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Il mistero del lago santo

di Riccardo Ianniciello - 24/12/2009

 

Era piacevole guardare mio zio tagliare l’erba: nonostante la sua età, manovrava la falce fienaia con insolita maestria, apparentemente senza sforzo. Con gesti misurati piegava ritmicamente il busto, impugnando saldamente le manete della falce per imprimere, con colpi ben assestati, la forza del taglio e la direzione. La lama fendeva l’erba rasoterra facendola cadere simmetricamente ed aprendo nell’ondeggiante mare verde, spazi sempre più ampi e profondi. Al contrario io, mettevo troppa foga nei miei colpi e la lama prendeva talvolta una direzione e un’inclinazione indesiderata col risultato di ottenere un taglio impreciso e brutto a vedersi.
 I miei due cugini sembravano essere nati con la falce, sebbene il maggiore Aldo, dopo un po’ di lavoro di solito iniziava a mostrare segni di insofferenza, lamentandosi del caldo, degli insetti, magari della pioggia che sembrava sopraggiungere. Insomma c’era sempre qualcosa che non andava per il verso giusto! Ivan, l’altro fratello, era amante della semplicità e della vita all’aria aperta e  sopportava con stoicismo  il duro lavoro dei campi.
   Una volta tagliata l’erba, con il rastrello la riunivamo in antane  per farla mantenere tiepida durante la notte. La mattina seguente la rivoltavamo e la spargevamo per farla seccare al calore del sole: così per diversi giorni fino a completa essiccazione. Il fieno poi lo raccoglievamo in teli di canapa per portarlo con il carro al fienile, giù a valle.
  Il prato era a forma di fagiolo, grande circa tre ettari e si trovava a più di mille metri di altezza: formava un’ampia solitaria radura, una conca naturale circondata da fitti boschi e da alte cime di montagne.
  Lo zio quel prato l’aveva fortemente voluto: i paesani di Cembra, mostrarono grande perplessità e usarono parole sarcastiche quando lui rivelò loro l’intenzione di comprare quel pascolo lassù, sperduto tra i monti. Qualcuno disse: - E’ un prato buono per le marmotte! Se riesci a farci uno sfalcio all’anno devi ritenerti fortunato!
  Per mio zio, quel posto, non solo era un buon campo per farci fieno (ne ricavò quasi sempre due, talvolta tre tagli, perché era protetto dai venti), ma per sognare, straordinariamente bello, quasi fosse stato un laghetto alpino. Riuscì a comprarlo: lavorò per due lunghi anni per il proprietario, un pastore duro e rapace e in più gli dovette dare una delle sue migliori mucche. Ma infine ottenne quello che desiderava.  In seguito, a distanza di tanti anni, mi accorgevo di quanto lo zio amasse quel luogo: una volta, in pieno inverno lo sorpresi là, nel suo campo immerso nella neve, a riscaldarsi accanto a un fuoco. Mi disse che passare qualche ora in quel posto, anche in inverno, lo faceva sentire bene, lo metteva in comunicazione con le forze misteriose e primigenie del creato.
 Per la stessa ragione credo, amava lasciare in primavera una striscia di erba: la risparmiava al taglio. Era un tributo alla natura. Così, diceva lui, potevamo per tutta la stagione guardare i bei colori dei fiori selvatici.
 Venne il giorno che il vecchio dovette abbandonare il suo campo per altri pascoli. Quel prato fu lasciato in eredità ai due figli, in parti uguali: questo il volere del padre. Un’altra cosa che aveva raccomandato loro era di non vendere il terreno e di lasciare, quando l’erba era pronta per il taglio, una striscia, in omaggio a madre Natura.
 
