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Nel pensiero di Giulio Cesare Vanini l'annunzio di un mondo senza Dio e senza legge

di Francesco Lamendola - 20/11/2009


La filosofia di Giulio Cesare Vanini presenta ancor oggi, a quasi quattro secoli dalla sua tragica morte, problemi d'interpretazione piuttosto complessi: l'Illuminismo ha voluto farne un precursore ed un martire della libertà di pensiero, ma tale lettura del suo pensiero deve essere considerata sicuramente come una semplificazione eccessiva e, in parte, come una vera e propria deformazione interessata.
Scrive Voltaire nel suo «Dizionario filosofico» (traduzione italiana a cura di Mario Bonfantini, Torino, Einaudi, 1955, e Milano, Mondadori, 1962, 1977, ecc., pp. 92-95):

«L'infelice morte di Vanini non ci mosse a indignazione e pietà come quella di Socrate, perché Vanini non era che un pedante stranieri senza gran meriti; ma egli non era per nulla ateo come si volle far credere: era anzi esatamente il contrario.
Era un povero prete napoletano, predicatore e teologo di professione, bravissimo a disputare sulle quiddità e sugli universali, "et utrum chimera bominans in vacuo possit comedere secundas intentiones".
Ma non v'era in lui nemmeno una particella di ateismo. La nozione che egli aveva di Dio si rifà alla teologia più sana e approvata: "Dio è principio e fine di se stesso, padre dell'una cosa e dell'altra, e non abbisogna né dell'una né dell'altra; eterno senza essere nel tempo; presente ovunque senza essere in nessun luogo. Non c'è per lui né passato né futuro; egli è in ogni cosa e nn risiede in nessuna cosa, tutto regge e tutto ha creato, immutabile, infinito e indivisibile; il suo potere è il suo volere", ecc ecc.
Vanini voleva rinnovare quel bel pensiero di Platone che rinnovato da Averroes: che Dio abbia creato una catena di esseri dal più piccolo al più grande, il cui ultimo anello la collega al trono eterno, idea in verità più sublime che esatta,, ma tanto lontana dall'ateismo quanto è l'essere dal non essere.  Egli si mise a viaggiare per far fortuna disputando. Ma sventuratamente per lui, la via delle dispute è diametralmente opposta a quella della fortuna: ci si fa altrettanti nemici mortali quanti sono i sapienti o i pedanti contro i quali si viene a discutere. La disgrazia di Vanini non ebbe altra fonte: il suo calore e la sua rudezza nel disputare gli attirarono l'odio di certi teologi; ed essendo venuto a lite con un certo Francon, o Franconi, questo tale, amico dei suoi nemici, non mancò d'accusarlo d'essere un ateo che diffondeva l ateismo.
Quando Francon o Franconi, con l'appoggio di qualche testimone, ebbe la barbarie di sostenere in giudizio l'accusa ch'egli aveva lanciata.  Vanini, interrogato su quanto pensasse dell'esistenza di Dio, rispose che egli adorava come prescrive la Chiesa un Dio in tre persone: e, raccogliendo da terra una pagliuzza, disse: "Basterebbe questa pagliuzza per provare che esiste un creatore; e pronunciò un bellissimo discorso sulla vegetazione e sul moto, e sulla necessità di un Essere supremo, senza il quale non sarebbero  possibili né 'una né l'altro.
Il presidente Grammont , che si trovava alora a Tolosa, riferisce questo discorso nella sua "Storia di Francia", opera notevole oggi dimenticata; e questo stesso Grammont, con mentalità inconcepibile, pretende che Vanini dicesse tutto ciò "per vanità, o per timore, piuttosto che per una intima persuasione".
Su che poteva essere fondato questo giudizio temerario e atroce del presidente Grammont? È chiaro che, sulla risposta di Vanini, egli doveva venire assolto senz'altro. Che accadde invece? Quell'infelice prete si occupava anche di medicina: si trovò un grosso rospo vivo, ch'egli conservava in casa sua in un vaso, e su ciò si sostenne che egli era stregone. Ci fu chi disse che quel rospo era il Dio che egli adorava; si diedero interpretazioni empie a molti passi dei suoi libri (cosa facile e comune), scambiando le obiezioni per affermazioni dell'autore, interpretando malignamente qualche frase ambigua, e travisando il senso di alcune espressioni innocentissime. Infine, la fazione che lo odiava riuscì a strappare ai giudizi la sentenza che condannava quell'infelice alla morte.
