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Pensieri di una grigia sera di fine d'anno

di Francesco Lamendola - 01/01/2010

 

L’aria va imbrunendo, e quest’ultimo giorno dell’anno si accinge a tuffarsi per sempre nelle tenebre della notte.
Ha piovigginato tutta la notte e tutto il mattino e solo adesso, poco prima del tramonto, ha smesso; ma il cielo resta grigio e uggioso, carico di una fredda umidità.
Una cortina di nuvole bianche si è posata sulle cime delle montagne vicine e le avvolge nella sua densa spuma, simile a quella delle onde marine che vengono a frangersi sulla spiaggia al termine della loro cavalcata.
Bianco su bianco, la coltre di nubi nasconde la neve delle cime che forse, frattanto, si è sciolta sotto la pioggia fitta e insistente degli ultimi giorni; sicché, ora, questo aereo drappeggio sembra venuto a rimpiazzare quell’altro, formato dalla neve recente e già dileguata.
Per un attimo, una chiazza più chiara suggerisce un gioco di luce che non può avere luogo in questa assoluta mancanza di Sole: e tuttavia l’illusione è grata, perché porta con sé quasi un diafano presentimento della prossima rinascita della natura che, a partire da qualche rara giornata di gennaio, già s’intuisce e par di sentire nell’aria.
Ma è un’illusione di breve momento: in un attimo quella luce si attenua, e l’avanzare del crepuscolo immerge tutte le nuvole e le montagne sottostanti in un grigiore confuso, indefinito, che piano piano abolisce i confini tra esse, immergendole in un unico sfondo grigio-azzurro.
Ed ecco, la cortina delle nubi più non si distingue dal grigiore del cielo, e le montagne non sono altro che lo sfondo indistinguibile contro cui si stagliano i tetti e i camini, mentre le prime luci si accendono qua e là, come nel paesaggio d’un presepe.
Ecco, ora anche le case cominciano a divenire indistinte, non sono più che delle sagome scure contro lo sfondo un po’ più chiaro dei monti; e alla prima finestra illuminata se n’è aggiunta una seconda, poi una terza.
Una di esse brilla di una luce intermittente, quasi certamente la luce di un albero di Natale o di qualche altro addobbo natalizio; così come fa pensare al Natale appena trascorso la luce che s’intravvede in cima alla collina, quasi avvolta nella nebbia, e che solo un abitante del posto sa appartenere al campanile di una piccola chiesa antica, sospesa lassù  in alto, come fosse di guardia al confine tra la terra e il cielo.
Mentre le ombre della sera scendono ormai sempre più veloci e avvolgono ogni cosa nel loro complice abbraccio, l’occhio della mente, ormai privo di oggetti esterni da contemplare, rifluisce naturalmente verso l’interno e si fa assorto, pensoso.
Tra poche ore, milioni di persone stapperanno bottiglie e lanceranno fuochi d’artificio per festeggiare la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo. Ma adesso, a tu per tu con la maestà della natura che s’immerge silenziosamente nel crepuscolo dell’ultimo giorno dell’anno, in questo smisurato silenzio, le cose appaiono sotto una luce ben diversa, e nulla appare più incongruo che il desiderio di schiamazzare e fare festa.
Un altro giorno se ne va, un altro anno sta morendo: e noi con lui.
Ci ha insegnato qualcosa?
Ci ha resi migliori?
Ci ha avvicinati, e sia pure di poco, di pochissimo, alla meta di una più ampia e generosa consapevolezza spirituale?
Quelli che ci corrispondono, hanno visto in  noi i segni di un progresso, hanno trovato una presenza positiva per la loro stessa crescita?
Domande difficili; o, forse, semplicemente, domande alle quali è sgradevole dover dare una risposta onesta e sincera, perché sentiamo di essere stati inadeguati.
Ma inadeguati rispetto a che cosa?
Non si tratta di sensi di colpa generici, scaturenti, magari, da una coscienza eccessivamente scrupolosa; no, si tratta di ben altro.
A ciascuno di noi è chiesto in ragione delle sue possibilità: non v’è una misura unica, ma ciascuno è chiamato in proporzione alle proprie forze. A nessuno viene gettato sulle spalle un carico più gravoso di quel che egli possa sopportare.