   All’arrivo delle prime rondini, quando l’erba iniziò appena a spuntare, i miei cugini si accordarono per lavorare ciascuno la propria metà del campo e stabilirono presso una grosso pino bianco, il confine. Poi scelsero una lingua di terra dove l’erba non andava tagliata. Ma la questione dell’eredità necessitava di essere ripresa, poiché Aldo fece intendere chiaramente che rivendicava per sé tutta la proprietà, in quanto fratello maggiore. Ivan non capiva quegli strani discorsi del fratello e nei giorni a venire lo si vedeva con un’aria assorta, pensierosa.
 Giunse il giorno del primo sfalcio e Ivan di buon ora si portò nella conca prativa avvolta nella foschia mattutina: l’erba aveva superato il metro di altezza e con i fiori e le graminacee selvatiche, creava magici campi sensoriali.
 Aldo aveva già tagliato la sua parte di prato come poté constatare, ma notò pure che egli era andato ben oltre la quercia dove passava il confine. E quella non fu la sola volta: durante la fienagione, negli altri due sfalci, il fratello maggiore sconfinò nel suo prato di ben cinque metri, prendendo la sua erba. Chiese nuovamente spiegazioni al fratello di questo suo comportamento, ma Aldo sembrava essere diventato un altro, un estraneo, non voleva sentire ragioni:
   - Sono io il fratello maggiore e questo terreno spetta a me di diritto! Per questa stagione abbiamo così diviso, ma dopo sarà solo mio! E ne farò ciò che voglio! Ho infatti intenzione di venderlo!
   - Come puoi fare un simile discorso! Hai forse dimenticato le parole di nostro padre? Dobbiamo rispettare la sua volontà!
Ma le parole di Ivan caddero nel vuoto, inascoltate.
 Quando una mattina di quell’estate, Ivan trovò tagliata la striscia di erba conservata per onorare la memoria del padre,  fu pervaso da un sentimento irrefrenabile di rabbia e di profonda delusione: avrebbe chiarito una volta per tutte quella faccenda! Non poteva permettere che al padre gli mancassero di rispetto in quel modo, anche se questo avrebbe significato andare a uno scontro duro con Aldo.
Appena i due fratelli si videro ebbero una violenta discussione, finendo col darsi appuntamento l’indomani mattina al campo, per risolvere con i coltelli la questione. Io cercai di portarli alla ragione, ma senza ottenere alcun risultato: Ivan era mortalmente deciso a lavare col sangue l’oltraggio fatto alla memoria del padre; dal canto suo Aldo non aspettava altro, così da liquidare lo scomodo fratello.

   Durante la notte scoppiò un furioso temporale, con le forze della natura che sembravano essersi date convegno nella valle di Cembra, per moltiplicare così la loro carica distruttrice. Il cielo fu squarciato da potenti fulmini che illuminavano a tratti il paesaggio, mentre una pioggia scrosciante, battente, perdurò l’intera notte. Il vento sferzava con ondate rabbiose ogni cosa che trovava sul suo passaggio, quasi fosse stato un’entità vivente e, sradicò alberi secolari, sollevò tetti e abbatté fienili.
 All’alba una strana quiete era sopraggiunta. I due fratelli, sebbene un po’ sconcertati da quell’insolita tempesta, si portarono nella radura, faticando non poco a raggiungerla, a causa delle frane, dei fiumi di fango e degli alberi che avevano cancellato e ostruito gli antichi camminamenti.
 Ivan fu il primo ad arrivare al campo, rimanendo stupefatto a ciò che i suoi occhi videro: al posto del prato c’era un lago! Mentre se ne stava là, completamente incapace di produrre pensieri razionali, giunse Aldo. Ivan lesse il terribile sgomento negli occhi del fratello, ma nessuno dei due riuscì a pronunciare una sola parola. 
 Le acque del lago perfettamente calme specchiavano il verde intenso degli abeti e il grigio delle montagne come se lo avessero fatto da tempo immemore.
 Aldo tirò fuori dalla cintura il coltello, lo guardò, poi lo gettò nelle acque del lago, fissando il punto dove questo si era inabissato. Ivan  fece lo stesso col suo.
   Qualcuno crederà che questa storia sia solo una leggenda: eppure molti giurano di aver visto, tuffandosi nel lago, due lunghi coltelli arrugginiti adagiati sul fondale, uno accanto all’altro. Se si cerca di prenderli, non si smuovono di un centimetro: come se fossero tenuti fermi, schiacciati sul fondo, da una forza misteriosa, soprannaturale.