Per giustificare questa pena, bisognava accusare lo sciagurato delle cose più orribili. Ed ecco l'infimo scribacchino Mersenne spingere la demenza fino a far stampare che Vanini "era partito da Napoli con dodici suoi apostoli, per convertire tutte le nazioni all'ateismo". Che miseria! E in qual modo un poverissimo prete potrebbe avrebbe potuto avere al suo seguito dodici persone? O come avrebbe potuto persuadere dodici napoletani a mettersi in viaggio con lui a loro spese per andare a diffondere tale abominevole e repellente dottrina, col rischio della vita? Un re sarebbe forse tanto potente da riuscire a stipendiare dodici predicatori di ateismo? Nessuno, prima del padre Mersenne, aveva mai lanciato una simile assurdità; eppure dopo di lui ci fu chi la ripeté; se ne riempirono i giornali, i dizionari storici, e il mondo, che ama le cose romanzesche, accettò a occhi chiusi questa favola.
Lo stesso Bayle, nei suoi "Pensieri diversi", parla di Vanini come di un ateo, e lo prende come esempio per sostenere il suo paradosso che "una società di atei potrebbe sussistere". Egli assicura che Vanini fu un uomo di ottimi costumi, e che fu martire della propria opinione filosofica.  Ma s'ingannò sull'una cosa e sull'alta; il prete Vanini ci dice lui stesso, in certi suoi "Dialoghi" fatti a imitazione di Erasmo, d'aver avuto un'amica di nome Isabella; egli fu libero nella sua condotta come nei suoi scritti; ma non era per nulla ateo.  Un secolo dopo la sua morte, lo studioso La Croze, e colui che prese il nome di Philalete, hanno voluto riabilitare il Vanini; ma siccome nessuno si interessa alla memoria di questo povero napoletano, che fu anche un mediocrissimo scrittore, ,auasi nessuno ha letto quelle apologie.»

Come al solito più brillante che profondo, più corrosivo che scrupoloso, Voltaire in questo breve ritratto, che compare sotto la voce «Ateo, ateismo», commette almeno due grossi errori di fatto: Vanini non era napoletano e non era prete.
Era nato a Taurisano, in provincia di Lecce, nel 1585; aveva studiato dapprima legge a Napoli, indi teologia a Padova. Era entrato nell'ordine carmelitano nel 1603 e ne era fuggito, insieme a un confratello, percorrendo l'Italia e la Germania e approdando in Inghilterra, ove, nel 1612, aveva abiurato la fede cattolica e abbracciato quella anglicana, il tutto alla presenza di una gran folla e del filosofo Francis Bacon.
Più tardi si era stabilito definitivamente in Francia, ove aveva pubblicato le sue due opere più importanti: l'«Amphiteatrum eternae providentia», a Lione, nel 1615, e il «De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis», a Parigi, nel 1616. Arrestato a Tolosa dall'Inquisizione, nel 1618, sotto l'accusa di ateismo ed eresia, processato e condannato, nel 1619 venne infine mandato al rogo.
Vanini fu uno dei più tipici rappresentanti del libertinismo del XVII secolo. A Padova aveva subito profondamente l'influsso dell'aristotelismo di Averroé, di Pietro Pomponazzi e di Girolamo Cardano, sulla cui base condusse una critica distruttiva di tutte le religioni rivelate, abbracciando una forma di panteismo radicale, simile a quello di Spinoza: per lui, Dio e la natura sono una sola e medesima cosa. Inoltre, nella Repubblica veneta era entrato in contatto con il circolo del servita Paolo Sarpi, il quale aveva difeso le ragioni della Serenissima contro il papa all'epoca dell'interdetto e, poi, si era poi accostato agli ambienti protestanti, per il tramite dell'ambasciatore inglese, vagheggiando una radicale riforma della Chiesa cattolica.
Come si vede, è certo che gli argomenti con i quali Vanini si difese dall'accusa di ateismo e professò di credere agli insegnamenti della Chiesa cattolica, erano dettati unicamente dal desiderio di proteggersi da una probabile condanna. Il deista Voltaire non sa o non può cogliere la differenza e si ostina a negare che Vanini fosse un ateo, mentre è certo che al filosofo italiano non interessava l'aspetto positivo del divino insito nella natura, ma solo l'aspetto negativo della impossibilità di un Dio spirituale e trascendente.
Vanini non solo negava la teologia, ma anche l'idea, tipicamente tomista, di un ordine o di una legge insita nella natura: al contrario, per lui la natura è disordine, e l'uomo deve adeguare ad essa la propria regola di vita: vale a dire, non avere alcuna legge morale, al di fuori di quella del puro istinto. Questo, almeno, per quanto riguarda i pochi individui che hanno compreso l'inganno delle religioni; mentre la massa del popolo è giusto che langua nelle più oscure superstizioni, perché essa non è degna di un destino migliore che servire e obbedire.
