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Era matematica la fine dell’Impero

di Alessandro Barbero - 10/12/2009

   
 
Alessandro Barbero analizza l’ultimo lavoro del medievista britannico Chris Wickhman, Le società dell’Alto Medioevo, che esamina il periodo di transizione tra la caduta dell’Impero romano d’Occidente e la nascita dei nuovi regni romano-barbarici.
Utilizzando in maniera congiunta la documentazione scritta e archeologica, Wickham propone una sintesi che abbraccia tutta l’area dell’Impero e che dimostra come la sua caduta sia stata il frutto di un deterioramento delle condizioni politiche ed economiche interne impossibili da arginare. Wickham è in grado altresì di dimostrare che le varie regioni dell’impero romano, a seconda delle specifiche condizioni sociali ed economiche, reagirono in maniera diversa al crollo del potere centrale: è dunque indispensabile evitare qualsiasi generalizzazione del fenomeno.


Un tempo spiegare la caduta dell’impero romano non sembrava difficile. Orde di barbari erano arrivate brandendo fiaccole accese e avevano distrutto tutto. […] Senonché, a un esame meno frettoloso si è scoperto che quei barbari, anche se indubbiamente vestivano di pelli e si ungevano i capelli di burro, non desideravano però nient’altro se non abitare anch’essi nei palazzi dei romani, passeggiare fra le statue e divertirsi ai giochi del circo, e che l’intero mondo romano, dalla schiava al senatore, in mancanza di alternative era disponibilissimo a soddisfarli. Perché, dunque, è finito il mondoantico?
Chris Wickham, professore a Oxford e forse il più autorevole dei medievisti inglesi, ha deciso di affrontare il problema alla radice, basandosi su una rilettura integrale delle fonti scritte e ancor più sui risultati dell’archeologia, che in questi anni ha cambiato radicalmente la nostra percezione dei cosiddetti secoli oscuri. Wickham si è proposto il compito sovrumano di analizzare in dettaglio, regione per regione, da Londra a Baghdad, il tessuto economico e la struttura sociale dell’intera ecumene romana nei secoli che videro il trapasso dall’impero ai regni romano-barbarici e alla dominazione araba, senza lasciarsi sfuggire né un coccio né una vita di santo. Questa minuziosa analisi territoriale, che avrebbe potuto tradursi in innumerevoli articoli accademici, è stata invece rimontata in un unico, formidabile libro, articolato in quattro ambiti comparativi: il funzionamento dello stato, il ruolo delle aristocrazie, il mondocontadino, gli scambi.
Il risultato è la prima spiegazione sistematica del perché il mondo romano giunse alla sua fine, sebbene nessuno lo volesse. Wickhamnon ha paura, per farsi capire, di rifarsi a un precedente scientifico, la teoria delle catastrofi usata dai matematici, «il modello secondo cui un lento cambiamento raggiunge infine una situazione in cui i funzionamenti precedenti non possono più essere sostenuti». Non è necessario che ci siano delle catastrofi ad innescare l’involuzione, anzi è più probabile che le catastrofi siano il risultato di una situazione che è diventata un po’ per volta ingestibile. Al centro c’è una nuova visione dell’impero romano, «un sistema corrotto, violento ma anche stabile», che si relazionava con la gente attraverso le tasse. […] In un terrificante circolo vizioso si ridusse la quantità di moneta circolante, giacché essa non era coniata per i bisogni dei mercati, ma per quelli dello stato; le aristocrazie si impoverirono, gli investimenti di vennero un ricordo del passato, il knowhow tecnologico si deteriorò e con esso le infrastrutture, dalle fogne agli acquedotti. Ad accusare il colpo furono soprattutto quelle aree che erano state più integrate nel sistema della fiscalità imperiale, prima fra tutte l’Italia, troppo a lungo abituata a vivere di rendita. Altre, come la Gallia del Nord, ricca e periferica, che sotto l’impero era già abituata a una certa autosufficienza, patirono di meno. Lì i potenti capi franchi e i loro guerrieri assicurarono la continuità d’una domanda che sostituì quella dell’impero e delle legioni, continuando più a lungo che altrove ad abitare ville con terme e mosaici: e non è un caso se alla fine del periodo analizzato da Wickham fu proprio il re dei Franchi, Carlo Magno, a riunificare una parte dell’antico impero e riprendere il titolo di Augusto. Ma il suo era un impero profondamente cambiato, ripiegato verso il continente, privo d’un sistema fiscale, povero e rozzo in confronto a quello che l’aveva preceduto. Roma, centralista e statalista, aveva alimentato col suo fisco un’unica civiltà in Europa e nel Mediterraneo; la regionalizzazione che si accompagnò alla sua fine significò anche un drammatico peggioramento delle condizioni di vita.

Chris Wickham, Le società dell’Alto Medioevo. Europa e Mediterraneo, secoli VVIII, trad. di A. Fiore e L. Provero Viella, pp. 991, € 75.