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| FIRENZE. Serge Latouche, il filosofo della decrescita, è stato l’ospite d’onore di un pomeriggio di riflessione promosso a Firenze dalla Fondazione Balducci, in collaborazione con Comune e Provincia. Francese di Vannes, 66 anni, docente di economia all´Università di Paris XI e presso I’Iedes (Institut d’étude du développement economique et social), Latouche (nella foto) ha parlato di occidentalizzazione e globalizzazione in una delle sontuose sale della Biblioteca comunale fiorentina. Lo abbiamo avvicinato sottoponendogli alcune domande.
Mentre in tutto il mondo, destra e sinistra si confrontano su come accelerare la crescita economica, Lei sostiene la decrescita. Per quale fondamentale motivo? «Perché una crescita infinita è incompatibile con un mondo finito. E’ una questione di buon senso. La parola decrescita, più che un concetto, è uno slogan, che serve per segnare una rottura con la religione della crescita. Se vogliamo essere rigorosi, allora dovremmo parlare di a-crescita. Dobbiamo diventare ateisti della crescita. Penso che mai come in questo momento sia assolutamente necessario, perché già superiamo di oltre il 30 per cento la capacità di rigenerazione della biosfera».
Ultimamente una parte della sinistra mette in discussione sia il concetto che la prassi della crescita e che, addirittura, qualche ambientalista storico giudica fatuo e datato questo dibattito, almeno da quando gli ambientalisti hanno cercato di introdurre in economia le leggi della termodinamica. Lei che cosa ne pensa? «E’ un dibattito che già si era affacciato negli anni ’70, in effetti. Ma i tempi, in quel momento, non erano ancora maturi, perché era ben prima di Chernobyl, prima della mucca pazza, prima di tutte le cose che oggi conosciamo. Dagli anni ’70 a oggi la situazione dell’ambiente è peggiorata enormemente. Oggi non si può più rinunciare a fare questo dibattito. E’ la ragione per la quale oggi sinceramente abbiamo molto più successo. Negli anni ’70 si parlava, sì, di crescita zero, ma l’intuizione della decrescita ancora non c’era stata».
Qualche anno fa si pensava che con l’avvento della società e dell’economia dell’informazione ci stessimo avviando verso una «dematerializzazione» delle produzioni e dei consumi e quindi, inerzialmente, verso la sostenibilità ambientale. Ciò se, e in quanto, si è avverato, riguarda l’utilizzo di energia e materia per unità di prodotto ma, proprio la crescita dei volumi prodotti vanifica questo sforzo. Lei cosa ne pensa? «Naturalmente la dematerializzazione è una buona cosa. Anche nella società della decrescita pensiamo di sviluppare i beni immateriali, come i beni relazionali, nelle società occidentali come la nostra dove i servizi rappresentano il 70 per cento del prodotto interno lordo. Ma questa secondo me è una falsa dematerializzazione perché abbiamo esportato, direttamente o indirettamente, l’impatto materiale del nostro consumo sui paesi e sui popoli del sud del mondo. Oggi la maggior parte dei prodotti vengono realizzati in questi paesi, dove abbiamo delocalizzato gran parte dell’industria pesante importandone i frutti. In più la produzione immateriale come l’elettronica ha necessità di reti che funzionano su basi materiali. Servono infrastrutture pesanti. E per il momento vediamo che la produzione non è certo diminuita».
L’argomento utilizzato dai sostenitori ad oltranza della crescita economica illimitata, magari anche di qualità, è che altrimenti non ci sarebbero risorse da ridistribuire e di ciò ne soffrirebbero i più deboli e i meno abbienti. Lei non crede che sia proprio questo il pericolo? «La crescita genera indubbiamente diseguaglianze, ma è vero che al medesimo tempo genera anche lavoro e dunque, anche se i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri almeno raccolgono le briciole della ricchezza. Il problema, però, mi pare un altro».
Quale? «Siamo chiusi in una contraddizione: questa crescita distrugge il pianeta. Quando il pianeta sarà distrutto, non ci sarà proprio più niente da ridistribuire. E’ vero che non c’è niente di peggiore di una società basata sulla crescita che non cresce. Qui si tratta non di riformare la società, ma di cambiarla. Serve una rottura. Dobbiamo prendere una direzione totalmente opposta. E’ come se fossimo su un treno, qui a Firenze, diretto verso Roma, mentre noi vogliamo andare a Milano: non basta rallentare la velocità, bisogna fermarlo e prenderne uno che va in un’altra direzione. Sull’obiettivo non c’è possibilità di mediare, sui mezzi di realizzarlo invece si possono trovare transizioni e si può discutere. Ma non c’è dubbio che la rottura debba essere radicale».
In Italia mancano pochi giorni alle elezioni politiche. Vede qualcuno degli attori che si propone obiettivi come quelli che sostiene lei? «Ho fatto la campagna elettorale a Parma per il candidato dei Verdi, che è un bravo medico. Abbiamo fatto un dibattito anche con Grazia Francescato, che è venuta da Roma. Dicono che nel programma della sinistra hanno tentato di introdurre qualcosa: non è facile, ma è già un passo in avanti che si possa parlare di questi argomenti, visto che fino ad oggi era un dibattito quasi proibito».
E a destra si può parlare di questi temi? «Non lo so, ma penso che tradizionalmente la sovversione è a sinistra, non a destra. E questi, a loro modo, sono temi un po’ sovversivi».
Marx sottolineava che in un sistema capitalistico ciò che conta è il valore di scambio, non il valore d’uso. Non si potrebbe utilizzare proprio questo punto di vista per sostenere non tanto la decrescita (la riduzione dei valori di scambio), ma una crescita diversa (l’enfasi su certi valori d’uso cui la sinistra è tradizionalmente legata: la cultura, l’ambiente, ecc.)? In altre parole, non è migliore un mondo dove invece di proporre che l’operaio alla catena di montaggio produca 70 pezzi al posto di 100 (la decrescita), si propone che l’operaio cambi mestiere, si metta a curare giardini pubblici perché i “consumatori” decidono di attribuire valore a questa prospettiva e per questo (non più per i pezzi fuoriusciti dalla catena) sono disposti a pagare un prezzo? «Io penso che sia necessario produrre meno materiale, meno peso ambientale e produrre diversamente. Ma non si tratta di un’altra crescita. Si tratta di uscire dalla crescita: quello della crescita è un concetto perverso, perché non ha in sé il senso del limite. Per questo dobbiamo pensare che è ragionevole crescere fino a un certo punto, non oltre la soddisfazione dei bisogni. Invece ciò che si vuole è la crescita per la crescita. Anche perché nella nostra società si trova il modo per dire che i bisogni non sono mai soddisfatti, creandone sempre di nuovi». | |