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Un corsaro contro i consumi

di Giovanni De Luna - 25/11/2009

     
 
Giovanni De Luna analizza Scritti Corsari, l’opera di Pier Paolo Pasolini pubblicata nel 1975, che mise in luce i dirompenti cambiamenti che stavano avvenendo nell’Italia degli anni settanta.
Il libro, una raccolta di saggi e articoli precedentemente pubblicati da Pasolini su quotidiani italiani, aveva il merito di esaminare con grande lucidità e senso critico la società e la politica del tempo. Pasolini dimostrò la sua capacità di vedere negli avvenimenti dell’epoca un momento di svolta della storia politica e sociale italiana: i profondi cambiamenti sociali e culturali che stavano avvenendo avrebbero infatti indelebilmente influenzato le sorti dell’Italia e il futuro della sua politica.


Nell’Italia degli Anni 70, avvelenata dai miasmi del terrorismo e delle stragi, l’opinione pubblica percepì solo quello che era più facile e più ovvio vedere, concentrando tutta la sua attenzione sugli eventi che squassavano il mondo della politica. E nessuno si accorse di quanto stava succedendo nella realtà più profonda di questo Paese. Semplicemente l’Italia e gli italiani stavano cambiando pelle in una direzione opposta a quello che la politica suggeriva. Se ne accorse, però, Pier Paolo Pasolini. Proprio nel 1975 uscirono i suoi Scritti corsari (ripubblicati da Garzanti nel 1990 con una prefazione di Alfonso Berardinelli), una raccolta di articoli (prevalentemente del “Corriere della Sera”), interventi, saggi, con molte affermazioni che allora suscitarono aspre polemiche: l’impietosa sottolineatura dell’afflosciarsi della contrapposizione fascismo/antifascismo, la denuncia dell’imborghesimento della classe operaia, il ridimensionamento degli entusiasmi suscitati dalla vittoria del «no» al referendum sul divorzio del maggio 1974, la requisitoria serrata contro una Chiesa sempre più subalterna allo spirito del tempo, ecc... Tutto controcorrente, tutto destinato a un inevitabile scalpore in un’Italia le cui strade ribollivano di operai in sciopero e di scontri durissimi tra fascisti e antifascisti. Oggi, spentosi l’eco degli slogan e delle polemiche, Scritti corsari si rivela per quello che è veramente, una lucida profezia, la visione di un saggio che sfonda la barriera del futuro spingendosi avanti nel tempo, così avanti che i suoi contemporanei non ci capirono quasi niente. Se c’è stato un progetto novecentesco di «fare gli italiani», Pasolini ne descrisse i tratti essenziali e, soprattutto, intuì il punto al quale quel progetto sarebbe infine approdato, restituendoci con trent’anni di anticipo i lineamenti dell’Italia di oggi. […]
I toni erano spesso apocalittici, come si conviene a ogni profezia. Potere, Famiglia, Consumi erano tutte parole scritte con la maiuscola quasi a tradire un’enfasi eccessiva, un’emozione non controllata. Pasolini sbagliò in molte previsioni, non «vide» GiovanniPaolo II e quello che il suo papato avrebbe significato per rilanciare il ruolo della Chiesa. Ma l’essenziale della sua «visione» è tutto nel modo in cui riuscì a decifrare il nuovo protagonismo sociale, assolutamente inedito nella nostra storia nazionale, di quei soggetti che nel ‘900 si chiamavano «ceti medi» e che, con le solite maiuscole, definì Nuova Classe Media, Piccola Borghesia Totale, ecc... Dalle pieghe del mercato, era infatti affiorato in quegli anni un nuovo aggregato sociale: «I ceti medi sono radicalmente - direi antropologicamente - cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non “nominati”) dell’ideologia edonistica del consumo». In quella fase si limitavano ad esistere. A partire dagli Anni 80 in poi sarebbero stati in grado anche di «nominare» i loro valori, diventando gli attori decisivi della grande trasformazione che avrebbe scardinato la Prima Repubblica. Anche questa fu un’intuizione pasoliniana; con una Dc all’apice del suo potere, egli riuscì a scorgere dietro i volti dei notabili democristiani il delinearsi di grottesche «maschere funebri»; mentre i partiti celebravano i fasti di una spesa pubblica sempre più incontrollata e sempre più piegata all’esigenza di rastrellare voti, accampandosi da padroni assoluti nel Palazzo, Pasolini sottolineò l’esistenza di «un drammatico vuoto di potere». Lo intuì, non riuscì a «vederlo», ebbe l’onestà di ammetterlo: «È probabile che in effetti il vuoto di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione… non sappiamo raffigurarci quali forme esso assumerebbe...». Trent’anni dopo quella «forma» appare nitida sotto i nostri occhi; la profezia si è avverata e i ceti medi a cui Pasolini guardava sono riusciti a darsi un sistema politico fatto su misura per i loro interessi e i loro valori. Non c’erano mai riusciti in tutto il ‘900.