Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / John Demianjuk sull'altare del pensiero unico

John Demianjuk sull'altare del pensiero unico

di Milena Spigaglia - 10/12/2009

Fonte: escogitur.com

  
 
“Chi dunque è colpevole? Tutti o nessuno? Perché l’operaio addetto al gas sarebbe più colpevole dell’operaio addetto alle caldaie, al giardino, ai veicoli?… Ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione, comunque in un modo o nell’altro… Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori”. (1)

Era sua moglie ad uccidere le galline, ha raccontato il boia di Sobibor, alias John Demjanjuk (2), fra gli ultimi sopravvissuti agli eventi del nazismo ad essere inseguiti dalla giustizia mondialista.

Il riferimento qui è agli illuminati difensori delle leggi umane eterne e intangibili, benché scritte dopo i fatti; ai corifei di principi morali inviolabili, magari esportabili in punta di drone; ai crociati dei tribunali internazionali, implacabili e spocchiosi, che sanciscono torti e ragioni ignorando spesso il verdetto del campo di battaglia, e opponendogli pretenziose operazioni di peace keeping o peace restoring quando non di conflitto preventivo.

Sono questi giurati transnazionali in servizio permanente effettivo ad aver deciso che John Demjanjuk è meritevole di pubblica infamia e persecuzione giudiziaria. Per questa ragione, a 89 anni e in gravi condizioni di salute, subisce un processo inutile e tartufesco.

Demjanjuk, che all’epoca dei fatti non era un gerarca nazista, bensì un ucraino arruolato nell’Armata Rossa sovietica, rappresenta una novità assoluta nella storia dei procedimenti giudiziari tedeschi: per la prima volta si processa un uomo non in quanto abbia ucciso qualcuno, ma perché facente parte di un sistema finalizzato all’uccisione delle persone.

Secondo un criterio simile l’intero popolo tedesco, che per espiare i suoi peccati porta alla sbarra un cittadino straniero, dovrebbe essere condannato, perché tutti i Tedeschi del Terzo Reich erano parte di quel sistema. Secondo lo stesso criterio, tutti gli Israeliani dovrebbero essere portati in tribunale per crimini di guerra e contro l’umanità sistematicamente praticati nei confronti dei Palestinesi. E tutti i cittadini statunitensi dovrebbero essere processati dagli Indiani d’America, in quanto artefici ed eredi del loro sterminio; o dai Giapponesi, devastati dalle bombe atomiche prodotte dal sistema di economia di guerra americana. Per non parlare dei massacri, altrettanto sistematici, di Inglesi e Spagnoli.

In tal caso saremmo chiaramente di fronte alla negazione del principio secondo cui la responsabilità penale è personale, col conseguente corollario che le colpe dei padri possono ricadere sui figli.

Si tratterebbe inoltre di negare ipocritamente la verità fattuale, che implica una differenza tra chi è nella posizione di decidere e chi in quella assai più spiacevole di mettere in pratica le decisioni prese da altri, pena l’esclusione materiale e culturale, cioè umana, dal sistema in cui vive.

Era il Venerdì Santo quando è stato ordinato che John Demjanjuk venisse deportato in Germania per subire un processo come complice dell’assassinio di 29.000 ebrei nel lager polacco di Sobibor(3), uno dei tre campi di sterminio costruiti nell’ambito dell’Operazione Reinhard, assieme a quello di Treblinka e Belzec.

Il provvedimento altro non è che la replica dell’estradizione dello stesso Demjanjuk in Israele, in occasione del processo per l’uccisione, questa volta a Treblinka, di 870.000 ebrei. Era il 1986, ma la sua odissea era già iniziata sette anni prima.

Nel 1979 l’Ufficio per le Indagini Speciali del Dipartimento di Giustizia americano (OSI), pungolato e guidato dal KGB di Yuri Andropov, si persuase che Demjanjuk era niente di meno che “Ivan in Terribile”, al secolo Ivan Marchenko, brutale e sadica guardia di Treblinka che godeva a sfondare teste di infanti e a squarciare seni di donne, accompagnando centinaia di migliaia di ebrei nelle camere a gas.

La difesa di Demjanjuk fu semplice: a Treblinka non ci sono mai stato.

Eppure una dozzina di sopravvissuti, di fronte ad un ingrandimento fotografico, lo identificarono come Ivan il Terribile. Due anni dopo essere stato estradato in Israele, nel 1988 l’imputato venne condannato a morte. Stava per essere impiccato il più grande mostro dell’Olocausto dopo Mengele.

Ma la sua famiglia, gli amici, i suoi avvocati non si arresero. Attraversarono l’Europa e, durante gli ultimi giorni di vita dell’Unione Sovietica, scoprirono che tra i documenti degli archivi moscoviti c’era una foto del vero “Ivan”, un uomo molto più imponente e anziano di Demjanjuk, all’epoca soltanto ventitreenne.

Ivan Marchenko fu positivamente identificato come Ivan il Terribile e la
Suprema Corte di Israele, riconosciamone il merito, ripudiò il verdetto impedendo che Demjanjuk fosse il primo uomo ad essere impiccato a Gerusalemme dopo Adolf Eichmann.

L’Ufficio per le Indagini Speciali, umiliato ma forte dell’appoggio dei suoi amici israeliani, chiese allora al tribunale l’autorizzazione ad un nuovo processo, accusando Demjanjuk di aver prestato servizio a Sobibor – nello stesso periodo in cui in precedenza lo accusavano di essere stato a Treblinka, dunque ammettendo indirettamente che il processo contro Demjanjuk si era basato su prove inconsistenti o addirittura fabbricate, dunque su testimonianze false e senza valore.

