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A proposito di Tettamanzi, della Lega e della nuova «lotta per le investiture»

di Francesco Lamendola - 11/12/2009

È già successo nella storia, e non una volta sola.
Il caso più clamoroso è stato quello delle grandi invasioni barbariche del IV e V secolo, allorché i due pilastri dell'Impero Romano d'Occidente, il Senato e la Chiesa cattolica, scoprirono, non senza sorpresa, che avrebbero potuto sopravvivere, conservando molti dei loro rispettivi privilegi, anche se lo Stato si fosse dissolto. A quel punto, essi dissociarono le proprie sorti dalle sue, e lasciarono che l'ultimo vessillo imperiale venisse ammainato, nel 476 dopo Cristo.
Un caso assai più recente, che conferma, tuttavia, una costante delle nostre classi dirigenti, si è verificato nel 1943. Anche allora il moderno Senato, ossia la classe dei finanzieri e degli industriali, e la Chieda cattolica, forte dei Patti Lateranensi del 1929, compresero che avrebbero potuto sopravvivere al crollo del fascismo, e lo abbandonarono al suo destino. Il che equivalse, in quelle date circostanze storiche, ad abbandonare al suo destino lo Stato italiano in quanto tale, invaso dagli amici e dai nemici ed imploso nella maniera più ingloriosa e miseranda.
Lasciando da parte, per ora, la riflessione sulla classe dirigente italiana, del resto abituata, per vocazione plurisecolare oltre che per necessità, a piegarsi davanti a qualunque padrone in cambio del mantenimento delle proprie posizioni di potere, spenderemo qualche osservazione sul comportamento della Chiesa, o meglio, sui vertici della Chiesa, e specialmente sui vescovi e sulla stampa cattolica «ufficiale», davanti al moderno fenomeno dell'invasione dell'Europa e dell'Italia da parte di milioni di cittadini provenienti da ogni parte del mondo (e che si tratti di una invasione, sia pure pacifica, è dimostrato dal fatto che nessuno vi si può opporre, pena l'essere immediatamente esposto alla gogna mediatica come razzista e fomentatore dell'odio razziale).
Davanti all'invasione dell'Europa e dell'Italia, e specialmente da parte di enormi masse di persone di fede islamica, provenienti dai Balcani, dall'Africa e dall'Asia (ovvero, dai territori dell'antico Impero Ottomano, che già nel Cinque e Seicento aveva tentato l'invasione, armata quella volta, del nostro continente), uomini come l'arcivescovo ambrosiano Tettamanzi esemplificano perfettamente la tendenza della Chiesa a ragionare in termini di lunghissimo periodo.
L'Impero Romano andò in rovina, ma la Chiesa sopravvisse e più tardi, nel corso di numerose generazioni, riuscì perfino a convertire i popoli germanici e a favorire la rinascita dell'Impero, nella versione cristiana e tedesca, ma sottoposto alla propria egida Anche il fascismo andò in rovina (sotto i colpi dell'invasione angloamericana e non per una reazione popolare), ma la Chiesa cattolica conservò i privilegi assicuratile da Mussolini e confermati, poi, dai Governi democratici e repubblicani. Passano gli Stati e gli Imperi, passano i sistemi politici e le ideologie, ma la Chiesa rimane salda sulle sue strutture bimillenarie e conserva sostanzialmente intatti i suoi privilegi, compresi quelli di natura materiale (di cui erano stati larghi sia gli ultimi imperatori romani, come Costantino e Teodosio, sia il Duce all'epoca del Concordato).
Secondo noi, i vertici della Chiesa hanno già fatto i loro conti e sono giunti alla conclusione che, nel giro di quattro cinque generazioni, forse meno, l'Europa intera sarà islamizzata e sarà diventata un mosaico di genti (non diciamo di popoli) e di culture eterogenee. Non che sia un calcolo difficile: le famiglie di immigrati fanno in media tre figli; le famiglie italiane, sì e non ne fanno uno. È matematico.
