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La spiritualità esoterica del Medioevo

di Alessandro Puma - 01/01/2010

 

Che un'indiscussa spiritualità, al tempo stesso iniziatica e tribale, abbia proliferato lungo tutto il corso del Medioevo e anche oltre fino alla Rinascenza, in Europa, è un fatto ormai assodato da tutti quegli studiosi che si pretendono seri nell'ambito accademico sia nazionale  che internazionale.
 Una spiritualità per certi versi maggiore persino di quella antica e tardo-antica perché, oltre a riprendere logicamente quest'ultima, si presenta arricchita dagli archetipi non solo cristiani, ma anche ebraici e soprattutto musulmani.
 Il passaggio, come direbbe Elèmire Zolla, dall'archetipo augusteo o romuleo, tipico della Roma imperiale (con le ovvie contaminazioni di stampo siriaco-femmineo alla Eliogabalo; solare-divino, di matrice egizia o mithriaca, e infine filosofico-greco apollineo o antoniniano), a quello biblico vetero-testamentario, ossia davidico, era già stato assicurato dall'imperatore Costantino, tramite Eusebio da Cesarea. A lui si deve, infatti, la nuova escatologia della storia che, se in epoca augustea, principiava con il regno di Saturno, in quella costantinianea comincia con l'epoca dei patriarchi.
 "Dopo l'inaugurale fratricidio, con Caino al posto di Romolo, incominciava il lungo e tribolato percorso al cui culmine stava la restaurazione dell'origine con Costantino, nuovo Abramo. […] L'imperatore costantinianeo disegnato da Eusebio è l'icona, il vicario del Cristo, l'apostolo finale, il tredicesimo. E' il Kosmokrator come Dio è il Pantokrator." (E.Zolla, Archetipi, edizioni Marsilio p. 90).
 E così che assistiamo alla sincretizzazione di elementi biblici con i miti greco-romani e addirittura nordici.
 Se Romolo e Remo si trasfigurano in Caino e Abele e Costantino, nuovo Mosè o Davide, prelude già a Maometto, Odino-Wotan risulta essere nato all'interno dell'Arca di Noè durante il diluvio, così come la mitica Avalon, dove aveva trovato riposo Re Artù, si situa, secondo un'altra leggenda, alle pendici dell'Etna (in quell'isola-triskelyon che è la Sicilia) e così via.
 Anche da ciò possiamo desumere una stretta linea di continuità tra la rappresentazione del Cristo guerriero nelle vesti dell'Arcangelo Michele - con tanto di spada e bilancia - , così come veniva venerato presso alcune tra le prime comunità cristiane, e il culto ossessivo che veniva tributato alle reliquie dei santi martiri, in quanto guerrieri anch'essi.
 Lungo tutto il corso del'Alto Medioevo, infatti, l'ostentazione per il culto dei santi e soprattutto per i loro resti mortali, manifesta non soltanto l'aderenza dei fedeli alla loro funzione salvifica, ma anche l'esaltazione della testimonianza più alta e virile che essi - come i santi - potevano realizzare nel nome del Signore, e cioè quella martyria che, scomparsa all'interno dell'orizzonte axiologico di noi occidentali, presenta alcuni  preoccupanti ma logici addentellati nel sacrificio, di sé e degli altri, tipico dei kamikaze giapponesi della Seconda Guerra Mondiale o dei famigerati integralisti islamici.
 Molte chiese cristiane sorsero, dunque, non soltanto nello stesso luogo dove si celebravano, in precedenza, antichi culti di origine pagana, ma ancor più dove si credeva che il santo, come un novello semidio, avesse subìto il suo martirio o si pensava avessero trovato riposo le sue spoglie mortali.
 E tutti i fedeli facevano a gara per garantirsi, dopo la dipartita, il seppellimento proprio nelle immediate vicinanze del corpo del santo, tant'è che la Chiesa ufficiale dovette darsi molto da fare per 'spostare' il culto da quel santo particolare alla canonica venerazione del Cristo, della Madonna, e di tutti gli altri santi.
