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Giubbe Rosse è quella cosa…

di Luca Leonello Rimbotti - 15/12/2009


 

 

giubbe_fondo magazineEra dai tempi dei neoplatonici protetti da Lorenzo il Magnifico che non si vedevano tante intelligenze riunite in un unico punto. Ma, in quel caso, si era trattato di una cultura alta, anzi troppo alta, roba da eruditi lontani dal popolo. Ci volle il “Caffè letterario delle Giubbe Rosse”, nei primi del Novecento, e ancora a Firenze, per fare come i filosofi aristotelici, che parlavano di metafisica nelle piazze del mercato. Quella futurista forgiata alle Giubbe Rosse fu l’idea di rovesciare il gretto provincialismo liberale e di aprire le porte al nuovo, al mai sentito che veniva dalle viscere della cultura popolare. Un’avanguardia europea di gran classe, ma un’avanguardia che muoveva da un istinto diffuso in basso più che in alto. E con modi inauditi: il messaggio culturale veniva caricato di valenze aggressive, attraverso metodi di comunicazione modernissimi e un decisionismo spettacolare, rivendicato a muso duro. Alle Giubbe Rosse non potevi trovare l’intellettuale ben retribuito e sussiegoso, il borghese inserito e cattedratico. Quando, a partire dal 1913, quel tranquillo Caffè fondato da birrai tedeschi nel centro di Firenze si trasformò in una polveriera ideologica, le idee giuste già circolavano fuori, all’aperto. Esse fecero irruzione nelle salette interne con la furia di un tornado: il Futurismo, lanciato da Marinetti su un foglio parigino nel 1909, esplose tra i tavolini delle Giubbe Rosse come la prima rivoluzione italiana, anzi europea, del Novecento.

In quei pochi metri quadrati era un viavai di tempre fenomenali. Il convinto e solido intellettuale – ma giovane, sanguigno, temerario, e sempre molto incazzato con l’Italia moderata e liberale dell’epoca – e allo stesso tempo il poeta strampalato, piovuto dalla campagna poverissimo, ma ricolmo di idee folgoranti. Prezzolini, Papini, Soffici, Palazzeschi, Marinetti, persino il celebre poeta tedesco Theodor Däubler: il meglio della cultura d’avanguardia, il nòcciolo duro della Rivoluzione Conservatrice italiana e non solo italiana di quegli anni. Ma ci potevi trovare anche qualcosa di totalmente anti-sistema come Dino Campana, il “poeta pazzo” di Marradi. Forse era pazzo per davvero, ma di quei pazzi geniali con i quali si potrebbe rovesciare una società marcia. Un giorno del 1914 se ne venne al già famoso Caffè con una paccata di libriccini spiegazzati e mal pubblicati: erano i suoi Canti Orfici. Oggi considerati un capolavoro di poesia simbolista novecentesca, ma allora? Lo sconosciuto, coi vestiti stracciati e lo sguardo allampanato, era venuto a piedi dal suo paese, in cima agli Appennini, sulla strada per Faenza, passando per i campi e camminando notte e giorno…Osservava i famosi personaggi che discutevano, li fermava, regalava copie del suo scritto…ma a uno levava una pagina, a un altro strappava interi capitoli, a qualcuno dava solo l’indice…a seconda che gli sembrassero capire i suoi versi oppure no…a Marinetti in persona disse che dalla sua copia aveva strappato delle pagine perché sentiva che non ci avrebbe capito nulla…Non fu preso per matto, anzi, Papini e Soffici ne intuirono il valore…gli aprirono le pagine di “Lacerba”…Di sicuro Campana era tutto fuori che un ruffiano: aveva dedicato i suoi canti visionari e nietzscheani nientemeno che «a Guglielmo II Imperatore dei Germani»…e in pieno 1914…dite voi, meno “corretto” di così…Fatto sta che oggi, chiunque studi la poesia italiana del Novecento, non può prescindere da Campana.