Ma è corretto, poi, affermare che ci viene chiesto qualcosa? E chi sarebbe a domandarcelo?
No; nulla ci viene chiesto. Siamo noi stessi che avvertiamo, dapprima oscuramente, poi sempre più consapevolmente, di essere bisognosi di qualcosa, di qualcosa che ci manca e la cui assenza ci rende turbati e infelici. Siamo noi che cerchiamo.
Cerchiamo perché quel vuoto, quella mancanza ci tormentano e ci pungolano senza tregua, senza mai darci la sospirata pace dell’anima. E quel che cerchiamo - questo è il segreto - coincide con la ragione del nostro essere nel mondo.
Noi non siamo qui per caso; siamo stati chiamati, ma abbiamo anche domandato noi stessi di esservi. Come è possibile questo?
Nel mondo materiale, o si chiede di entrare, oppure si è chiamati: «tertium non datur». Ma nella dimensione dello spirito, che è la nostra vera dimora, noi abbiamo domandato di entrare e, contemporaneamente, siamo stati chiamati. Perciò il nostro desiderio di essere coincide con il senso del nostro esserci: le due cose sono una sola.
Ma come è possibile che noi abbiamo domandato di esserci, quando ancora non c’eravamo? Questa domanda deriva dal tipico errore di prospettiva di chi si ponga in un’ottica puramente materialista, caratterizzata dalla scansione temporale tra passato, presente e futuro.
Nella dimensione dello spirito, non vi sono tempi al plurale, ma esiste un unico tempo: il presente; e tutto accade simultaneamente. Quello che a noi sembra passato, dipende dalla limitatezza del nostro punto di osservazione; e lo stesso vale per il futuro.
Ne deriva che noi siamo da sempre e che sempre saremo; solo, non ne abbiamo consapevolezza, a causa dell’illusione fenomenica. Le culture e le religioni orientali credono nella reincarnazione essenzialmente per questa ragione: che una sola vita umana è troppo breve, generalmente parlando, sia per comprendere i termini dell’illusione fenomenica, sia per intraprendere il cammino di liberazione da essa, vale a dire il processo di reintegrazione degli individui nell’Essere, da cui ogni cosa proviene.
Dunque: noi c’eravamo già, prima che il nostro corpo fosse; o meglio, prima della illusoria identificazione di noi con il nostro corpo. Non siamo stati scagliati nel mondo a nostra insaputa e nostro malgrado: al contrario, siamo stati noi a scegliere di entrarvi.
È possibile, forse addirittura probabile, che abbiamo scelto i nostri genitori. Il fatto che molti figli si lamentino dei propri genitori non è un argomento contrario a questa ipotesi: sarebbe troppo bello se le nostre scelte si rivelassero sempre giuste; mentre è palese che, spesso, noi commettiamo dei gravi errori di valutazione, che ci inducono a compiere delle scelte sbagliate.
Noi non siamo degli ospiti, più o meno tollerati da qualcosa o da qualcuno, ma degli inquilini a pieno titolo, con tutti i diritti relativi - e, naturalmente, con tutti i doveri, cosa di cui tendiamo a scordarci con troppa facilità.
Entrati nel mondo, ci sembra di vederlo per la prima volta: ma è un’illusione anche questa, dovuta alla nostra difficoltà di ricordare. Inoltre, ci dimentichiamo quasi subito della ragione per cui siamo qui: volendo essere più precisi, ci dimentichiamo della ragione per la quale abbiamo domandato di entrarvi. Di conseguenza, ci attardiamo lungo vie secondarie, che, spesso, non conducono da nessuna parte; e intanto i giorni trascorrono, e non abbiamo progredito d’un passo.
Rientrare in noi stessi, facendo tacere i rumori inutili e ascoltando l’unica voce che, in noi, è essenziale, significa altresì - in un certo senso - ricordare. Anche Platone era persuaso che conoscere sia ricordare; e non era il pensiero di un pazzo, ma di un grande sapiente.
La maggior parte di noi spreca innumerevoli occasioni di riscoprire questa semplice, profonda verità: per dare un significato al nostro essere nel mondo, noi dobbiamo sforzarci di ricordare; ricordare da dove veniamo, e dove stiamo andando.