Se a ciò si aggiunge il prossimo, inevitabile (inevitabile?) ingresso della Turchia nell'Unione europea, coi suoi ottanta o novanta milioni di cittadini liberi di stabilirsi in qualunque Paese membro, senza bisogno di permessi e documenti, non occorre davvero essere delle aquile per capire che, prima della fine del secolo, i minareti avranno superato i campanili, e non solo architettonicamente e paesaggisticamente, ma culturalmente e politicamente.
Ed ora, veniamo alla questione specifica. L'arcivescovo Tettamanzi, che non si è particolarmente scandalizzato per la sentenza europea circa la rimozione dei crocifissi dalle aule scolastiche, si sta spendendo in una tenace battaglia a favore della costruzione di nuove moschee nella sua diocesi e in tutta Italia. Attaccato dalla Lega, in sua difesa sono subito accorsi i grossi nomi dell'establishment politico, compreso il presidente della Repubblica italiana Napolitano; mentre il numero due dello Stato, il presidente della Camera, Fini, già da tempo si è impegnato in una battaglia analoga, se non addirittura più incisiva, proponendo la riduzione dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana e qualificando di «stronzi» quanti, a suo dire, discriminano gli stranieri (ma adottando un concetto così ampio di discriminazione, che in pratica vi rientra chiunque nutra il più piccolo dubbio o la più piccola perplessità circa il suo modo d'intendere l'integrazione).
Per sgombrare il terreno da argomenti strumentali e pretestuosi, diciamo in primo luogo che il nucleo del messaggio evangelico, basato sull'amore del prossimo e sul dovere dell'accoglienza caritatevole, qui c'entra poco o niente. Non è in nome di esso che Tettamanzi chiede più moschee a Milano e dintorni; e non è per opporsi ad esso che quanti non condividono la sua impostazione, criticano le sue esternazioni.
L'amore del prossimo, quando si parla di problemi globali, che coinvolgono milioni o miliardi di persone, deve conciliarsi con il realismo politico; altrimenti esso cade in un velleitarismo tanto demagogico quanto irresponsabile. Una scialuppa, dopo il naufragio di una nave, può prendere a bordo solo un numero limitato di naufraghi: se li si volesse far salire tutti, la si manderebbe a fondo, e perirebbero anche quelli che avrebbero potuto salvarsi. L'Europa non può accogliere milioni e milioni di immigrati provenenti dai cinque continenti, nel giro di pochi anni, senza preparare a se stessa un tracollo sociale, economico, politico e culturale. Questo non sarebbe amore del prossimo, ma cecità e follia.
Il problema della miseria dei Paesi del Terzo e Quarto mondo non si può risolvere a questo modo, ma con delle politiche lungimiranti di aiuto «in loco» a quelle popolazioni; e, ovviamente, con l'abbandono delle politiche di sfruttamento e strozzinaggio da parte delle multinazionali e delle grandi istituzioni economico-finanziarie del mondo ricco.
Ma il fenomeno di immigrazione selvaggia degli ultimi anni non si spiega solo con la crescente miseria e disperazione dei popoli africani, asiatici e latinoamericani; è, prima ancora, un fenomeno psicologico e culturale. La comunità straniera più numerosa in Italia, ad esempio, è quella romena: e i Romeni (ormai cittadini dell'Unione europea) non fuggono dalla guerra o dalla carestia, ma vengono in cerca di un livello di vita più alto, secondo gli standard del miraggio consumistico occidentale di alcuni decenni fa; il che è tutta un'altra cosa. Gli Europei non potranno spalancare le porte a chiunque venga in cerca di una vita più facile, esattamente come non si possono far salire su una scialuppa centinaia di naufraghi, senza farla affondare.
Le nostre classi dirigenti non sono così cieche da non vedere dove andremo a finire, ma hanno fatto un calcolo cinico e freddo: hanno calcolato che esse riusciranno a sopravvivere, anche dopo che la marea avrà completamente sconvolto gli equilibri sociali, economici, politici e culturali. Le classi dirigenti italiane - poiché ci siamo prefissi di limitarci ad esse -, comprese le gerarchie vaticane e l'alto clero, non fanno, né hanno mai fatto la vita della gente comune.
