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Il denaro “sterco del demonio”? No, lo è chi ne fa l’unica ragione di vita.

di Enrico Galoppini - 10/12/2009

Fonte: cpeurasia

 


Non bisogna farsi coinvolgere dalle "sparate del giorno" dei politici. Usiamole però come occasioni per riflettere a fondo sulle varie questioni che ci toccano da vicino, al di là delle strumentalizzazioni di turno.

 


 

Quel che esce ogni giorno da tv e giornali pappagalli di un regime liberal-democratico ormai decotto offre anche troppi spunti per scrivere nuovi articoli in cui è facile rilevare le assurdità alle quali, purtroppo, senza tema di smentita perché “governo” e “opposizione” pari sono, gli italiani vengono sottoposti a dosi che ricordano il classico lavaggio del cervello.

Le fesserie pronunciate da esponenti del cosiddetto “governo” e della cosiddetta “opposizione” sono incalcolabili per riuscire a tenerne il ritmo, e troppo grosse per pensare che chi le profferisce vi creda per davvero. Talvolta si è presi dal dubbio che tutta questa ridda di “dichiarazioni”, di “sparate” e di “repliche” eguali e contrarie servano solamente a gettare una cortina fumogena sulla reale attività di questi “personaggi pubblici”. Altrimenti dovremmo pensare che i politici passano il tempo solo a parlare coi giornalisti, a consultarsi coi loro addetti stampa per sapere cosa possono tirare fuori dal cilindro e a leggere giornali per sapere come gli altri loro omologhi hanno commentato le loro “sparate del giorno”. Noi, in fondo, li vediamo solo nella “pagina politica” del tg, nel rituale giro di “polemiche politiche”, ma cosa fanno tutto il giorno (appalti, favori a se stessi e alle loro clientele ed altri ‘servizi al cittadino’) a noi non è dato saperlo.

Insomma, un’attività frenetica di chiacchiere inconcludenti, tipo quelle sul “ritiro dall’Afghanistan”: lo stesso giorno in cui il ‘Grande Gabo’ dice “ritiro entro il 2012”, un ministro della Repubblica delle Banane risponde “sì” alla richiesta della Nato d’inviare altre migliaia di uomini. Le due cose, razionalmente, non stanno assieme, ma tant’è.

Tutto e il contrario di tutto, su ogni argomento, col cittadino a casa che inevitabilmente resta disorientato, ubriacato in mezzo a questa cacofonia di voci.

Ma alcune di queste sparate ci riguardano più da vicino, altre meno. Cioè, diciamo che ci riguardano tutte, perché l’azione dei politici e di tutti quelli che hanno un potere è dettata dalla regola non scritta di fregarci dalla mattina alla sera (loro chiedono a noi il voto, ma gli interessi di cui si curano mica sono i nostri), però alcune ci riguardano direttamente, altre indirettamente.

Negli ultimi giorni, una di queste uscite esilaranti ha attirato la mia attenzione.

Si tratta di quella sugli emolumenti dei conduttori Rai da segnalare nei titoli di coda delle trasmissioni. Lasciando perdere il discorso sulla progressiva cannibalizzazione della tv di Stato (le tv private, in un sistema davvero libero, non dovrebbero esistere, poiché ovunque, alla faccia delle filastrocche sulla “diversificazione dell’offerta informativa”, si assiste all’instaurazione di monopoli mediatici), in merito a quest’ultima sparata di un ministro c’è da osservare quanto segue.

Che Tizio o Caio guadagnino fior di quattrini in poche serate è uno scandalo sia che ciò avvenga in una tv pubblica che in una tv privata. La favola per cui quelle del primo tipo si mantengono col canone mentre le seconde con la pubblicità non sta davvero in piedi: lo dimostra la diffusione delle “tv private a pagamento”, che prima si rendono ‘indispensabili’ (creazione di nuovi ‘bisogni’), poi fanno spendere di più di quel che uno spendeva col vecchio canone Rai. È successo così con tutto il resto: quando c’era la Sip si spendeva, in proporzione, molto meno in telefonate di quanto si spende oggi (c’è anche, è vero, la voglia indotta di chiacchierare “senza limiti”), mentre ci sembra di godere di sempre più strabilianti “offerte” e “promozioni”.

