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Il segno della protezione divina è che le cose vadano bene nella vita?

di Francesco Lamendola - 18/12/2009

 

La parola decisiva sul senso della protezione divina, nella prospettiva del giudaismo, è contenuta nel Libro di Giobbe. Il protagonista, uomo giusto e pio, è colpito da una serie di terribili sventure e i suoi amici, anziché consolarlo, lo invitano al pentimento, convinti che esse siano il castigo per qualche sua colpa. Invano egli protesta la propria innocenza; nel corso di un dialogo sempre più drammatico, Dio stesso interviene per rimproverare a Giobbe le sue affermazioni di perfetta innocenza. Vi è comunque un lieto fine perché, al termine della storia, Giobbe, pentito della propria superbia e avendo chiesto perdono a Dio, ritrova prosperità e benessere (anche se non si vede in quale modo abbia potuto sentirsi risarcito per i suoi cari che erano morti).
Di solito gli esegeti cristiani di questo libro puntano sul concetto della piccolezza e imperfezione dell’uomo davanti a Dio e sulla assoluta gratuità dei doni divini; ma, dal punto di vista giudaico, il punto chiave è un altro, e cioè la ferma convinzione che le sofferenze del giusto saranno ricompensate in questo mondo, e che in questo mondo i malvagi saranno puniti dalla giustizia divina.
Eliu, il più fiero contraddittore fra gli interlocutori di Giobbe, a un certo punto esclama (Giobbe, 36, 5-12):

«Ecco, Dio è grande e non si ritratta,
egli è grande per fermezza di cuore.
non lascia viverre l’iniquo
e rende giustizia ai miseri.
Non toglie gli occhi dai giusti,
li fa sedere in trono con i re
e li esalta per sempre.
Se talvolta essi sono avvinti in catene,
se sono stretti dai lacci dell’afflizione,
fa loro conoscere le opere loro
e i loro falli, perché s’insuperbirono;
apre loro gli orecchi per la correzione
e ordina che si allontanino dall’iniquità.
Se ascoltano e si sottomettono,
chiuderanno i loro giorni ne benessere
e i loro anni nelle delizie.
Ma se non vorranno ascoltare,
di morte violenta periranno,
spireranno senza neppure saperlo.»

Come si vede, si tratta di una concezione estremamente materialistica e rozzamente antropomorfica della giustizia di Dio: premi e castighi sono distribuiti a piene mani in questo mondo; e la cosa è abbastanza naturale, se si tiene conto che gli Ebrei non credevano alla vita dell’anima dopo la morte, bensì alla risurrezione dei morti nel giorno del Giudizio.
Eppure, l’evidenza dei fatti ci mostra quanto spesso i malvagi trionfino e gli innocenti siano sommersi dalle sofferenze: i condannati al rogo non vengono salvati da un Angelo, come i tre giovani ebrei entro la fornace, nel Libro di Daniele; e il giusto che ha perduto la vista e ogni conforto dalla vita, non viene soccorso e guarito con un intervento soprannaturale, come nel Libro di Tobia.
Il cristianesimo ha elaborato una concezione totalmente diversa del rapporto fra le azioni umane e la giustizia divina, completamente spirituale: non promette premi ai giusti né castighi ai malvagi IN QUESTA VITA. Al contrario, promette dolore e persecuzioni a chi vuol seguire la via di Cristo; solo che non interpreta la sofferenza come un segno del corruccio divino, ma, al contrario, esattamente all’opposto, come un segno della sua predilezione.
Questo è il paradosso del cristianesimo, così acutamente analizzato da Soren Kierkegaard in alcune delle pagine più alte che siano state scritte sull’argomento. Un paradosso che è stato molto spesso dimenticato, specialmente in area protestante; perché Lutero, Zwingli e Calvino, con il loro continuo richiamo alla lettura diretta della Bibbia, hanno favorito, più o meno consapevolmente, un ritorno alla teologia veterotestamentaria, cioè giudaica, mettendo in ombra quello che vi è di più specifico nel messaggio cristiano: la nozione di Dio essenzialmente come Amore infinito, piuttosto che come Giustizia inesorabile.
Il ritorno allo spirito del Vecchio Testamento, specialmente nelle confessioni protestanti non conformiste (come i famosi Padri pellegrini che sbarcarono in America nel 1620), nasce anche da una identificazione, certo consapevole, dei protestanti con gli ebrei: entrambi popolo eletto; entrambi convinti che tutto il resto dell’umanità verrà punito per la sua miscredenza; entrambi più che sicuri che Dio combatte per loro, premiando le loro buone azioni e abbattendo i loro nemici già in questa vita, per mostrare la sua potenza e la sua predilezione verso di essi.
Tanto più notevole è il fatto che proprio un filosofo di cultura protestante, come Kierkegaard, abbia saputo cogliere questo «passo indietro» della teologia cristiana moderna rispetto alla rivoluzione copernicana, se così possiamo chiamarla, introdotta da Cristo rispetto alla concezione giudaica, e abbia saputo denunciare con franchezza l’errore di Lutero.
Né si tratta di una questione marginale per il cristianesimo, poiché essa non coinvolge solo la natura del rapporto fra uomo e Dio, ma anche la natura dell’Incarnazione, che, del cristianesimo, è il tratto più specifico e originale rispetto a tutte le altre religioni. Alla luce della  concezione veterotestamentaria e anche di quella protestante, Cristo si è fatto uomo, è morto e risorto per riscattare gli uomini davanti a Dio, offrendosi come olocausto innocente al posto dei colpevoli. Ciò significa identificare Dio con il Yahvé giustiziere implacabile, ma freddamente calcolatore: non importa chi si offre in sacrificio, purché il debito sia ripagato. Invece, nella autentica prospettiva cristiana, l’incarnazione e il sacrificio di Cristo sono eventi liberi e assolutamente gratuiti, non condizionati - per così dire - dalla collera divina; così come gratuito è il dono della grazia.
Nei suoi «Diari» (a cura di Cornelio Fabro, Brescia, Morcelliana, 1980, vol. 8, p. 137,  numero 3242 del 1850), Kierkegaard osserva:

