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Siate ottimisti: nuovi divieti crescono

di Miro Renzaglia - 10/12/2009


Giorgio Gaber, Far finta di essere sani

ottimismo_fondo magazineCandido, è un giovane buono e intelligente. Risiede serenamente nel castello del barone di Thunder-ten-tronckh. Ingenuo quel tanto che basta da credere ciecamente al filosofo di corte, il tutto-lingua Pangloss, è da questi fatto certo di vivere nel migliore dei mondi possibili e che se il male c’è, è un puro accidente che con l’ottimismo e un po’ di sana ragione può essere facilmente eliminato. Segretamente innamorato e ricambiato della giovane figlia del castellano,  Cunegonda, e mite com’è, è ben lontano anche soltanto dal sospetto che possa essere egli stesso considerato un male per il quieto vivere del regno incantevole. Purtroppo per lui, il giorno che verrà sorpreso a scambiarsi un casto bacio con la giovane amata dovrà fare i conti con questa triste realtà. Costretto all’esilio, andrà per il mondo, scoprendo, di regione in regione, che tutte le belle certezze inculcategli dalla filosofia ottimista di Pangloss cadevano. Alla fine, ritroverà Cunegonda ma, triste metafora dell’innocenza persa, l’immagine della fanciulla in fiore è ormai solo un lontano ricordo seppellito dal corpo sfatto di una quasi megera.

Anche Ludvik è un bravo e bel ragazzo. Brillante, gli piacciono le donne. E’ comunista. Vive a Praga, nella Praga del regime appena radicato. E’ironico e gli piace scherzare. S’invaghisce di una sua compagna, Lucie, molto compresa nel ruolo di attivista, tanto da considerare le sue avances, poco ortodosse al clima e al rigore dei tempi. Lui, Ludvik, un po’ la sobilla  con il suo charme, un po’ la irride per le sue diritture morali. L’intento è chiaro: portarsela a letto. E più lei resiste, più il testosterone si alza. Il testosterone – si sa – produce sballi ormonali, fino al punto che ti fa perdere il lume della ragione. Così capita che al fine di provocare una reazione positiva ai suoi intenti, Ludvik le spedisce una cartolina che recita: “l’ottimismo è l’oppio dei popoli e lo spirito sano puzza d’imbecillità”. Ahi, ahi, ahi… Come ben sapete, in quei paesi, in quella realtà di codice penale applicato al socialismo, l’ironia era compresa tra i vizi controrivoluzionari e, peccato per Ludvik, la sua giovane musa lo denuncia al partito per mancanza di ottimismo e di fiducia nel radioso avvenire che si voleva edificare.   Sottoposto a indagine e ritenuto se non colpevole, almeno sospetto di intelligenza col nemico, anche Ludvik, come Candido, andrà in odissea. Ritornerà infine a Praga e, a conoscenza che l’ormai inaffascinante Lucie è diventata la moglie proprio del funzionario che l’aveva perseguitato, la seduce al solo ed unico scopo di vendicarsi. Purtroppo, ancora una volta, sarà lui a subire le conseguenze dello scherzo: Lucie, infatti, oltre a essere diventata racchietta anzichenò, si era separata da tempo dal marito, rendendo del tutto inutile il suo sacrificio sessuale.

I brevi riassunti dei paragrafi precedenti, sono le trame di due note opere letterarie. Candido, ovvero dell’ottimismo (1759) di Voltaire e Lo scherzo (1967) di Milan Kundera. Le due opere, scritte a distanza di quasi due secoli, hanno tratti di forte rassomiglianza negli snodi centrali della trama ma, soprattutto, hanno lo stesso identico obiettivo: dimostrare la caducità di quel principio che si vuole fondatore di una visione sana e positiva della vita: l’ottimismo, e tutto quel che ne consegue in termini di cieca e fanatica fiducia in un provvidenzialismo che, fatalmente, farà trionfare il bene sul male, la giustizia sull’ingiustizia, la tolleranza sul fanatismo. Piacerebbe crederci e, infatti, all’inizio Candido, convinto dalla filosofia di Pangloss e Ludvik da quella del partito rosso d’avvenire, ingenuamente ci credono. Finché non arriva la realtà della vita ad aprirgli dolorosamente gli occhi.