Ma torniamo ai compensi da inserire nei titoli di coda.

Che uno, fosse anche un Re Mida reincarnato, guadagni in una serata decine o centinaia di migliaia di euro è uno scandalo sia che ciò avvenga in tv che altrove. È uno scandalo e basta.

Simili individui famelici, ingordi, insaziabili sono nocivi per la comunità in cui vivono. Se a loro va tanto, alla massa inevitabilmente va poco. Hai voglia a credere alle leggende liberiste per cui “si creano sempre nuove occasioni di ricchezza”: no, la ricchezza è limitata, e se pochi si pappano tutta la torta, agli altri non restano che le briciole e ciucciarsi il dito.

Ma quelli che si pappano tutta la torta sono gli stessi che predicano “lacrime e sangue”, che ci fanno il catechismo sui “sacrifici”, che lodano le virtù dei “conti in pareggio”, che si ergono a sacerdoti delle “regole dell’economia”. A sentirli parlare e a credere a quel che dicono si penserebbe di essere al cospetto di persone davvero coscienziose che si prendono il fardello di gestire a regola d’arte tutta la baracca che se lasciata in mano al popolo (a quelli che si devono accontentare delle briciole) andrebbe inevitabilmente a scatafascio.

Troviamo così, in tutti gli spettacolini per deficienti che la tv propone (i peggiori sono quelli che s’ammantano di “serietà”), pescecani con entrate da cinque zeri che pontificano, che la sanno lunga, che si preoccupano e talvolta piangono lacrime di coccodrillo per i “disoccupati”, i “precari”, i “cassintegrati”. Ma che filantropi che sono! Dedicano il loro tempo a preoccuparsi per chi sta peggio di loro, spremendosi le meningi per trovare una soluzione e, se non c’è (ma c’è, ovviamente), fornire sempre nuove parole di conforto: “siamo sulla stessa barca”!

Dunque, il problema non sono affatto i conduttori televisivi con contratti da favola, ma tutti questi ricconi che hanno sistematicamente rubato. È la regola: se uno è ricco sfondato, ha per forza rubato in qualche modo, anche se tutto ha la parvenza di “legalità”: di sicuro avrà sfruttato il lavoro di altre persone, raggirate col mito del “benefattore che ha dato lavoro”, come se il fine ultimo della vita fosse quello di tenerci occupati dieci ore al giorno (le otto canoniche più l’avanti e indietro di media) per ricevere quanto basta (se basta) a sopravvivere. Che poi chi si strafoga nei soldi li spenda per serate a base di sesso droga e rock’n’roll o si dedichi all’acquisto di rarissimi incunaboli medievali per arricchire la sua biblioteca da 100.000 volumi, che vada a cena in ristoranti in cui ti tolgono anche il cappotto o si faccia bello staccando assegni in “beneficenza” (tanto per farci sentire delle merdacce: lui regala d’un botto 10.000 euro e te, stronzo, neghi l’euro al marocchino che te lo chiede al supermercato?), tutto questo non ha nessuna importanza. Lo scandalo resta che lui ha troppo, decisamente troppo, e tu devi arrabattarti dalla mattina alla sera, in mezzo a “leggi” che lui, coi suoi simili, ha stabilito.

Certamente, se questo scandalo massimo va avanti da quando s’è imposta la liberaldemocrazia, ciò lo si deve anche alla dabbenaggine degli sfruttati, che anziché farsi allettare dagli specchietti del produttivismo e del consumismo avrebbero potuto realizzare che nella vita la cosa più preziosa che si ha è il ‘proprio tempo’ (uso gli apici perché il tempo non è effettivamente nostro). Esiste tutta una ‘mistica del lavoro’ che santifica chi “lavora sodo”, suda, ha “la testa a posto” eccetera, ma parliamoci chiaro: è solo una spudorata menzogna per far andare avanti un meccanismo colossale di sfruttamento della maggioranza da parte di un’infima minoranza. Che per raggirare la prima ha creato i media, per controllarne persino le priorità esistenziali e dirigerne perciò la vita.

