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L'arca del mondo

di Luisa Bonesio - 08/04/2006

Fonte: geofilosofia.it

 

 

 


Quando la modernità inventò il paesaggio montano, le Alpi, che erano state fin dalla preistoria luogo di transito e di incontro di mondi diversi (quello “nordico” e quello “mediterraneo”, ma anche quello delle pianure orientali dell’Europa), apparvero all’immaginazione artistica e alla sensibilità estetica un mondo inospite, severo se non terribile, la cui verticalità assurgeva a una sorta di sublime iniziazione e veniva codificata nella cifra dell’inaccessibilità. Allo sguardo della cultura urbana non appariva rilevante la precoce antropizzazione delle regioni alpine, perché gli “indigeni” erano, nella loro presunta selvatichezza, associati alternativamente e in modo complementare alla rozzezza o alla probità primordiale dei costumi: così, una caratteristica naturale dello spazio - l’impervietà delle Alpi - si prestava ad essere tradotta in attributo temporale, la primordialità, cifra di una radicale soluzione di continuità rispetto al mondo urbanizzato. Una sorta di mineralizzazione del tempo imputabile alla predominante rocciosità del mondo alpino, alla sua scoscesa spigolosità, barriera reale o immaginaria che si frappone alla curiosità da intellettuali cittadini, costituendosi come la ragione di una presunta autosufficienza o di una totale intransitabilità. Così la pietrosa consistenza delle Alpi diventa l’immagine dell’immobilità, dell’intransitività, dell’impercorribilità, l’imposizione dell’eterna presenza di un luogo, tendenzialmente immutabile: idea che, seducente per l’inclinazione estetica dell’epoca che “scopre” le Alpi, è in realtà persecutoria e insopportabile per la modernità faustiana, divorata dall’ansia di far proprio e uguale a sé ogni angolo della Terra, immettendolo nel ritmo rapinoso e in-consistente dell’oltre. Ma, appunto, potrebbe essere solo un problema di intraducibilità della complessa dimensione alpina per una cultura che, assai sintomaticamente, non smetterà di interrogarsi sui modi per razionalizzare l’impervietà alpina, a partire dal progetto di Viollet-le-Duc di allargare la valle di Chamonix, consequenziale alla scomposizione in figure geometriche calcolabili del paesaggio e alla concezione delle montagne come “corpi di fabbrica” suscettibili di integrazioni e migliorie architettoniche. Nell’utopia architettonica della razionalizzazione dell’informità e inaccessibilità del mondo dei monti, l’impervietà diventa un ostacolo da correggere e possibilmente vincere, nel segno di una transitabilità sempre maggiore, che, immettendo quei luoghi chiusi e appartati nell’universo della circolazione, al contempo ne azzera le potenzialità di rifugio.

Da questo punto di vista, non è rilevante il fatto che le Alpi costituiscano un inevitabile crocevia, una rete di porte e di vie di passaggio segnate da consuetudini secolari di scambio, perché questa loro proprietà non contrasta con la presenza, non meno reale, di luoghi e vallate marginali e isolate; così come non è un’evidenza in grado di scardinare una persistente e significativa convinzione culturale la presenza, in remoti primordi, di un’umanità paleolitica ad alte quote, nel cuore delle Alpi, come le ricerche di Francesco Fedele hanno documentato esemplarmente. Perché le Alpi sono (state) al tempo stesso impervie e ospitali, chiuse e aperte, raggiungibili in ogni tempo ma per un lungo periodo della nostra storia poco visibili, quasi un enorme Monte Analogo protetto dalla sua alterità per cui la cultura rischiava di non avere né occhi né lingua: intraducibile, appunto, nelle sensate rappresentazioni della ragione urbana. Si potrebbe dire, per paradosso: inurbane, e quindi impervie, anziché il contrario. Prodigiosamente stabili rispetto a un mondo in accelerazione, uguali a se stesse pur in contatto con la “storia” fino a qualche decennio fa, ecumene con un proprio radicato, unitario e pur differenziato nomos, montagnosa insularità nel cuore di un’Europa cartesiana e faustiana, le Alpi forse hanno finito con l’apparire agli occhi di quel mondo, che le ignorava e poi le ha assediate, come il rifugio di se stesse, di quell’alterità selvatica e immobile, scandalosamente consistente, la cui temporalità minerale stava infine, anch’essa, al pari delle grandi civiltà trascorse e perciò idealizzate, sgretolandosi, aprendosi alla voracità del mondo. Cattedrali della Terra infine violate da un’umanità curiosa che le disseminava di ossi di pollo e gusci d’uovo - al tempo dell’inorridito Ruskin - o le ammorba democraticamente di ferraglia, cemento e gas venefici ai nostri giorni come il resto del mondo, sembra ormai arduo vederle come luogo di rifugio, oggi che non esiste cosa impervia che non possa essere domata nelle dimensioni dell’artificiale. Eppure, probabilmente è proprio qui, in quest’epoca, che occorre riaprire la questione della montagna, dell’impervio e del rifugio.