Ora, senza voler cadere nel pessimismo metafisico di Arthur Schopenhauer («La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia») o in quello storico di Giacomo Leopardi («di molti / tristi e miseri tutti / un popol fanno / lieto e felice»), appare di difficile confutazione il fatto che nascondere dietro un ottimismo di facciata una condizione anche soltanto sociale di difficoltà appare, proprio come lo definisce Kundera «oppio dei popoli». Una droga, insomma, a niente altro utile che favorire la fuga dalla realtà. La fuga reca in sé una neanche tanto celata voglia di libertà. Per fortuna, però,  che la cosa non riguarda noi contemporanei che le libertà ce le abbiamo già tutte. Ma allora perché – mi chiedo – siamo continuamente martellati da inviti ad assumere una visione ottimistica della vita?

Proviamo allora, per puro spirito di contraddizione, a convertire in dubbio l’asseverato: è proprio così? È proprio vero che abbiamo già tutte le libertà? Ad onta delle apparenze, sembrerebbe di no. O, meglio: sembrerebbe – dico: sembrerebbe – che da qualche anno quelle che manco consideravamo libertà tanto erano ovvi esercizi quotidiani siano fatti oggetto di restrizioni sempre più invadenti. E ce ne è per tutti i gusti: dal divieto di sedersi sui bordi delle aiuole e dei vasi di fiore, a quello di accomodarsi in più di tre su una panchina del parco, dopo un certo orario;  da quello di camminare con gli zoccoli per le vie di Capri,  a quello di costruire castelli di sabbia sulle spiagge; dal dar da mangiare ai piccioni, al dar da mangiare a se stessi in zona pubblica che non sia ufficialmente riconosciuta di ristoro… La lista sarebbe ancora lunghissima ma ci fermiamo anche perché fin qui siamo a norme dettate da esigenze di un decoro che, sebbene sfuggente, sembrano dettate da improvvisi colpi di sole di alcuni sindaci sceriffi, fin troppo compresi nel ruolo di cui li ha investi il “pacchetto di sicurezza” entrato in vigore quest’anno. Ma come chiamare diversamente che razzista l’ordinanza che vieta nelle piscine pubbliche e lungo i corsi d’acqua naturale, l’uso del burkini (il bikini islamico che è composto di costume intero unito a un velo sulla testa) emesso dal sindaco di Varallo Sesia nel vercellese? E il divieto di aprire locali pubblici per la vendita di kebab a Capriate, provincia del bergamasco e, da qualche giorno, anche a Venezia?

Poi c’è la lunga sfilza di divieti che, nelle intenzioni, dei nostri amministratori valgono a tutelare la nostra salute e quella che minacciamo con le nostre cattive abitudini igienico-sanitarie. E va bene vietare il fumo delle insane sigarette nei locali pubblici, ma arrivare a multare chi fuma in un parco pubblico, o addirittura in strada che roba è? E, attenzione attenzione, sta per arrivare i divieto di fumare anche in ambiente privato: la commissione dei lavori pubblici al senato sta pensando ad una legge per vietare il fumo a chi si trova alla guida della propria autovettura, con la provvida motivazione che «la sigaretta riduce il livello di attenzione e al volante questo può uccidere».

Uno stato che si vuole prendere in maniera così maniacale cura della mia e dell’altrui persona, come lo devo considerare? In esercizio costante di allargamento o di riduzione della mia libertà? Ho forse  il dovere di essere sano? Sembra di sì. E ne sono ormai così persuaso che anche senza ingiunzioni o minacce di multe e ammende, percorro con ottimismo la via della miglior salute: bevo solo birra analcolica, caffè senza caffeina e coca cola ovviamente, rigorosamente light, fumo sigarette al mentolo, faccio fitness, mangio in bianco e mai carne alla brace, prima di uscire di casa mi assicuro di avere con me due o tre spazzolini dentifricio monouso da usare ogni volta che ingurgito qualcosa, e non dimentico mai né l’amuchina per lavarmi le mani né il napisan per sciacquare con cura una mela ché, non sia mai, sia stata trattata con pesticidi resistenti all’acqua corrente…

Su con la vita, quindi: siate ottimisti. Mente sana in corpore sano, dicevano i saggi. Guardate me: da quando mi sono dato la libertà di essere schiavo di regole salutari ed igieniche, riesco a capire meglio e a lodare perfino uno stato che, forse, un giorno arriverà ad impormi, se avessi la disgrazia di cadere in malattia l’obbligo di, come diceva Giorgio Gaber, «far finta di essere sano». E sarà mio precipuo dovere adempiere perché, sapete?, non è giusto offendere lo “spirito sano” di chi crede di vivere nel migliore dei mondi possibili mettendolo di fronte alle mie disgrazie. Non sia mai arrivi a sentire che il suo ottimismo puzza di imbecillità.

 

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