Ma in quest’articolo non intendo prendermela con gli ingenui, con chi per abitudine, o magari per ‘necessità’ (uso di nuovo gli apici perché alla fine un alibi per adagiarsi si trova sempre) s’è arreso allo sfruttamento, a rendersi un ingranaggio di un enorme falansterio dominato dai “padroni del discorso”, dai “fabbricanti di opinioni”. I ricconi sfondati che parlano ed operano anche, e soprattutto (!), “per noi”, per “il nostro bene”.

Allora, per riprendere il punto da cui eravamo partiti, direi che mettere gli stipendi dei conduttori della Rai nei titoli di coda delle trasmissioni è a mio avviso decisamente poco. Propongo, piuttosto, una misura più radicale. Perché non imporre l’indicazione degli stipendi di tutti coloro che compaiono in televisione e scrivono sui grandi giornali? Sono quelli che sentenziano su tutti gli aspetti della vita di noialtri, maggioranza, che non avremo mai la possibilità di dire la nostra in tv e nelle testate cosiddette “autorevoli”. Almeno pretendiamo di conoscere, sovraimpresso sullo schermo se appare alla tv, e in nota se scrive o viene interpellato su un giornale, l’importo delle entrate annuali di ogni economista che afferma essere necessario “tirare la cinghia”; di ogni “garante” che ci racconta come ci sta tutelando; di ogni magistrato o avvocato che ci spiega come quotidianamente lotta per applicare il celebre motto “la legge è uguale per tutti”; di ogni direttore di testata o giornalista particolarmente infervorato nel difendere determinate cause e non altre (già, chissà!); di ogni psicologo alla moda che conosce “profondamente” i “mali della nostra epoca”; di ogni “luminare della medicina” che c’illumina con la luce dell’aureola che gli è venuta in capo a furia di “salvare vite umane”; di ogni belloccia zinne e culo che sa tutto di come è “difficile essere madri” in una società che ha massacrato il ruolo della donna; di ogni tuttologo che spara sentenze a raffica; dei vari personaggi dello spettacolo, comprese mignotte e trans, che oltre ad occuparsi di cose effimere come dovrebbero si atteggiano a “maestri di vita”. Insomma, fuori le entrate annuali di ciascuno che sui media parla “in nome del popolo” e dice di sapere tutto su come viviamo noi comuni mortali.

Sai che ridere se si facesse in questo modo. Arriva il tale che dice “dobbiamo comprimere i salari”, mentre sotto appare “200.000 euro l’anno”; l’altro che afferma “sono assolutamente necessarie le riforme” (nella neolingua rovesciata, “riforme” significa sempre “tragedia per noi”), e passa la scritta “400.000 euro l’anno”; salta fuori quello che sputa secco “basta con due lavori” e ai “prepensionamenti” e assieme agli 800.000 euro annui il pubblico a casa può sapere che ha di fronte un “pensionato d’oro” che accumula, oltre a quelli di “senatore a vita”, “direttore”, “presidente onorario”, “consulente” ecc., altri lauti compensi mai in contraddizione con gli altri…