Uno spirito - dolce o aspro - distingue in greco il termine per indicare la montagna (oros) e quello che indica il confine (horos): profonda affinità che si dà a vedere nella parola orizzonte, quella linea visiva che chiude in compiutezza percettiva un paesaggio. Le Alpi, confine del paesaggio di pianura e, al loro interno, incastro di molteplici e spesso angusti orizzonti, appaiono come la imponente materializzazione dell’idea di confine, e dunque di cerniera di spazi, articolazione plurima di luoghi spesso remoti e solitari, la cui staticità è potuta divenire oggetto di riprovazione etica e di sospetto ideologico, poiché la rigidità della pietra e la conformazione geografica rinchiudente potrebbero - secondo il filosofo dell’utopia Ernst Bloch - “significare un radicamento particolarmente stagnante, adialettico ed estraneo all’esodo”. Anche in questo caso, non conta che le popolazione alpine abbiano conosciuto la necessità dell’esodo, proprio e altrui, ma che per lungo tempo anche nel tornare siano rimaste fedeli a un amore dei luoghi, che prima ha attirato su di sé la censura progressista in nome dell’emancipazione dalle radici, e poi il ripensamento nostalgico e proiettivo dell’industria culturale e turistica. Le Alpi, in virtù della loro estensione e profondità riccamente articolate e differenziate, hanno potuto costituire l’immagine di terra di nessuno, zona di un’indefinita fascia di frontiera nella quale hanno preso corpo e immagine i fantasmi e le speranze di una cultura proiettata nell’ansia del cambiamento perenne: la selvatichezza, Wildnis reale e simbolica, il pericolo e l’arduo, la pace e la follia, l’originario e il diverso, l’ascesi e il diabolico. Dunque spazio di ricerca, avventura, nascondimento, fuga, isolamento ma anche scambio, incontro, accoglienza, protezione dove anche reietti e “devianti” di ogni specie hanno potuto allontanarsi da un mondo ordinato nelle reti del controllo. Tuttavia la dimensione di rifugio cui l’impervio - e dunque per eccellenza il mondo alpino - sembra vocato può essere perseguita consapevolmente come una delle condizioni (forse quella privilegiata) per l’affermazione, ancor prima che per la difesa (veicolata nella semantica del rifugio), di pluralità e differenzialità di fronte alla logica omologante del nostro tempo. Le culture delle Alpi hanno saputo interpretare una natura difficile e selettiva come spazio di un abitare sapiente, efficace e duraturo, che forse proprio per questi suoi tratti potrebbe apparire come figura di una condensazione essenziale - una sorta di arca che traghetta attraverso i flutti del caos indifferenziante - della libertà di scegliere sempre di nuovo la fedeltà alla propria storia culturale. Da questo punto di vista, allora, l’intransitabilità/intraducibilità (simbolica e pratica), la irredimibile selvatichezza che ha costituito per il mondo alpino la protezione della sua esemplare fisionomia, oggi appare la figura stessa della salvaguardia, lo spazio di un far consapevolmente salve, senza smarrirne la memoria, le peculiarità dei luoghi e degli uomini.

Editoriale del numero 5, dedicato alla «Montagna come luogo dell’impervio»,
della rivista italo-francese L’Alpe.
www.priulieverlucca.it