Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Nel bene o nel male, Copenhagen ha eroso il moloch della crescita

Nel bene o nel male, Copenhagen ha eroso il moloch della crescita

di Gianfranco Bologna - 18/12/2009

 

 

Siamo al rush finale della 15° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sui cambiamenti climatici di Copenaghen e ancora incombe la sensazione di un profondo fallimento rispetto alla concretezza, agli impegni ed all'urgenza che i gravissimi problemi socio-ambientali in cui ci troviamo, richiedono. Credo però che in un momento così complesso mirato a intervenire seriamente su di un problema cruciale che mette inevitabilmente in discussione quello "stile di vita statunitense" che Bush senior (non parliamo poi di Bush junior !) non ha mai voluto mettere in discussione, non possiamo evitare di cercare di vedere anche il "bicchiere mezzo pieno".

L'inevitabile "erosione" culturale del modello dominante della crescita continua, materiale e quantitativa, e della globalizzazione degli stili di vita consumistici sta progressivamente incrementando anche negli ambienti economici di formazione classica. La palese dimostrazione scientifica dell'impossibilità di far vivere l'umanità al di fuori dei limiti biofisici del nostro affascinante pianeta sembra ormai molto più diffusa di qualche decennio fa, quando straordinari pionieri iniziarono a porre con forza questo problema centrale per tutti noi.

Le drammatiche foto satellitari di tante aree della Terra riprese nei primi anni Settanta confrontate con quelle odierne, ci danno visivamente la chiara idea dell'insostenibilità di questo tipo di sviluppo.
Seguendo, passo dopo passo, la Conferenza, mi sono venute diverse volte in mente le riflessioni di diversi importanti studiosi ed analisti delle problematiche ambientali sulla nostra continua abitudine all'inazione. In particolare ho ricordato quanto scritto dal noto giornalista ed analista ambientale britannico, George Monbiot, nel suo libro "Calore !" (Longanesi, 2007).

L'obiettivo di questo libro è quello di dimostrare la fattibilità tecnica della riduzione delle emissioni di gas climalteranti di ben il 90% entro il 2030. Monbiot scrive: «Ho tentato di dimostrare che la riduzione necessaria delle emissioni di carbonio è - per quanto difficile - tecnicamente ed economicamente possibile. Non ho dimostrato che è politicamente possibile. E c'è un motivo per questa scelta. Non tocca a me farla. Tocca a voi. Chi di noi sta già partecipando alle campagne per la riduzione degli impatti dei cambiamenti climatici non può farlo da solo. Considerando che si tratta del pericolo più grande che il mondo si trova oggi ad affrontare, siamo sorprendentemente pochi.

[...] C'è una ragione ovvia di tutto ciò [...] combattendo i cambiamenti climatici, dobbiamo combattere non solo le aziende petrolifere, le linee aeree e i governi del mondo ricco; dobbiamo anche combattere contro noi stessi. Il problema non è che non sono stati fatti progressi significativi in occasione delle conferenze internazionali sul clima. Il problema è che non abbiamo voluto che ciò accadesse. [...] Se quei governi che hanno espresso un impegno a bloccare i cambiamenti climatici hanno scoperto che i loro sforzi vengono vanificati, il motivo è che in parte desideravano che lo fossero. Sanno che nella mente dei loro elettori c'è una voce piccola ma insistente che chiede loro sia di provare che di fallire. Sanno che se sfortunatamente riuscissero, la nostra vita dovrebbe cambiare. Sanno che possiamo contemplare la trasformazione dell'esistenza di chiunque ma non della nostra. Così recitano quel copione che abbiamo tutti scritto di nascosto. Faranno discorsi preoccupati sulla minaccia per il pianeta e sulla necessità di agire. Annunceranno che questo problema è di tale importanza da superare qualsiasi tradizionale divisione politica e che richiede un consenso bipartisan. Inciteranno tutti a darsi da fare per affrontare l'enormità della minaccia. E poi scopriranno, con grande delusione, che non stati fatti progressi, che questi ultimi sono in realtà assai difficili da ottenere, e che la decisione sul da farsi dovrà ancora una volta essere posticipata.

[...] I governi continueranno a seguire questa strada dell'inazione - quali che siano gli impatti umani - finché rimarrà politicamente meno costosa della strada alternativa. Il compito degli attivisti che si oppongono ai cambiamenti climatici è quello di rendere la strada dell'inazione il più costosa possibile. Ciò significa abbandonare l'abitudine mentale in cui quasi tutti noi siamo precipitati negli ultimi dieci anni o giù di lì: credere che qualcun'altro lo farà per noi. [...] Perché la campagna contro i cambiamenti climatici è strana. A differenza di quasi tutte le proteste pubbliche che l'hanno preceduta, si tratta di una campagna non per l'abbondanza ma per l'austerità. È una campagna che non mira a ottenere maggiore libertà ma meno libertà. E la cosa più strana di tutte è che si tratta di una campagna non solo contro altre persone, ma anche contro noi stessi».

L'avviare concretamente un percorso verso un'economia "de carbonizzata" che faccia a meno dell'utilizzo dei combustibili fossili, base essenziale dello stile di vita consumistico che si è diffuso, almeno culturalmente, su tutto il pianeta, costituisce una sfida epocale e straordinaria che richiederebbe una mobilitazione equivalente a quella che è stata necessaria per sconfiggere il nazismo nella seconda guerra mondiale.

Per avere questa mobilitazione ci vuole capacità di futuro, innovazione, visione, coraggio di cambiare strada, qualità non proprio comuni ai leader politici ed economici delle nostre società. E proprio riferendoci a Copenaghen, spesso si dimentica di ricordare cosa hanno significato, per il mondo intero, gli otto anni consecutivi della precedente amministrazione statunitense, guidata da George W. Bush. Credo che sarebbe molto utile analizzare gli effetti del drammatico costo dell'inazione di quella amministrazione su tutte le problematiche ambientali (ben condita poi dal trionfo della peggiore industria professionale del negazionismo scientifico degli stessi problemi ambientali, a cominciare da quelli climatici).

Il mondo ha bisogno di personalità capaci di visione; il tempo gioca a nostro sfavore e, se non agiamo subito, potremmo presto avere brutte sorprese.