Voltaire, insomma, cerca di fare di Vanini un campione della libertà, ma si guarda bene dal soffermarsi sulla doppia morale che egli predicava, una per i signori, l'altra per il volgo; e, soprattutto, travisa deliberatamente i fatti, allorché si accalora a negare che Vanini fosse un ateo o un ribelle agli insegnamenti della Chiesa. Qualsiasi persona dotata di senso morale non può non provare raccapriccio davanti al destino di Vanini, così come a quello di Giordano Bruno; ma non è lecito deformarne la figura per farne qualcosa di diverso da ciò che egli fu.
Per Vanini, i dogmi della religione rivelata devono essere interpretati in chiave razionale; e, quanto ai miracoli, per ognuno di essi vi è una spiegazione naturale, che non contraddice le leggi del mondo fisico. Per completare il quadro, egli nega fermamente - sulle tracce di Aristotele - che il mondo abbia avuto origine da un atto creativo di Dio; afferma, averroisticamente, che lo spirito è di sostanza materiale, e che l'anima umana, come già avevano insegnato Epicuro e Lucrezio con il loro atomismo, è anch'essa mortale.
Vanini appartiene alla prima fase del movimento libertino, quella del libertinismo radicale, tipica de primi decenni del Seicento, e rappresentata in modo esemplare dal poeta Thépihile de Viau; la seconda, che si può definire del libertinismo erudito, si colloca qualche anno dopo, e riesce a crearsi una nicchia all'ombra della corte, ove è al sicuro dalle persecuzioni della Chiesa e realizza quella alleanza tra filosofo e classi dirigenti che era già stata, ma invano, nei disegni di Vanini. Del resto, verso la metà del Seicento il clima è ormai cambiato, e Cyrano de Bergerac può fare aperta professione di ateismo, senza incorrere nei rigori dell'Inquisizione.
Il filosofo Franz Borkenau (Vienna, 1900- Zurigo, 1957), esponente eterodosso della Scuola di Francoforte, nel suo bel libro «La transizione dall'immagine feudale all'immagine borghese del mondo. La filosofia nel periodo della manifattura» (titolo originale: «Der Übergang von feudalen zum bürgenlichen Weltbild. Studien zur Geschichte  der Philosdophie der Manufakturperiode», Paris, 1934, e Darmstadt, 1971; traduzione italiana di Gabriella Bonacchi, Bologna, Società Editrice Il Mulino, 1984, pp. 204-07), svolge una acuta riflessione sul significato complessivo della filosofia di Vanini:

«Dalle idee di Vanini si può capire che senso avesse il libertinismo per la nobiltà di corte e la "bohème". Si sarebbe tentati di ascrivere Vanini, il cui tema principale è l'ateismo, alla filosofia naturale del Rinascimento. Ciò sarebbe però frutto di un equivoco. I panteisti e i materialisti del Rinascimento italiano tendevano alla creazione di una immagine unitaria della natura. Di ciò non v'è traccia in Vanini. I suoi scritti sono dominati da un forte interesse NEGATIVO: la volontà di abolire ogni spiegazione spiritualistica dei fenomeni naturali. Ampie sezioni sono dedicate all'esame e alla confutazione punto per punto delle azioni immateriali come gli oracoli, gli indemoniati, le immagini degli dèi presso i pagani, i veggenti, le guarigioni miracolose. Tutto deve procedere, si dice, per vie "naturali", cioè non immateriali.  Ma per i processi naturali in sé non solo non c'è alcuna spiegazione, ma neanche un vero interesse.  Nell'opera di Vanini manca ogni seria indagine: proprio come in Epicuro, una volta sconfitta la paura degli dèi, il resto non ha più alcun interesse. I fenomeni naturali possono essere spiegati in vari modi, non importa quali: ora sono le stelle, ora il calore, ora gli influssi di qualità occulte. Insomma ,'intero variopinto repertorio del Rinascimento, privo però, a differenza  del pensiero rinascimentale (e, per converso, analogamente a Bacone) di ogni tentativo di sistematizzazione. Si capisce il rimprovero mosso da Bossuet ai libertini di non aver apportato proprio nessun contenuto nuovo al pensiero umano. Questa considerazione puramente negativa della filosofia della natura ha esclusivamente lo scopo di spianare la strada ad un'arte del tutto irreligiosa di vivere, altrettanto negativa della filosofia della natura. Come sempre, i concetti di ordine naturale e di ordine morale sono, anche qui, inscindibilmente legati. Anche Vanini vuole rilevare dalla natura le norme dell'agire umano. Una filosofia naturale puramente negativa, che non si pone neanche il problema delle leggi, non può condurre ad alcuna norma morale; anzi, il suo unico senso non può che essere la negazione delle leggi morali. Di qui la lotta accanita di Vanini non solo contro ogni teologia, ma anche contro ogni idea di ordine razionale della natura. Lungi dall'essere perfetto, il mondo ha in ogni sua componente il principio della corruzione. Figlia del suo tempo, anche la teoria di Vanini culmina nella constatazione della corruzione del mondo. Questa è infatti la base comune, il dato da cui non può prescindere il pensiero antropologico dell'epoca. Da questo dato, Vanini trae però una conclusione opposta a quella di Calvino. In luogo di inchinarsi dinanzi alla corruzione come mistero religioso, egli si limita a constatare  la malvagità del mondo e a prescrivere l'adeguamento  ad essa come regola di condotta.