Si può ben dire che negli spazi stretti delle Giubbe Rosse la cultura italiana compì la sua rivoluzione, e non solo letteraria. Ma politica, ideologica. Dentro quel Caffè alla viennese trasformato in redazione sovversiva, noi troviamo i semi del Fascismo, del Combattentismo, dell’Idealismo magico, dello Squadrismo popolare e rivoluzionario, del Sindacalismo organico, della pittura “völkisch” post-macchiaiola, dell’avanguardia artistica e letteraria, del romanzo sociale…da Rosai al Bilenchi giovane, da Federigo Tozzi a Boccioni e Carrà fino al poverissimo bolognese Bino Binazzi, con la faccia scolpita che pareva un Giovanni dalle Bande Nere, e poi fino a Arturo Reghini, a Primo Conti…Tutti fuori dal grande giro, quello delle “grandi” case editrici, dei “grandi” premi artistici e letterari, ma tutti al centro della cultura viva, quella vera. Che sparecchiava la tavola del potere liberale e conservatore per rifare la testa degli Italiani.

Gli anni incendiari delle Giubbe Rosse costruirono qualcosa che non si trova da altre parti, che non hanno avuto neppure la Parigi impressionista o la Berlino espressionista. Una cultura rivoluzionaria e tradizionale allo stesso tempo, pronta a uscire dalle pagine dei libri per diventare idea in azione, ideologia, fatti concreti. Gente che sceglieva, o di qua o di là, niente finte, nessuna ipocrisia: per dire, quasi tutti i frequentatori del caffè, in blocco accesi interventisti, nel ’15 partirono volontari in guerra…e in parecchi non tornarono. In una parola, il contrario esatto degli intellettuali “democratici” di allora come di oggi: aggrappati al potere, filistei, molto spesso codardi ad alta rendita commerciale. Alberto Viviani, lo “storico” delle Giubbe Rosse, vicino a Marinetti a Venezia nel 1944 poco prima che il fondatore del Futurismo morisse, ha scritto che da quel laboratorio in ebollizione uscì un arditismo ideale mai prima visto, qualcosa che significò «la più nuova e robusta esplosione dello spirito italiano di quei tempi».

«Giubbe Rosse è quella cosa / che ci vanno i futuristi…», cantava la strofetta in voga…e i futuristi sono stati l’anima di un modo nuovo di fare cultura: con la passione del rivoluzionario. Negli anni eroici delle Giubbe Rosse la cultura non era lo squallore del “politicamente corretto”. Era il confronto faccia a faccia, il conflitto a voce grossa, ma onesto. I ceffoni e le seggiolate che volarono alle Giubbe Rosse nel memorabile scontro tra i “milanesi” futuristi Carrà, Boccioni e Marinetti e i “vociani” fiorentini guidati da Soffici, erano citazioni di grande cultura, che oggi ci sogniamo…Quando poi, nel novembre del ’13, l’ennesima “serata futurista” finì a insulti e a uova marce, il Futurismo aveva gettato le basi per un’inedita concezione ideologica: l’interventismo culturale. Proprio quello che, in seguito, Bottai cercherà di organizzare politicamente. Erano scontri che non procuravano fratture, ma nuovo comunitarismo. Poiché il fondo era comune: italianità, rinnovamento, coraggio, esaltazione della giovinezza, fanatica fiducia nel primato della nostra civiltà, volontà di edificare un Italiano nuovo, rifatto da capo a piedi…ricorda nulla tutto questo? Viviani, presente alla “serata” del ’13, la descrisse come una festa: «Un’ondata canora, stravolgente di giovinezza e di entusiasmo, si abbatté nelle sale delle Giubbe Rosse». Per trent’anni, il glorioso Caffè fu un perno del continuo rinnovarsi della cultura italiana, tra riviste, correnti, avanguardie: e tale rimase fino alla spaccatura della guerra. Poi fu subito “democrazia”. E con questa suonò l’ora degli opportunisti privi di genio, ma di sicuro successo.

 

 

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