La magistratura israeliana spiegò di non poter processare una persona due volte per lo stesso reato. Dopo tredici anni, gli ultimi quattro trascorsi nel braccio della morte a riflettere su colpe mai commesse, Demjanjuk fu rilasciato. Fece ritorno nella sua casa di Cleveland da uomo libero e da cittadino americano.

Sfortunatamente, l’OSI non era pronto a gettare la spugna. Grazie ai vecchi colleghi del KGB, aveva ancora una carta da giocare: una dichiarazione firmata da un certo Danilchenko che assicurava di essere stato a Sobibor e di aver lavorato insieme a Demjanjuk. Poi saltò fuori un altro documento che indicava come Demjanjuk potesse davvero, dopo un periodo di addestramento al campo di Trawniki, essere stato assegnato a Sobibor.

Quando la difesa ha chiesto di interrogare Danilchenko per verificare che fosse realmente l’autore ed il firmatario della dichiarazione e per interrogarlo sulla sua testimonianza, si è scoperto che non era possibile. Danilchenko è morto poco dopo aver firmato.

Giunto ad un passo dall’impiccagione a Gerusalemme, Demjanjuk viene dunque perseguito di nuovo, e viene processato in Germania in quanto parte di un sistema finalizzato all’uccisione di ventinovemila Ebrei nel campo di Sobibor, malgrado nessun testimone vivente possa ricordarne la presenza in quel luogo, e nonostante il pubblico ministero non sia assolutamente in grado di dimostrare se abbia mai davvero fatto del male a qualcuno. In compenso, in Israele c’è un testimone che a Sobibor c’è stato davvero, il quale afferma di aver conosciuto tutti i custodi del campo ed è pronto a giurare di non avervi mai incontrato John Demjanjuk.

Se verrà confermata la tesi dell’accusa, il soldato russo nonché cittadino americano John Demjanjuk sarà condannato da Tedeschi per aver preso parte ad un genocidio pianificato e perpetrato da Tedeschi. Sarà il capro espiatorio il cui sangue laverà i peccati della Germania: un prigioniero ucraino, che le SS hanno catturato, coscritto e addestrato a fare la guardia di campo.

Questa non è giustizia, ma ortodossia politicamente corretta al solo scopo di rimuovere la storia, soprattutto se scomoda, come condizione essenziale alla dissoluzione dell’identità.

C’è un solo diritto che la frenetica attività delle lobby globaliste non riconoscono: quello che hanno tutte le nazioni ad avere un governo autenticamente nazionale, che non consenta lealtà parallele e sotterranee, in grado di conservare aspirazioni di indipendenza e di opporre il rifiuto di rinnegare il proprio passato.

Per giustificare un presente univoco e omologato occorre una versione della storia altrettanto univoca e omologata, indiscutibile perché oggettiva, capace di persuadere dell’esistenza di un buono e di un cattivo, e di raccontare che il cattivo non sia altro che un errore di percorso, una scheggia impazzita e ribelle dinanzi al migliore dei mondi possibili, intessuto degli stessi valori su cui le suddette lobby hanno, guarda caso, costruito le loro fortune.

E’ in questo contesto che si scatena la più letale delle offensive, quella delle parole, con la conseguenza che una guerra nata dallo scontro di visioni e di interessi divergenti diventa “assurda”, i perdenti si trasformano in “criminali”, mentre la loro resistenza viene degradata a “terrorismo”.

Così accade che un popolo sia condannato a scontare per sempre un complesso di inferiorità morale, e che per pagare il suo debito con la giustizia dei vincitori si impegni con tutte le sue forze a disconoscere se stesso e il proprio vissuto, diventando più realista del re. Più giusto dei giusti.

Questa giustizia fa paura, come fanno paura le reazioni scandalizzate e scomposte provocate dall’esito del referendum svizzero, reo di aver bocciato la costruzione di nuovi minareti islamici. Mi fa orrore l’ipocrisia con cui si condanna il risultato del voto democratico di uno Stato democratico, perché proviene da coloro che auspicano ed assecondano la distruzione in terra musulmana di quegli stessi minareti che vorrebbero veder risorgere in Europa. Se è vero che l’Islam legge diffidenza e provocazione nel rifiuto dei minareti d’importazione, come può interpretare le ingerenze e le violenze che non esitiamo a recapitargli a domicilio?

E mi allarma ascoltare il rappresentante al Parlamento europeo Cohn Bendit che, insoddisfatto della volontà espressa dagli elettori, dichiara “Fate votare di nuovo gli Svizzeri”.(4) Già, fateli votare ancora, e ancora, fino a quando il voto del popolo coincida con i desideri di chi questo voto, sotto sotto, non lo può soffrire e lo ritiene più scomodo di un passato scomodo.

Del resto è già accaduto col Trattato di Lisbona: la costituzione pensata nelle stanze di Bruxelles passa quando è calata dall’alto o quando viene mercanteggiata, ma si blocca non appena sottoposta al giudizio delle nazioni.

John Demjanjuk è l’ennesimo sacrificio offerto sull’altare del pensiero unico. Demjanjuk, i minareti, l’integrazione coatta: sono tutte facce di un medesimo progetto teso all’imposizione di una sola verità, di un’unica fede.

Puntano all’omogeneizzazione di pensieri, parole, opere – e non tollerano omissioni.


note

(1) Jonathan Littell, “Le Benevole”, Toccata, pagg. 20-21, Einaudi, 2007
(2) Danilo Taino, “Il boia di Sobibor alla sbarra, ultimo processo al nazismo”, Corriere della Sera, 1 dicembre 2009
(3) Patrick J. Buchanan, “The true haters”, Buchanan.org, 14 aprile 2009
(4) Richard Werly, “Les Suisses doivent revoter”, Le Temps, 2 dicembre 2009