Non che Vanini sostenga la possibilità di una vita completamente amorale: la natura, la vera divinità, ha scolpito nel cuore dell'uomo una legge di condotta. In che cosa consiste questa legge? A differenza di quelle fin qui analizzate, la legge di Vanini è l'esatto contrario di tutte le leggi umane, che sono sempre frutto della truffa e dell'inganno dei signori o dei preti a caccia di ricchezze e di onori. La legge di natura è l'istinto naturale in contraddizione con ogni ordine sociale. Esso soltanto è divino. Questa interpretazione potrebbe apparire azzardata. Ma non mancano le conferme. Così, si afferma, il mucchio ignorante viene tenuto in schiavitù con la paura di un Dio che si pretende onniveggente. Ma la religione (egli parla qui di quella romana, ma intende quella cristiana) esiste solo per la massa che si lascia facilmente ingannare, "non per i grandi e i filosofi". Del tutto giusta è, quindi, l'interpretazione della religione avanzata da Lucrezio.  Questo passo non va interpretato come un invito rivoluzionario alle masse a liberarsi dalla religione: Vanini ha per il "mucchio" accenti di supremo disprezzo e ritiene del tutto logico che esso venga mantenuto in uno stato di schiavitù religiosa. Ma ciò che è un abile stratagemma educativo al servizio di principi intelligenti, diventa caccia agli onori  e alle ricchezze quando i preti pretendono  di far accettare a TUTTI le loro formulette magiche. Poiché NON è per "i grandi e i filosofi" che esiste la religione. Alla stupida massa spettala schiavitù fisica e psichica, ma ai vertici della società compete la libertà da ogni vincolo. La formula "i grandi e i filosofi" dice chiaramente chi siano questi vertici. Il disprezzo di Vanini colpisce tanto la pia borghesia che i contadini devoti. Soli i grandi della corte e il loro seguito hanno il diritto di liberarsi da ogni legge umana e di vivere liberi secondo natura. Questa è dunque la forma in cui l'epicureismo fece la sua prima comparsa come fenomeno di massa.»

Il pensiero di Giulio Cesare Vanini costituisce, da un lato, un prolungamento di alcune tendenze della filosofia naturalistica del Rinascimento italiano, da Telesio a Bruno a Campanella, e, al tempo stesso, una esaltazione della dignità e autonomia dell'uomo; e, dall'altro, un preannuncio di alcuni aspetti dell'Illuminismo, primi fra tutti il razionalismo e il materialismo, nonché la polemica dura, incessante, implacabile, contro le religioni rivelate e particolarmente contro l'etica ad esse sottesa, nonché contro ogni forma di credenza nel soprannaturale.
Quest'ultimo aspetto, anzi, riveste una parte centrale nel pensiero di Vanini, accanto a quello della doppia morale: quella della plebe, sfruttata dal clero e dai potenti, e quella dei filosofi e dei grandi, che si sono emancipati, mediante l'esercizio della ragione, da ogni timore e da ogni illusione riguardo a Dio e alla supposta immortalità dell'anima. Paradossalmente, si tratta di una doppia morale che appare speculare rispetto a quella dei più intransigenti rappresentanti della Riforma cattolica (o, come si usava dire e ancora molti dicono, della Controriforma), i Gesuiti: ma, nella storia del pensiero, è una circostanza piuttosto frequente che due posizioni estreme finiscano per assomigliarsi, tanto nelle forme, quanto negli stessi contenuti.
Vanini sembra essere stato alla ricerca di una alleanza tra l'intellettuale ateo e la classe dirigente dell'assolutismo seicentesco, un po' sulla falsariga della filosofia di Machiavelli e sul suo realismo amorale e disincantato, capace di servirsi cinicamente anche del sentimento religioso popolare  quale «instrumentum regni».