Come invece si sentirà dire uno sfigatissimo dottorando da 1.000 euro al mese, che oltre a dover leccare le chiappe ad un professore ignorante e presuntuoso non deve assolutamente percepire redditi da ISEE superiori a 7.000 euro annui, pena la decadenza dalla borsa di studio; come deve ingoiare l’aspirante destinatario di un contribuito una tantum per la disoccupazione, che per un ISEE (sempre lui! ma i vari ricconi che sentenziano in tv e sui giornali l’avranno mai fatto un ISEE?) superiore a 13.000 euro nell’anno precedente non ha diritto ad un bel niente anche se è senza lavoro; come quello che ha un contratto a tempo determinato e chiede un contributo per l’affitto ma si sente dire che no, non ne ha diritto perché “non è residente” (sai com’è, nella scuola ti sballottano da una regione all’altra), però è… italiano, mentre ne ha diritto l’immigrato che, appena arrivato, prende la residenza; come quei “docenti a contratto” dell’università che tenuti a stecchetto con poche migliaia di euro (lordi!) l’anno (ma gli studenti non lo sanno e credono di avere di fronte dei veri “professori”), una volta che vanno a riempire i fogli per la disoccupazione scoprono di non averne diritto perché l’università (la cui serietà, malgrado gli stemmi con cherubini e motti in latino è pari a zero) non può fornire alcuna documentazione compartibile coi parametri fissati per aver diritto alla mascherina dell’ossigeno del contributo di disoccupazione; come quei poveracci che hanno ricevuto la “social card” (soldi non ne danno più: solo carte prepagate – quando lo sono! – da utilizzare nella grande distribuzione di proprietà, ovviamente, degli stessi ricconi sfondati che commissionano le stesse leggi inique che valgono solo per la maggioranza, cioè noi).

Questa modesta proposta, quella di far comparire sempre le entrate di chi parla “in nome del popolo”, di tutti quelli che hanno un ruolo pubblico e fanno “opinione”, potrà sembrare una provocazione, un’assurdità, ma non lo è. Innanzitutto perché se davvero nei titoli di coda delle trasmissioni dovessero passare i compensi dei conduttori, significherebbe che siamo già nell’assurdo, però un assurdo ad uso e consumo di determinati interessi politico-economici (lo scopo, evidentemente, è nuocere a quei conduttori contrari ad una certa parte politica, e comunque anche a questa sparata non farà seguito nulla). Allora, assurdo per assurdo, tanto vale un provvedimento utile per la collettività, che almeno potrà finalmente rendersi conto di come ad ogni discorso fatto in tv e sui giornali che contano non corrisponda mai alcuna sincera intenzione; di come vi sia un totale scollamento tra chi ha il privilegio di parlare sui media e chi questi media deve sorbirseli e basta (si faccia caso al fatto che non esiste una trasmissione nazionale in cui è possibile intervenire da casa); di come all’apparenza dei “fabbricanti di opinioni”, che preparano il terreno alle “leggi”, alle guerre, a tutto quello che ci interessa da vicino, corrisponda solo la realtà del conto in banca.

C’è chi dice che la ricchezza non sia un male in sé, perché dipende da come i soldi vengono usati. Ed è vero, senonché chi predica questa cosa si è sempre esentato dal chiedersi come sono state accumulate fortune da Paperon de’ Paperoni.

Ma il problema non è nemmeno questo. Mano a mano che questa umanità è discesa verso la dissoluzione finale, da una “epoca dell’oro” (dove per “oro” non s’intendeva la grana) verso “l’età oscura” nella quale siamo immersi ed il cui volto grottesco si mostra a chi sa vedere, il possesso di ricchezze è diventato l’unico valore in base al quale si costituiscono delle gerarchie, le quali, si capisce, sono delle parodie della vera gerarchia, che è solo spirituale. Nell’epoca in cui i valori della materia hanno soppiantato quelli dello spirito, il ricco sfondato (che tra l’altro non era neppure concepibile in epoche informate secondo altri valori) s’è messo a fare l’abusivo, occupando un livello gerarchico che non gli spetta. Per far questo, l’opera satanica (e qui il discorso si fa serio) ha puntato a svalutare tutto quel che sapeva di guerriero e sacrale e che forniva il modello alla maggioranza (“onore” e “fedeltà” sono oggi considerati valori obsoleti, non “alla moda”), così il regno di Mammona ha avuto campo libero. Siccome però i ricconi sfondati sono per forza di cose una minoranza (le ricchezze sono limitate), la base della piramide, ovvero noialtri, è stata indotta ad assumere i valori della casta bulimica, che anche quando ammanta la propria esistenza di “spiritualità” altro non si gingilla se non con patacche spiritualiste che si accomodano benissimo col loro famelico bisogno di beni materiali, il tutto configurandosi come l’orizzonte esistenziale di chi s’è venduto l’anima al Diavolo. La massa, anche se non riesce ad arricchirsi come la casta dei miliardari vorrebbe farlo (vedasi il proliferare delle scommesse “legali” o le fortune elettorali di personaggi ricchissimi), ed in questo sta il pericolo, spirituale, s’intende, anche per chi non s’è arricchito. Certamente v’è una differenza tra chi sfrutta e chi è sfruttato (chiamiamo le cose col loro nome: altro che “atipici” e “interinali”!), tuttavia, per neutralizzare effettivamente l’opera asociale e nociva dei pescecani sempre più intenti ad accumulare denaro e beni materiali serve ritrarsi dal loro campo d’azione privilegiato, riappropriandosi per prima cosa del tempo. Infatti, il primo bene che gli sfruttatori succhiano agli sfruttai è il ‘loro’ tempo.