Tettamanzi nel Palazzo arcivescovile ambrosiano, Napolitano nel Palazzo del Quirinale, Berlusconi nella sua villa di Arcore: nessuno di loro vive a contatto quotidiano con il problema dell'immigrazione selvaggia. Non hanno un madre anziana che, per uscire a fare la spesa, deve percorrere strade degradate, piene di piccoli criminali che la getterebbero a terra per rubarle cinque euro. Non hanno dei figli che, a scuola, si vedono inibire i canti natalizi dalle solerti maestre, preoccupate di non offendere il sentimento religioso degli scolari immigrati.
Culturalmente, essi vivono in una atmosfera di filantropismo tanto cosmopolita quanto artificiale, uno de tanti retaggi dei «philosophes» parigini del Settecento, i gran sacerdoti della religione illuminista, massonica e anticristiana. Per loro, il problema del crocifisso è roba da superstizione medioevale: tanto, i loro figli vanno a scuola nei migliori istituti privati, dove la retta è tale che non ci si vede un immigrato neanche con il cannocchiale.
E lo stesso vale per le scuole cattoliche: niente immigrati, nessuno di essi potrebbe pagare la retta. È facile, per la Chiesa, predicare l'integrazione scolastica, come se fosse la cosa più facile di questo mondo: tanto, a farla devono essere per forza le scuole statali, ove le maestre si trovano con un numero di bambini provenienti dai Paesi più diversi, e che non conoscono affatto la nostra lingua, ormai vicino a quello dei bambini italiani.
Contro questa demagogia sempre più sfrenata, occorre ribadire con forza che chi emigra in un altro Paese non ha solamente dei diritti, ma anche dei doveri: primo fra tutti, quello di rispettare le leggi dello Stato che li ospita e di non offenderne in alcun modo le tradizioni e la sensibilità. Come facevano i nostri nonni, quando emigravano ai quattro angoli del mondo per costruire il Canale di Suez o la Ferrovia transiberiana o le grandi dighe africane: non pretendevano, appena arrivati, di trovare diritti pronti, ma erano consapevoli di doversi guadagnare innanzitutto la stima della società che li ospitava.
L'arcivescovo di Milano, il direttore di «Avvenire» e quello di «Famiglia Cristiana» non sanno o non vogliono mettersi in ascolto dello stato d'animo largamente diffuso nel nostro Paese: non perché il linguaggio del Vangelo, cui astrattamente si richiamano di continuo, sia impopolare, ma perché essi lo interpretano a senso unico; e non sanno ascoltare neppure gli operatori del volontariato cristiano. Chiunque abbia un po' di dimestichezza con la «Caritas» sa che non pochi immigrati, specialmente islamici, ritengono tutto dovuto: la casa, il mobilio, l'assistenza; dicono, alzando la voce, che quei beni sono loro: li pretendono, puramente e semplicemente.
Perché Tettamanzi non si preoccupa del destino dei cristiani dell'Iraq, che ancora due o tre anni fa erano settecentomila, e ora sono ridotti a meno della metà, costretti a fuggire o a convertirsi all'islam, per non dover rischiare la vita tutti i giorni a causa della loro fede religiosa? Perché lui e tanti altri porporati progressisti ed ecumenisti non parlano mai di reciprocità fra cristianesimo ed islam; perché invocano ancora più moschee e minareti, accusando gli Svizzeri di razzismo per il recente referendum in proposito, ma non spendono una parola né una lacrima per l'intolleranza di cui i cristiani sono vittime in tanti Paesi islamici, dalla Nigeria al Sudan?
Nella Chiesa dei primi secoli, i vescovi erano eletti direttamente dal popolo delle rispettive diocesi: così, per acclamazione, magari senza essere nemmeno sacerdoti; soltanto per la loro fama di saggezza e santità. Era una forma di razzismo identitario pure quella? I vescovi della Chiesa odierna, nominati invece dal papa, godono davvero di un profondo radicamento fra le comunità in cui sono chiamati a svolgere la loro opera apostolica?
