidem, pp. 16,17.
63) G. Colli, op. cit., p. 13, nota n. 21.


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