Certo, si tratta di “darsi una regolata”, di vivere più sobriamente. In base a parametri che non sono quelli né degli “sfruttatori” né degli “sfruttati”, perché qui è in questione l’uscire da un’arena nella quale la partita è falsata in partenza. Da piccolo ti fanno credere che “tutti sono uguali”, poi però scopri che pochi corrono con la Ferrari e molti con la Topolino, ma la linea del traguardo è uguale per tutti. Addirittura, quelli con la Ferrari ti lanciano i chiodi e macchie d’olio sulla strada, ma da regolamento pare che ciò sia ammesso se il proprietario della Topolino (che comunque può indossare un cappellino della Ferrari) non svolge almeno 40 ore di addestramento settimanali a costruire delle Ferrari. Coi soldi che guadagna, poi, potrà comprarsi una Topolino, ma se per disavventura, per strada, dovesse danneggiare una Ferrari il regolamento prevede l’esclusione dalle gare per numero variabile di anni, fino all’esclusione totale. Ai proprietari delle Topolino, infine, è fatto assoluto divieto di costituire una federazione autonoma, mentre sono obbligati a festeggiare le puntuali vittorie di quelli che hanno le Ferrari.

Quando mai l’uomo capirà che quella dell’“uguaglianza”, per non parlare della “libertà”, è la più grande favola politico-sociale mai messa in circolazione? Che a voler perseguire questi “ideali” su un piano politico-sociale non si realizzerà mai alcuna “fraternità” ma che, invece, il vivere insieme sarà sempre più simile alla proverbiale “giungla”? “Libertà, uguaglianza, fraternità”, non per niente sono le parole d’ordine del sommovimento rivoluzionario che ha definitivamente inaugurato l’epoca del potere della casta dei pescecani. Chi le ha elaborate - non è un mistero - sapeva dove voleva andare a parare. E siccome tutto, alla fine, nel disordine, è una parodia dell’Ordine, vale la pena di osservare che l’unica “uguaglianza” che mai abbia avuto senso è quella di fronte a Dio, al Principio Supremo: qui non si bara con le Ferrari e le Topolino. La vera “libertà” è solo quella interiore, che solo può essere raggiunta attraverso un cammino spirituale, ma oggi le sue contraffazioni – politiche, sociali ecc. - sono talmente numerose che risulta impossibile enumerarle tutte: si pensi solo a cosa è diventata la “liberazione” da chi vi vede solo una parola d’ordine politico-sociale. La fraternità, perciò, anziché stabilirsi tra individui lasciati all’imperio della “legge del più forte” (del più ricco), con buona pace di tutti i pedagoghi e dei riformatori sociali che sperano sempre di mettere una pezza ad una società a brandelli con le loro prediche e le “iniziative umanitarie”, una reale fraternità, dicevo, potrà solo stabilirsi tra coloro che hanno saputo prima distinguere, poi realizzare, la “eguaglianza” e la “libertà” nei rispettivi superiori significati prima menzionati.

Per costoro, anche il denaro finisce di apparire come “lo sterco del demonio”. Sono i pescecani, gli sfruttatori, gli schiavi della brama di beni materiali e di dominio sugli altri, ad assomigliare molto di più allo sterco. E lo sterco, quand’è secco, brucia molto bene…