Democrazie su misura
di Ignacio Ramonet - 06/04/2006
Fonte: Il Manifesto
La democrazia, spesso presentata come il migliore dei sistemi politici, è stata a lungo una forma di governo poco diffusa. Di fatto, nessun regime risponde interamente all'ideale democratico, che presupporrebbe un'onestà totale dei potenti nei riguardi dei deboli, e la condanna veramente radicale di ogni abuso di potere. Andrebbero rispettati cinque indispensabili criteri: libere elezioni; esistenza di un'opposizione politica organizzata e libera; diritto reale all'alternanza politica; esistenza di un sistema giudiziario indipendente dal potere politico; esistenza di media liberi. Il diritto di voto è stato per lungo tempo negato alle donne in diversi stati democratici, quali la Francia e il Regno unito - peraltro potenze coloniali, che calpestavano i diritti dei popoli colonizzati. Malgrado i suoi difetti, questo metodo di governo ha avuto tendenza a universalizzarsi. Dapprima sotto il forte impulso del presidente degli Stati uniti Woodrow Wilson (1856-1924); ma soprattutto dopo la fine della guerra fredda e la scomparsa dell'Unione sovietica.
Fu annunciata allora la «fine della storia», col pretesto che nulla ormai impediva agli Stati dell'intero pianeta di raggiungere un giorno i due traguardi della felicità suprema: l'economia di mercato e la democrazia rappresentativa. Obiettivi che sono divenuti dogmi intoccabili.
In nome di questi dogmi, George W. Bush ha ritenuto legittimo ricorrere alla forza in Iraq. E ha autorizzato le sue forze armate a praticare la tortura nelle carceri segrete dislocate dagli Usa in altri paesi.
O a sottoporre a trattamenti disumani i detenuti del bagno penale di Guantanamo, al di fuori di ogni quadro giuridico - secondo quanto è stato recentemente denunciato da una Commissione dei diritti umani dell'Onu, e in una risoluzione del Parlamento europeo. Ma nonostante queste gravissime violazioni, gli Stati uniti non esitano ad erigersi a istanza planetaria dell'omologazione democratica. Washington ha preso l'abitudine di mortificare i suoi avversari definendoli sistematicamente «non democratici», o addirittura «stati canaglia» o «bastioni della tirannide». Unica condizione per sfuggire a questo marchio d'infamia: organizzare «libere elezioni». Ma anche in questo caso, tutto dipende dai risultati: come dimostra l'esempio del Venezuela, dove dal 1998 il presidente Hugo Chávez è stato eletto a più riprese, in condizioni democratiche garantite da osservatori internazionali. Niente da fare. Washington continua ad accusare Chávez di rappresentare un «pericolo per la democrazia», e nell'aprile 2002 arriva addirittura a fomentare un colpo di stato contro il presidente venezuelano. Nel dicembre di quest'anno Hugo Chávez si sottoporrà nuovamente al verdetto delle urne.
Altri tre esempi - l'Iran, la Palestina e Haiti - mostrano che essere eletti democraticamente non basta più. Nel caso dell'Iran, tutti hanno tributato applausi alle elezioni del giugno 2005: partecipazione massiccia degli elettori, pluralità e diversità dei candidati (nel quadro dell'islamismo ufficiale), e soprattutto, brillante campagna di Ali-Akbar Hachemi Rafsandjani, favorito degli occidentali e dato per vincitore. Nessuno allora ha menzionato il «pericolo nucleare».
Ma tutto è cambiato bruscamente dopo la vittoria di Mahmud Ahmadinejad (che su Israele ha fatto dichiarazioni inaccettabili). Tanto che oggi assistiamo a una demonizzazione dell'Iran.
Sebbene Tehran abbia firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e neghi di voler costruire la bomba, il ministro francese degli affari esteri ha recentemente accusato l'Iran di portare avanti un «programma nucleare militare clandestino (1)»! Frattanto, già dimentica delle recenti elezioni, la segretaria di stato americana Condoleezza Rice chiede al Congresso americano 75 milioni di dollari per finanziare in Iran la «promozione della democrazia»! Stessa situazione, o quasi, in Palestina (leggere su questa stessa pagina l'articolo di George Corm), dove gli Stati uniti e l'Unione europea, dopo aver insistito per lo svolgimento di elezioni «veramente democratiche», sorvegliate da una miriade di osservatori esteri, ora ne rifiutano il risultato, col pretesto che lo schieramento vincente - il movimento islamico nazionalista Hamas (autore in passato di odiosi attentati contro civili israeliani) non è gradito.
Infine ad Haiti, in occasione delle elezioni presidenziali del 7 febbraio scorso, René Préval ha finito per essere eletto, dopo che era fatto di tutto per impedire la sua vittoria. La «comunità internazionale» non lo voleva a nessun costo, a causa dei suoi legami con l'ex presidente Jean- Bertrand Aristide, lui pure eletto democraticamente e quindi rovesciato nel 2004.
«La democrazia - diceva Winston Churchill - è il peggiore dei regimi, a eccezione di tutti gli altri». Sembra però che oggi dia soprattutto fastidio l'impossibilità di determinare in anticipo il risultato di una consultazione elettorale. C'è chi vorrebbe poter instaurare democrazie su misura. A esito garantito.