Da quando la parola «identità» è diventata politicamente scorretta, incivile, e, soprattutto, poco caritatevole e poco cristiana? Un buon cristiano non deve amare la cultura e l'anima del proprio Paese, della propria regione, della propria città? Deve sentirsi per forza privo di radicamento, privo di legami affettivi con i luoghi in cui è nato e vissuto, in cui sono nati i suoi genitori e i suoi nonni, valorizzati dal lavoro delle loro mani?
Certo, per il cristiano la Città di Dio non è di questo mondo; e, in tal senso, la sua cittadinanza non si identifica con alcuna cittadinanza terrena. Questo, però, non significa che il legame con la propria terra, con la propria cultura debba essergli indifferente. Qui c'è un malinteso da chiarire. I cristiani delle prime generazioni aspettavano la fine del mondo da un giorno all'altro; le lettere paoline rivelano chiaramente questa convinzione. Ma la fine del mondo si è via via spostata nel tempo, e oggi non è detto che sia molto più vicina di quanto non lo fosse ai tempi di Cristo.
Pertanto, il buon cristiano non è colui che vive sulla Terra con un occhio sempre rivolto all'imminente fine del mondo, che annullerà ogni legame terreno; ma, semmai, quello che vive nel presente con lo sguardo rivolto all'eternità, attraverso la propria dimensione quotidiana. La Città terrena non è da disprezzare o da ignorare: sarebbe come voler amare gli altri, senza essere capaci di amare se stessi.
Si può amare veramente la Città celeste solo se si sa amare anche la propria Città terrena. Certo, l'amore per la creatura non è la stessa cosa dell'amore per il Creatore: questo è più grande, più completo, più perfetto di quello; ma non vi è realmente opposizione fra i due. Si ama la Città celeste passando attraverso l'amore per la Città terrena: intendendo quest'ultima, beninteso, non nel senso - agostiniano e pessimistico - di realtà del peccato, ma in quello di realtà concreta, nella quale si manifestano le cose a noi più care: i genitori,  la famiglia, i luoghi dell'infanzia e della vita adulta, tutte le cose e le persone che hanno fatto di noi quello che siamo, e che non potremmo misconoscere, se non macchiandoci della più nera ingratitudine.
È giusto amare queste cose, non di un amore chiuso ed egoistico, ma tuttavia di un amore profondo e intransigente; ed è giusto difendere l'identità della propria cultura, che è fatta anche di paesaggi, di lingua, di storia, arte e tradizioni. Questo non significa disprezzare o rifiutare la cultura e le tradizioni dell'altro: significa pretendere che ciascuno sia padrone di coltivare le proprie, ed esigerne il rispetto, fin tanto che vive a casa sua.
Qualcuno, nella nostra classe dirigente, dovrebbe avere il coraggio di cominciare a parlare di blocco dei nuovi arrivi di immigrati, di rimpatrio agevolato per quanti lo desiderano, di progetti di assistenza ai Paesi poveri nella precisa prospettiva di legare quelle popolazioni alla propria terra, con ragionevoli prospettive per il loro futuro.
La politica del: «Venite avanti, c'è posto per tutti; basta stringersi un poco», è, al tempo stesso, irresponsabile e suicida.
Il popolo italiano non è mai stato razzista; è sempre stato accogliente e generoso.
Tuttavia, se c'è qualcosa che potrebbe farlo cambiare, crediamo sia proprio la demagogia sfrenata di un cosmopolitismo a senso unico, che, per rispettare le culture altrui importate in Italia, gli chiedesse di assistere rassegnato alla distruzione della sua identità culturale e spirituale.
La nostra classe dirigente farebbe bene a riflettere su questo, prima che le cose vadano troppo oltre e che si inneschino, per davvero, rigurgiti razzisti: reazione fin troppo prevedibile di un popolo esasperato dalla incosciente indifferenza dei suoi rappresentanti istituzionali.