«Anche Lutero non connette bene i pensieri esistenziali, in modo da mantenere dappertutto il medesimo pensiero; anch’egli fa della retorica.  Quando vuole esortare i bambini all’obbedienza verso i genitori, i servi alla fedeltà nelle umili azioni, i poveri al timore di Dio ecc, egli dice che per questo si vede anche (quando infatti gli interessati sono gente pia)  come Dio di un povero diavolo possa fare un grande dottore, di un umile domestico un uomo potente, un ricco e cose simili. Questa è pietà giudaica: pensare cioè che il segno della protezione divina è che le cose vadano bene nella vita.
In altri testi poi quando deve parlare del vero cristiano, Lutero cambia stile: dice che il vero cristiano deve in questo mondo soffrire ogni genere di miseria e persecuzione ecc. […]
E come in questo, così in molti altri punti nell’ambito esistenziale, Lutero si contraddice, quando si cerca di mettere insieme le sue affermazioni.»

Ora, molti cristiani tendono a confondere la protezione divina con la grazia; pensano, cioè, che il buon esito delle vicende terrene sia la rappresentazione tangibile del favore divino. Questa, in effetti, è la teologia di Calvino, e lo è, tuttora, di gran parte del protestantesimo anglosassone, specialmente americano; ma, a ben guardare, si tratta di cristianesimo o di giudaismo?
La grazia, in realtà, non ha nulla a che fare con le vicende esteriori degli esseri umani: decidere in base ad esse chi gode della grazia divina e chi no, significa uscire dal solco del cristianesimo, e tornare al giudaismo.
La grazia, secondo la teologia classica, è (Giacomo Grasso in «Dizionario dei temi della fede», Torino, Società Editrice Internazionale, 1977, p. 156): «la partecipazione creata agli uomini, e agli angeli, della stessa vita increata di Dio». Dunque, mediante la grazia gli esseri umani entrano in una misteriosa relazione intima con Dio, un Dio che si è fatto uomo proprio per mostrare come questa relazione intima sia possibile non per merito dell’uomo (la grazia è un dono assolutamente gratuito), ma per effetto dell’infinito amore di Dio.
In altre parole, il concetto cristiano della grazia supera radicalmente il concetto giudaico della legge. Per l’ebreo, l’uomo si salva osservando scrupolosamente la legge; per il cristiano, l’uomo non si salva con l’osservanza della legge, ma per opera dell’Amore divino, che getta un ponte sull’abisso che lo separa dal suo Creatore. Lutero aveva ragione di insistere sul fatto che non c’è salvezza per mezzo delle buone opere, ma solo con la fede; però l’aver negato ad esse ogni efficacia significò, di fatto, far rientrare dalla finestra il concetto che era stato cacciato dalla porta: perché l’ansia per la salvezza spinse i protestanti a cercare nel successo terreno gli indizi di una probabile salvezza eterna.
Così il protestantesimo, e specialmente il calvinismo, sono tornati a una concezione puramente giudaica del rapporto fra l’uomo e Dio: l’uomo è talmente piccolo e insignificante, talmente peccatore e malvagio, che mai potrebbe salvarsi per merito proprio; egli è un niente davanti a Dio; però, moltiplicando le opere buone (ossia l’osservanza della legge), pur senza osare pretenderlo, egli può sperare che troverà il successo nella vita terrena, e che questo successo sarà una specie di garanzia che la sua anima sarà salvata.
Si torna, così, alla concezione legalistica del rapporto con Dio, si torna al mercanteggiamento: in cambio di una vita pia, la salvezza eterna.