 Come afferma Schmitt, infatti, (Medioevo "superstizioso", Editrice Laterza): "La storia del culto delle reliquie in modo particolare mostra ampiamente fino a qual punto fosse labile il limite fra ciò che la Chiesa tollerava, o addirittura incoraggiava, e ciò che condannava come 'superstizioso'. Gregorio di Tours non esita a lodare la virtù miracolosa della borraccina che spuntava sulla tomba di San Tranquillo di Digione, dei frutti e della scorza del gelso della tomba di san Baudrille di Nîmes, delle pere della tomba di san Nazario ecc…non era permesso dubitarne perché questi vegetali avevano il merito di spuntare in prossimità immediata di corpi santi riconosciuti come tali dalla Chiesa" (pag. 46).
 E del resto il Medioevo è tutto un pullulare di miracoli, guarigioni, possessioni e visioni all'interno di un contesto razziale e culturale solo apparentemente statico e che, specialmente in Spagna e nella cristianità slava ed orientale, si presenta invece estremamente vario e composito. Tradizioni ebraiche e musulmane si innestano nel solco delle prove iniziatiche per raggiungere l'aldilà o l'ideale di bellezza femminile tipico del neoplatonismo dell'"amor cortese", prima, e di quello ficiniano-rinascimentale, poi.
 Maometto, "vas d'elezione" come san Paolo, così come il mitico imperatore persiano Cosroe (Kershaw), offrono già lo schema del viaggio nell'Oltretomba, che sarà poi ripreso e rielaborato dal grande iniziato del Trecento italiano, Dante Alighieri.
 E gli apostoli (dodici come le tribù d'Israele e i cavalieri della tavola rotonda), che non a caso erano stati ribattezzati da Gesù come boanerges, cioè figli del tuono, in che modo sono stati 'sincretizzati' con il dio del tuono della mitologia nordica? E come entrambi gli aspetti hanno influito sulla superstizione magico-religiosa dei cosiddetti tempestari, stregoni e sciamani che secondo alcune tradizioni popolari avevano il potere di dirigere e far confluire tempeste e fulmini in apposite regioni e campagne? L'uomo dell'antichità, del resto, era molto più moderno di quanto si possa pensare, anche più di noi cosiddetti uomini "civilizzati", per il semplice motivo che l'ideale del superamento dei limiti delle nostre spoglie mortali tendeva, almeno negli strati più elevati della popolazione, ad assumere forme eroiche e spirituali che, perfettamente visibili nelle opere d'arte della pittura e della scultura, potremmo definire simbologicamente "ermetiche" o alchemiche.
 La stessa trasfigurazione cristica, infatti, era già stata presagita nella "pneumatizzazione" dei corpi dei fauni, degli imperatori che si vestivano della pelle del leone ucciso per assimilarsi ad Ercole - come Commodo - e nell'exemplum continuamente offerto in ogni angolo di Roma (ancor oggi, dai Musei Capitolini a Piazza del Popolo) dalle figure di angeli guerrieri, dee alate della Vittoria e 'criptici' giovinetti incoronati e piumati. Tutto ciò esprime, agli occhi degli iniziati di ogni tempo e luogo, quella tra-sfigurazione (che va oltre, cioè, l'immagine umana sfigurata dal peccato o dalla semplice materialità), quella trasmutazione radicale del metallo vile del nostro corpo in oro che, presente fin dai primordi nell'antica Roma, è stata poi ripresa dall'Al kemija araba per diventare infine l'alchimia esoterica dei cabalisti e dei neoplatonici rinascimentali.
 Questo dovrebbe farci riflettere sulla sostanziale identità tradizionale della ricerca simbolica ed esoterica tanto del Vello d'Oro quanto del Graal e sull'unità ricavata dalla coincidentia oppositorum di tradizioni diverse, rappresentata mirabilmente dal simbolo alchemico - che legava i Templari ad alcune sette esoteriche musulmane - del Bafometto; quest'ultimo simbolo, infatti, una sorta di satiro-demonio dall'espressione benevola, dagli attributi maschili e femminili insieme, lungi dall'essere una figura negativa non è che l'espressione di quella tolleranza verso le più diverse religioni e costumanze che soltanto l'Impero persiano, quello romano e quello arabo sono riusciti a realizzare nella storia.
