Ultimamente, in particolare dalla visita di Barack Obama in poi, si sente spesso parlare del Ghana come buon esempio e nuova speranza per i Paesi poveri e per chi crede che questi possano farcela da soli. E devo dire che è davvero rincuorante vedere in molti giovani ghaniani la forza e la speranza di chi vuole costruire un futuro migliore per il proprio Paese e per l’Africa.

Ci sono però due problemi. Il primo è che nel discorso di Obama manca un pezzo, quel pezzo che accusa la politica di potenza e l’anarchia e l’impunità che regnano nelle relazioni internazionali, che non nasconde le responsabilità delle élite politiche e delle lobbies economiche dei Paesi ricchi e che non svela cosa sta dietro alla cooperazione allo sviluppo. E allora torna il fatto che la maggior parte dei Paesi poveri sarà impossibilitata a cambiare strada finché non lo farà quella ricca, fino a quando questa non deciderà di compiere su sé stessa un aggiustamento strutturale, i Paesi africani non saranno più oppressi dal debito e la loro indipendenza non sarà più fittizia. E tornano anche le famose 8 R, che per i Paesi poveri sono: Restituzione del debito economico e culturale che i Paesi ricchi hanno nei loro confronti, in modo che questi possano Rompere con la dipendenza altrettanto economica e culturale, Rinnovare le loro società, Ritrovando il loro passato e la loro autonomia perduta e Recuperando la propria identità, i propri valori e saperi e le proprie tecniche, Riconcettualizzando, Ristrutturando e Rilocalizzando le proprie società.
Il secondo problema riguarda i contenuti dello sviluppo che il Ghana sta provando a perseguire, perché ricordiamoci che nei Paesi poveri non si parla di decrescita, ma di svilupparsi e crescere. E i progetti alternativi restano di nicchia, come d’altra parte anche da noi. Penso quindi che sia importante che queste realtà ‘facciano rete’ tra loro, cooperando in modo paritario e imparando reciprocamente.

In questa occasione, voglio presentarne una interessante, KITA (Kumasi Institute of Tropical Agriculture, www.kita-ghana.org), dove ho avuto il piacere di lavorare da settembre a novembre.
KITA è allo stesso tempo un’istituzione che si occupa di formazione nel campo dell’agricoltura tropicale e di sviluppo rurale. La sua visione dello sviluppo, locale, endogeno, autonomo, veramente sostenibile, che non rompe col passato e che richiama lo slogan ‘small is beautiful’, è lontana da quella classica, anche se non c’è alcuno specifico richiamo a nessun’altra visione o teoria, tanto meno a quelle post-sviluppiste. D’altra parte, mi sembra che fino ad ora molti Paesi poveri siano rimasti impermeabili a queste ultime, che si trovano ancora in una fase embrionale.
Ma non per questo i suoi obiettivi sono meno chiari, tutt’altro, KITA punta a creare dei sistemi fondati sul modello cosiddetto Modular Organic Regenerative Environment farming che dovrà garantire ai contadini l’autosufficienza alimentare e un sustainable self-reliant, sufficient income. Modular significa in pratica che si tratta di un sistema di agroforestry, in cui quindi sono integrati diversi moduli appartenenti alle tre categorie di ortaggi, animali e alberi che si sostengono reciprocamente (ad esempio, molto semplicemente, piante per dar da mangiare agli animali e letame prodotto dagli animali per nutrire le piante). In questo modo si riducono gli sprechi, l’impronta ecologica e gli input e l’energia necessari e si aumenta l’efficienza. A questo si aggiunge la possibilità di usare risorse rinnovabili di energia e l’utilizzazione combinata di tecniche tradizionali e tecniche sostenibili moderne (ad esempio per quanto riguarda l’irrigazione). Organic significa che non si utilizza niente di chimico né di geneticamente modificato. Regenerative è il termine preferito a sostenibile e indica come questo sistema, non solo non arrechi danno all’ambiente, ma sia anche in grado di rigenerarlo nel caso sia danneggiato (un esempio è l’utilizzazione di alberi che hanno la capacità di fornire azoto al terreno, aumentandone la fertilità). In poche parole si tratta si un approccio sistematico che mima i comportamenti naturali, e quindi di permacultura.

