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Dubai, simbolo della crisi del turbocapitalismo

di Roberto Zavaglia - 04/12/2009

 

Personalmente, la notizia di Dubai colpita dalla crisi finanziaria non mi ha per nulla preoccupato. A dirla tutta, mi sono trovato ad immaginare con piacere il crollo della nuova Mecca del turismo internazionale. Ovviamente, spero che questa nuova bolla speculativa non pregiudichi ancora di più la situazione dell’economia reale nel mondo, ma se la cosa si dovesse limitare a qualche guaio ulteriore per le banche londinesi creditrici, sarei felice che l’isola artificiale a forma di palma, costruita al largo di Dubai, andasse in rovina, insieme ai suoi alberghi a cento stelle, alle ville faraoniche di star hollywoodiane, di calciatori-uomini marketing e di vip a vario titolo, per lo più deplorevole.
Staremo a vedere se si tratta di una crisi temporanea o di un vero e proprio crollo che metta fine al sogno della Disneyland per adulti nel deserto. Che un posto del genere sia diventato una delle mete più richieste del turismo mondiale mi ha sempre sconcertato. Quando chiedevi a qualcuno che ci era  stato, che cosa ci fosse andato a fare, ti rispondeva che c’erano centri commerciali modernissimi, colmi di ogni merce immaginabile, boutique delle più grandi marche, grattacieli infiniti e, soprattutto, hotel avveniristici. L’idea che un albergo, anche se lussuoso, si trasformi da strumento a meta del viaggio mi pare assurda, anche perché lo sfarzo, per quanto smisurato, avrà sicuramente il sapore seriale delle catene internazionali, non esistendo più, nel mondo, l’accoglienza personalizzata dei Grand Hotel, i cui proprietari imprimevano uno stile e un’atmosfera peculiari alle proprie creature.
  Con Dubai, il turismo, ma anche la finanza e altre attività “globali”, ha fatto un passo avanti.  Il viaggio organizzato dai tour operator nei Paesi estranei al modo di vivere occidentale, prima, rispondeva a quella che Marc Augé chiama il piacere della verifica: “le gioie del riconoscimento, un po’ come quei turisti troppo audaci che, perduti in capo a un mondo esotico il cui colore locale non tarda a stancare, si ritrovano e si riconoscono solo nell’anonimato scintillante di un supermercato identico a quello cui sono abituati”. A Dubai, invece, non si va per verificare, ma per scoprire  l’Occidente iperrealista inventato dagli arabi: il futuro del nostro paesaggio quotidiano, sognato dagli adulti alienati dalla gadgettistica tecnologica e dai cultori della separazione sociale che amerebbero vivere in un “ambiente confortevole”, non inquinato dai miasmi della realtà. In un Paese così, una persona per bene dovrebbe, invece, andarci con l’attitudine mentale del sociologo, in cerca di materiali  per alimentare il pensiero critico sulle derive della postmodernità.
  La crisi della finanziaria statale Dubai World è stata causata, soprattutto, dalla discesa dei prezzi del mercato immobiliare. Nei cantieri della città affacciata sul Golfo Persico si lavora 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana, con la previsione di triplicare, in pochi anni, l’estensione dell’abitato. Come altrove nel mondo, la crisi del mercato immobiliare mette in luce il distacco tra la costruzione di case e il loro scopo “tradizionale”: da edifici destinati a persone che le andranno a vivere a strumento speculativo, che è possibile rendere immateriale impacchettandolo in misteriosi derivati finanziari. Il “progetto Dubai” è la punta avanzata del turbocapitalismo liberale e liberista. Il suo successo è il successo del racconto ideologico secondo il quale l’assenza di vincoli, di “lacci”, permette uno sviluppo economico strabiliante, a prescindere dall’ambiente e dall’elemento umano in cui si verifica l’esperimento. All’inizio degli anni ’90, Dubai non possedeva ancora un impianto idrico, ma già nel 1985  la città era stata spalancata all’investimento e all’immigrazione esterni, con l’abolizione delle tasse, dei visti e di ogni ostacolo alla residenza per chi portasse capitali.
  Sulle sabbie di quella che era una misera cittadina della Costa dei Pirati, così chiamata perché gli emiri locali si dedicavano a questa attività, sorge così, in un tempo brevissimo, una dei centri  “più moderni” del pianeta, che attrae maggiori investimenti stranieri dell’intera India, con due porti che sono all’avanguardia nel mondo. Non c’è nemmeno il petrolio a giustificare una simile crescita, perché Dubai ne è priva, pur ricevendo da Abu Dhabi una parte dei dividendi del greggio estratto negli Emirati Arabi Uniti. Si tratta dunque di una scommessa, che fino a ieri sembrava vinta, di creare una nuova realtà che potesse crescere a dismisura, soddisfacendo tutti i capricci di un melting pot di nababbi: elite arricchite dei vari Stati arabi, alti dirigenti delle multinazionali e un jet set “stanco dei soliti posti”, al quale si aggiungono i turisti che, nell’acquario dei grattacieli-hotel, osservano questa umanità “interessante”.
  Varie sono le “attrattive” del luogo: l’hotel a forma di vela ricoperto da milioni di microlampadine, quello sottomarino, il grattacielo girevole, i campi di sci su montagne artificiali, sotto un’immensa cupola che mantiene la temperatura bassa ed altre meraviglie che, al momento, mi sfuggono. Il lato oscuro, ma neanche tanto nascosto, dell’opulenza è la condizione da schiavi della massa dei lavoratori di basso rango, di origine asiatica, che sono privi di ogni tutela, non esistendo una legislazione in materia di lavoro. Questi immigrati, ai quali viene tolto il passaporto al momento del loro ingresso, vivono, per lo più, ai margini della città in villaggi improvvisati, composti da tende e roulotte. Probabilmente, se l’esperimento Dubai continuerà, nel giro di un po’di anni, terminata la fase di “acculumazione originaria”, i nuovi schiavi otterranno qualche modesta concessione, su pressione delle solite organizzazioni del governo dell’economia mondiale, che alle apparenze ci tengono, e per riscaldare il cuore degli ospiti occidentali avvezzi alla cultura dei diritti umani. Questo “progresso” potrà, però, avvenire solo all’interno di un rigido apartheid socioeconomico che non sarà, come negli Stati “veri”, il prodotto di una storia intessuta di disuguaglianze, ma il risultato della programmazione ideata dalle autorità locali.
  Il sogno della nascita dal nulla di una metropoli dalle architetture ardite, ma nel caso in questione spesso di gusto orribile, può anche possedere un  fascino. Il problema, come scriveva Baudrillard in “L’America”, è “fin dove si può andare nella distruzione del senso, fin dove ci si può spingere nella forma desertica irreferenziale senza crollare, e a condizione naturalmente di conservare il fascino esoterico della sparizione”.  Per Dubai, qualche cultore di banali estetismi irrazionalistici potrebbe parlare di spirito faustiano che edifica la città dalla sabbia. Dubai, invece, nasce contro i patti alla base della fondazione delle città; è la metafora e il simbolo di un’ideologia che vuole sostituire le leggi della polis con i criteri di efficienza aziendale delle grandi corporation.