Sotto questo punto di vista, la sua vicenda presenta alcuni tratti analoghi a quella di Giordano Bruno, altro ex frate incessantemente in movimento per tutta l'Europa, sia cattolica che protestante, di corte in corte, sino alla fatale decisione di rientrare in Italia e di cercare protezione e mezzi di sostentamento presso un gentiluomo veneziano. Ma Vanini, meno conosciuto di Bruno e di lui assai meno dotato come filosofo, non arrivò mai, come era giunto quello, fino alla cerchia di qualche sovrano europeo; il suo dramma è quello dell'intellettuale iconoclasta che non trova protettori né interlocutori, e che finisce per soccombere davanti alla reazione che le sue tesi, sempre più audaci e sovversive dell'ordine stabilito, hanno inevitabilmente suscitato.
Il suo fallimento testimonia il fatto che i tempi non erano ancora maturi per un attacco frontale contro la religione e contro l'ordine sociale da essa garantito, perché l'assolutismo del XVII secolo non era in grado, né lo voleva, di lanciare un attacco frontale alla Chiesa in quanto tale, ma solo di condurre una battaglia giurisdizionalista che ne limitasse fortemente la presenza nella sfera secolare. Il destino di Pietro Giannone, più tardi, avrebbe mostrato che anche in quella battaglia la figura dell'intellettuale eversivo non poteva immaginarsi esente da rischi personali non lievi, nella misura in cui non avesse saputo agire con prudenza e rendersi indispensabile al potere monarchico «illuminato».
Sul terreno propriamente filosofico, il significato dell'opera di Vanini va al di là di quello di un «ponte» ideale fra Rinascimento e Illuminismo, perché, pur essendo priva di spunti di vera profondità e originalità, persegue nondimeno con estrema determinazione l'obiettivo di scalzare definitivamente l'ordine soprannaturale dall'orizzonte del pensiero europeo e di sostituirvi un materialismo radicale e intransigente, che sembra precorrere, per taluni aspetti, la politica della cosiddetta scristianizzazione, nella fase giacobina della Rivoluzione francese (peraltro osteggiata da Robespierre), fra il 1792 e il 1794.
Ma la sua persuasione che solo al filosofo e al signore spettino l'indipendenza morale assoluta e il diritto di seguire unicamente l'istinto come norma di vita, lasciando il volgo nelle tenebre dell'ignoranza e della sottomissione, ne fa tutt'altro che un pensatore egualitario: il suo libertinismo si potrebbe, semmai, definire superomistico, ma non tanto nel senso di Nietzsche, quanto in quello di Sade, specialmente per l'accento posto sulla sfida deliberata all'ordine morale stabilito e alla sua totale assenza di implicazioni politiche e sociali.
Da ciò si vede quanto sia inesatto e fuorviante voler fare di Vanini, come ha tentato di fare Voltaire, una sorta di antesignano e di campione misconosciuto del libero pensiero, nel senso moderno del termine. La libertà di pensiero da lui perseguita, infatti, non è neanche lontanamente democratica, ma fortemente elitaria e, si direbbe, aristocratica nel peggiore senso del termine.
Quanto alla sua filosofia, la negazione non solo del divino, ma anche della legge, presuppone un pessimismo ontologico che spoglia il mondo di ogni provvidenzialità e la natura, di ogni ordine e di qualunque armonia, creando i presupposti per un'antropologia darwiniana «ante litteram», dove i più astuti affermano il proprio diritto ad una vita libera e piena, mentre gli altri soccombono all'oppressione spirituale e materiale.
Nessun senso di solidarietà umana pervade e ingentilisce questo mondo feroce, popolato da individui egoisti e insensibili alle sofferenze del prossimo, guidati unicamente da una Ragione fredda e inesorabile. Nessuna compassione spinge gli esseri umani a chinarsi l'uno sulle piaghe e sulle miserie dell'altro: il pessimismo antropologico sfocia in una morale aristocratica che fa dell'edonismo la sua sola norma di comportamento.
Strano secolo, il Seicento: pervaso da intuizioni potenti e grandiose, ma anche immiserito da scaltrezze di bassa lega e da opportunismi così sfrontati, da superare ogni limite di decenza.
Secolo contraddittorio, dove un filosofo come Gassendi si muove assurdamente in bilico fra cristianesimo e atomismo epicureo, e dove Vanini sale il patibolo per affermare l'ideale di un libertinismo tanto inumano quanto distruttivo.