Eppure, Cristo non ha mai detto che i suoi seguaci riceveranno il premio in questa vita; al contrario, ha assicurato loro che troveranno dolori e tribolazioni, che saranno perseguitati, che soffriranno le sue stesse pene, «perché non c‘è servo superiore al padrone».
D’altra parte, proprio nella sequela della Croce, il cristiano ha motivo di riconoscere un segno inequivocabile della predilezione divina: perché Dio molto ama coloro che sottopone alle più dure prove. Il cristiano sa che esse sono occasione di perfezionamento spirituale e le accoglie non con animo offeso, come Giobbe, o con spirito di rivolta, e neppure con rassegnazione, bensì come strumento per avanzare e maturare nel rapporto con Dio. In questo, se si vuole, consiste il cosiddetto pessimismo antropologico cristiano (che è tale solo se guardato da un unico lato): nella consapevolezza che solo la sofferenza ha il potere, se accettata con la giusta disposizione d’animo, di far evolvere spiritualmente gli esseri umani; perché nel benessere essi non imparano nulla.
Tutto ciò è in stridente contrasto con la mentalità laica e materialista oggi largamente diffusa, per cui aveva ragione Kierkegaard di insistere sulla irriducibilità del cristiano ai parametri di giudizio di questo mondo. In fondo, il mondo moderno è tornato ad una visione pagana e giudaica della vita (che sono molto più simili di quanto non si creda a prima vista): chi gode in questa vita, vuol dire che è prediletto dagli dei, chi soffre significa che è stato abbandonato da essi; tutto si decide qui e ora, in questa vita terrena.
Per il cristiano, il concetto della predilezione divina è molto più complesso e profondo. Innanzitutto, Dio fa sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti, e così la pioggia: vale a dire che Egli non predilige nessuno a priori (e nessuno popolo: al contrario di quel che pensa il giudaismo); ma, semmai, offre sostegno a quanti rispondono alla sua chiamata, sforzandosi di venirgli incontro, come Egli viene incontro a tutti gli uomini. In secondo luogo, per il cristiano il concetto di protezione divina non si traduce in eventi esteriori che premiano la bontà degli uni e che puniscono la malvagità degli altri, ma nel sostenere l’anima di coloro che lottano per realizzare la propria evoluzione spirituale.
Da un punto di vista umano, la protezione divina consisterebbe, come dice Kierkegaard (riecheggiando Giobbe) nel trasformare un medicante in un principe; ma dal punto di vista cristiano, che assume una prospettiva trascendente, la protezione divina consiste ne guidare l’anima verso la verità: e la verità è l’Amore.
E nessun sacrificio materiale appare al cristiano troppo duro, pur di raggiungere un simile traguardo; perché, come dice il Vangelo di Giovanni, il cristiano non è un cittadino di questo mondo. Anche S. Agostino era di questa opinione; non S. Tommaso, che cercò una conciliazione fra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale, fra la dimensione terrena e quella celeste.
Resta indubitabile, comunque, che la cittadinanza terrena del cristiano è solamente temporanea, oltre che condizionata; mentre quella celeste è permanente e assoluta. Perciò, attendersi il successo nella vita terrena quale segno della protezione divina, non è un atteggiamento che si possa conciliare con la prospettiva cristiana: sarebbe - per dirla con Kierkegaard - come eliminare la dimensione dello scandalo, lo scandalo della Croce, per annacquare e stravolgere l’elemento più radicale del cristianesimo stesso, in omaggio al sentire del mondo.