Un accento importante è posto sulla sicurezza alimentare, che in questo caso non è opposta all’agrobusiness, inteso nel senso di lavorare quanto si è prodotto e dargli un valore aggiunto per poi scambiarlo. Cosa tutt’altro che insensata in un Paese essenzialmente agricolo in cui la maggior parte dei contadini pratica un’agricoltura di sussistenza o vende i propri prodotti grezzi e dove la maggior parte dei prodotti manifatturieri proviene da Cina e India.
La priorità è allora che ogni famiglia contadina goda della sicurezza alimentare (disponibilità e accesso costanti a cibo sufficiente in quantità e qualità) ma, almeno per quelle residenti in aree peri-urbane e non profondamente rurali, l’obiettivo è anche di ottenere un piccolo surplus commercializzabile, che permetterebbe un netto miglioramento nella loro vita, permettendogli di risparmiare per necessità future, di investire nella loro attività e nell’educazione dei propri figli e di comprare quello di cui hanno bisogno e che non producono. In modo concatenato questo dovrebbe permettere ai contadini di disegnare i propri piani di sviluppo a livello di comunità e fondati sulle risorse disponibili.
Al di là di ogni impellenza teorica, credo che questa visione intersechi in modo decisamente armonico spinte idealistiche e necessità di realismo.

Ovviamente la strada da percorrere è ancora lunga e il lavoro di KITA non è esente da errori o carenze. Ad esempio, ho riscontrato come per le comunità con cui KITA lavora non sia chiaro questo progetto nella sua interezza e che quindi non vi aderiscano con consapevolezza, ma come farebbero con qualsiasi altro progetti valido e persuasivo. Non dico che questo sia facile, soprattutto in un Paese povero che sogna lo Sviluppo e in cui non esiste una capillare società civile che discuta di problemi ambientali. Tuttavia, i dirigenti di KITA si sono trovati d’accordo sia nel rilevare questa carenza sia con la necessità di porvi rimedio tramite il confronto con le comunità, la presenza costante sul campo e la formazione.

La principale sfida per l’avvenire di KITA in quanto istituto di formazione è di essere presente in modo regolare e sistematico a tutti i livelli (a partire dai contadini analfabeti, passando per le scuole medie e superiori fino alla formazione terziaria). Per quanto riguarda lo sviluppo rurale, vuole riuscire ad applicare il sistema MORE nelle comunità con cui collabora e sostenerle grazie ad un progetto di microcredito di cui ha iniziato la progettazione.

In conclusione, vi invito a dare un’occhiata al sito di KITA, a essere curiosi di ogni altra esperienza simile e se ne avete l’occasione di andare a visitarle.
KITA è disponibile ad accogliere volontari e a cooperare con altre ONG o CBO con obiettivi simili e offre la possibilità di soggiorni di ecoturismo per persone o gruppi interessati alla permacultura e a tecniche tradizionali di fare agricoltura (teoria e pratica).
Le principali forme di cooperazione che KITA prevede sono cooperazione tecnica (formazione), assistenza tecnica (finanziamenti), progetti congiunti e collaborazioni con istituti di formazione per programmi di scambio e certificazioni gemellate. L’assunto di base è che entrambe le parti concorrano in questo modo a perseguire i loro obiettivi e che si tratti di un vero scambio che arricchisca entrambe.
Alcuni dei progetti per cui KITA sta cercando collaborazione sono: l’approfondimento e la maggiore diffusione della permacultura e di nuove tecniche ‘sostenibili’, l’avvio di un progetto di microfinanza per le comunità circostanti e per i propri studenti diplomati, più in generale l’approfondimento dell’aspetto relativo a rural development e community extension, la creazione di un orto di piante medicinali, di un laboratorio informatico in cui dare corsi ai propri studenti e a quelli delle scuole dei villaggi circostanti e di un laboratorio di ricerca insieme all’ampliamento della libreria e l’attivazione di corsi on-line.