Abbiamo fin qui adoperato, per chiarezza, il verbo «ricordare»; ma, ovviamente, si tratta di un’espressione molto rudimentale, molto imprecisa e inesatta. Forse sarebbe preferibile usare il verbo «vedere»: infatti, se l’unico tempo esistente nella dimensione spirituale è il presente, allora non si tratta di ricordare qualcosa che sapevamo in passato, ma piuttosto di contemplare qualcosa che è sempre stato qui, davanti a noi. Meglio ancora: dentro di noi.
Ed è così.
Mano a mano che il nostro occhio interiore si apre, noi ricominciamo a vedere: a vedere quello che già c’era, ma che sfuggiva al nostro sguardo troppo distratto, troppo materiale. In realtà, noi sappiamo già tutto: ma non ne siamo persuasi. È per questo che andiamo a cercare fuori di noi, per mille strade, quel che già portiamo dentro.
Ciascuno di noi è un veggente che, però, ignora di esserlo; non lo ricorda, non lo vuole sapere, non lo vuole vedere. In fondo, si tratta di un errore piuttosto comodo: grazie ad esso, possiamo sempre giustificare i nostri tradimenti con la scusa dell’ignoranza.
La verità è che siamo assai meno ignoranti di quel che ci farebbe comodo credere. O meglio: siamo ignoranti in senso morale, non tanto in senso ontologico. Dal momento che siamo da sempre e per sempre, in effetti noi sappiamo tutto: tutto quel che servirebbe per dare una direzione e uno scopo ben precisi alla nostra vita. Ma preferiamo far finta di non sapere niente, perché siamo troppo vigliacchi per assumerci la nostra responsabilità.
Preferiamo far finta di essere qui per caso, ignari di tutto, disarmati, vulnerabili, esposti a mille insidie e assillati da domande più grandi di noi. Le domande che ci facciamo non sono più grandi noi: non quelle essenziali, almeno. Anzi, in fondo la domanda essenziale è una sola: stiamo tenendo fede all’impegno che avevamo preso, con l’atto di esserci?
La scelta di esserci non è uno scherzo; non siamo qui per fare una passeggiata. La faccenda è seria: bella, ma seria: solenne e armoniosa come una musica di Bach, del divino Bach, le cui note si spandono come un arcobaleno di pace e di perfezione.
L’impegno che abbiamo preso, quando abbiamo deciso di esserci, è quello di ritrovare la strada di casa, la strada verso l’Essere, dal quale venivamo, così come viene ogni cosa: sorgente infinita di vita, di bellezza, di amore.
E non esistono scorciatoie.
Ritrovare la strada dell’Essere, vuole dire rientrare sino al fondo di noi stessi: avere abbastanza coraggio da guardarci senza indulgenze, fino alla parte più intima e nascosta, là dove nessuna menzogna è possibile, perché siamo giunti faccia a faccia con la nostra nuda verità.
La cosa più commovente è che ritrovare la strada di casa è anche il desiderio più profondo e più vero del nostro cuore: per cui l’impegno che abbiamo preso non è affatto pesante, anzi, è tutt’uno con la nostra felicità, con il nostro desiderio ed il nostro bisogno di essere felici.
Noi siamo qui per essere felici; ma non potremo mai esserlo a prezzo di un tradimento verso noi stessi. Se tradiamo la nostra verità, se ci inoltriamo su strade sbagliate e inseguiamo miraggi di beni ingannevoli, noi diventiamo i peggiori nemici di noi stessi.
Nessuno ci punisce per la nostra infedeltà: siamo noi stessi a punirci, con le nostre stesse mani e con una severità di cui non sarebbe capace nemmeno il giudice più inesorabile. Diamo spesso la colpa alla sorte, al caso o agli dèi: ma la verità è che facciamo tutto da soli.
Così, in questa sera ormai buia dell’ultimo giorno dell’anno, uno solo è l’auspicio che può erompere dal fondo dell’anima: quello di rimanere fedeli a noi stessi; quello di ritrovare al più presto la strada di casa, la strada dell’Essere.
Noi siamo gli inquilini di uno splendido palazzo che hanno deciso, a un bel momento, di abitare nelle cantine buie e maleodoranti; e lo abbiamo fatto inseguendo false immagini di bene, e convinti di procacciare il nostro meglio.
Dobbiamo rientrare in noi; dobbiamo ritrovare la vista interiore, e ridiventare amici di noi stessi.