 Inoltre è del tutto pacifico che l'ideale dell'antica tradizione dell'unità imperiale (come "Specchio del mondo" o "Occhio di Dio") fosse rimasto sempre vivo in tutta Europa dall'Alto al Basso Medioevo e anche oltre. Diversamente non si spiegherebbe la fiera autonomia dei Comuni - tutti facenti riferimento a Roma antica - così come la mistica socio-politica di certi rivoluzionari illuminati come il Savonarola, il Campanella, Gioacchino da Fiore, Cola di Rienzo (che ebbe l'ardire di presentarsi pubblicamente come il nuovo dittatore di Roma, il restauratore messianico proclamante, nella sua scintillante armatura, la 'romanità' di tutte le città italiane), e non da ultimo l'imperatore Federico I, detto il Barbarossa, il quale mirava ad una renovatio imperii che unificasse l'Italia sotto lo stendardo germanico, assieme alla Borgogna e a Gerusalemme. Il monarca universale, conosciuto e amato anche nel più profondo dell'Asia, scomparso da martire alle crociate, morto, come Artù, soltanto in apparenza, addormentato in una montagna in attesa di ridestarsi e ricordato, infine, dai romantici tedeschi, come il nuovo Sigfrido.
 Il carattere di iniziazione ai diversi gradi d'investitura all'interno dell'ordine cavalleresco, da scudiero a cavaliere, da vassallo a valvassore e così via, è già di per sé un retaggio di tipo germanico, il quale prevedeva anche che in battaglia i milites (o i berserkers) dovessero innanzitutto far fronte comune in difesa del re-condottiero e contemporaneamente abbattere gli avversari; per questo non c'era reato più grande, per un guerriero durante una battaglia campale, dell'omissione volontaria di salvezza del proprio re, mentre il perdere la propria vita in direzione di tale scopo costituiva l'onore più grande. Da ciò, da questo carattere eminentemente tribale delle popolazioni nordiche e non dal dictator dominus et deus, orientale prima e latino poi, deriva la concezione del rex sacrorum tipicamente medievale e per così dire franco-sassone, sancita concretamente da Carlo Magno e che impregna di sé tutta la storia del Sacro Romano Impero.
Una sacralità di vasto respiro, la cui matrice misteriosofica cristiana - opposta ma uguale a quella bizantina - si sposava mirabilmente con una religiosità popolare giustamente amante delle gerarchie e dell'ordine naturale delle cose.
Un senso del sacro, ancora, che permeava l'intero cattolicesimo aristocratico e guerriero che, essendo per l'appunto gerarchico, riconosceva ampiamente l'operato e il valore dei singoli, contadini, mendicanti o artigiani che fossero; e ciò è ben visibile ad esempio nei prodotti manifatturieri e nell'artigianato. Anche l'oggetto più insignificante acquistava infatti un'importanza che non può mai avere oggi, nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e seriale. Un portacandele, una pipa o un telaio per filare recavano, in sé, l'impronta artistica del suo produttore che differiva da quelle di altri produttori, e che presentava una spiritualità popolare che si tramandava, logicamente, da padre in figlio.
Il lascito e la sacralizzazione degli oggetti che furono del morto ai propri figli, spirituali o carnali, è alla base del pensiero della Tradizione. Nell'Impero romano era fatto obbligo ai discendenti di una stessa gens o familia di ripercorrere le orme degli avi e dei genitori e addirittura, se possibile, cercare di superarle. Nel Medioevo il lascito, il mos maiorum, si concretizza su degli oggetti come la spada, la lancia o lo scudo che vengono poi ad essere sacralizzati sugli altari delle chiese in uno con il culto delle reliquie dei santi.
E' da questa base della tradizione germanica che prendono origine la Jihad (la guerra santa dei musulmani), le Crociate e lo stesso senso delle investiture negli ordini cavallereschi. La consacrazione della spada poggiata dal re-sacerdote - o semplicemente dal signore feudale - sulle spalle dell'aspirante cavaliere, la manata (o pugno) data forte sul collo (la 'collata') dell'apprendista, sono un monito, un richiamo all'idea della lotta, della sofferenza virile che comporta l'essere appartenenti alla militia christi come ben sapevano i mistici.