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Ma dov’è questo altro mondo? Ovvero la poetica della pappa pronta

di Fillipo Schillaci - 23/12/2009

Chi è colpevole dell’omicidio di Chico Mendes e di centinaia di persone uccisi in America del Sud? Secondo Filippo Schillaci ognuno di noi. Se ognuno di noi fosse consapevole della responsabilità individuale nel determinare lo stato delle cose il mondo sarebbe presto un altro.


 

chico mendes
Ogni volta che mi capita di parlare di Decrescita c’è un punto sul quale insisto sempre: la responsabilità individuale nel determinare lo stato delle cose
Ogni volta che mi capita di parlare di Decrescita c’è un punto sul quale insisto sempre: la responsabilità individuale nel determinare lo stato delle cose, quello presente ovviamente ma anche, e soprattutto, quello futuro. Cito spesso l’omicidio di Chico Mendes, in realtà delle centinaia di Chico Mendes uccisi in America del Sud, anno dopo anno, affinché nulla turbi la devastazione, la rapina, lo scempio. Dico sempre, citando questi fatti, che Chico Mendes l’ho ucciso io. E che ciascuno deve sentirsi responsabile, mandante di quell’omicidio in prima persona. Perché? Cosa sappiamo noi di quell’episodio?

 

Sappiamo che fu ucciso da un paio di “possidenti” che vedevano nella sua attività un ostacolo ai loro affari, a volte ci viene detto che erano due grossi allevatori impegnati nella deforestazione dell’Amazzonia per far posto ai pascoli delle loro immense mandrie destinate alla produzione di carne. Ancor più raramente ci vien detto che gran parte di questa carne viene prodotta per l’esportazione. Non ci viene detto altro.

Non ci viene detto soprattutto che gli esecutori materiali sono solo l’ultimo e più debole anellino di una catena che varcando continenti e oceani e passando attraverso i grossi esportatori, la grande distribuzione, il grossista locale e il commerciante al dettaglio, ovvero il macellaio sotto casa nostra, giunge all’ultimo, potentissimo anello che sono io, il cliente di quel macellaio, il mandante finale di quell’omicidio e di infiniti altri, il mandante della distruzione dell’Amazzonia e di infinite altre. Sono io e nessun altro.

Non dico nemmeno “noi” perché il “noi” fa presto a scivolare in un tranquillizzante “loro”: «anche se io cambiassi loro continuerebbero. Dunque a che serve?» Quante volte ho sentito questa frase. Sempre la stessa, un anno dopo l’altro e ormai un decennio dopo l’altro. Sono sempre loro che devono iniziare, qualunque cosa ci sia da fare, sono sempre loro i colpevoli perché non iniziano. Cosa c’entro io? Se anche lo facessi…

Ecco perché pongo sempre l’accento sull’individuo, sulle azioni, sulle scelte di ciascuno. Se il mondo è quello che è, la colpa è mia, no, non “nostra” ma proprio mia. Quando il saggio vede che il discepolo è in errore, dicono i maestri non ricordo più se del Tao o dello Zen, il saggio corregge se stesso. A maggior ragione io dunque, che saggio non sono.

Sono tornato a queste considerazioni alcuni giorni fa quando ho fatto notare a una persona che mi sembra aderire in maniera così totale e acritica al sistema dominante da esser divenuta incapace di concepire l’idea stessa che possa esistere un mondo diverso; diverso e, ovviamente, migliore. «E dov’è questo altro mondo?» sbottò allora questa persona. Già, dov’è? In effetti, non c’è. Ma è proprio questo l’errore: dare per scontato che esso debba esser già stato creato da qualcun altro, come i cibi precucinati che cominciano da qualche tempo a fare la loro desolante comparsa nei supermercati.

L’abitudine alla pappa pronta, al non impegno, alla deresponsabilizzazione assoluta. Come è sempre qualcun altro il colpevole delle storture del mondo, è sempre qualcun altro che deve darsi da fare per raddrizzarle. «Questo “altro mondo” non c’è perché io non l’ho costruito. Perché continuo ogni giorno a non far nulla per costruirlo preferendo a questo impegno una miserabile vita da Fantozzi. Io!». Pensate cosa accadrebbe se appena il 10% degli esseri umani della Terra radicassero questo pensiero nella loro mente. Il mondo farebbe presto a diventare “altro”.