Meditazioni delle Vette
di di Francesco Demattè - 11/04/2006
Fonte: geofilosofia.it
Julius Evola, Meditazioni delle Vette
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“Non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”. Il libro in questione è Meditazioni delle Vette di Julius Evola, mentre l’autore della frase, che compare sulla copertina del volume, è Reinhold Messner. Basterebbero queste uniche notazioni per farci comprendere il rilievo che il testo evoliano assume sia per gli amanti della montagna che per gli studiosi e i lettori del grande pensatore della Tradizione.
Meditazioni delle Vette comparve nel 1974 per i tipi delle Edizioni del Tridente, grazie ad una felice intuizione di Renato del Ponte, il quale riunì in volume, col consenso dell’autore, un certo numero di articoli sull’alpinismo e sulla montagna scritti da Evola tra il 1930 e il 1942 e usciti in varie riviste dell’epoca. L’idea di del Ponte ebbe un meritato successo di pubblico, testimoniato dalle numerose edizioni che si susseguirono negli anni, sia in Italia che all’estero: si pensi che, andate rapidamente esaurite le prime due, le esigenze, chiamiamole così, del mercato portarono addirittura ad una ristampa abusiva, un’edizione ‘pirata’ insomma. Quella appena uscita, inserita nella collana ‘Opere di Julius Evola’ delle Edizioni Mediterranee a cura di Gianfranco de Turris (pp. 211, Euro 19,50) è addirittura la quinta edizione, ampliata rispetto alla quarta del 1997 di tre scritti, cosicchè il numero complessivo dei testi presenti nell’antologia è adesso di 22.
La novità più rilevante in questa riproposizione della raccolta evoliana è tuttavia, a nostro parere, il saggio introduttivo di Luisa Bonesio, docente di Estetica all’Università di Pavia, e sicuramente nota ai lettori delle pagine culturali del Secolo d’Italia come la più accreditata studiosa in Italia del pensiero di Ernst Jünger. Il suo intervento, L’ultima vetta: Evola e le montagne della Tradizione, assurge sicuramente a contributo fondamentale per la comprensione del particolare ed essenziale rapporto che legava l’autore di Rivolta contro il mondo moderno alla montagna.
Ma ritorniamo a Messner, il quale, lungi dall’essere qui solamente il compilatore della frase citata all’inizio, può offrire una via d’accesso per comprendere il significato, niente affatto marginale, che l’alpe assume nel pensiero e nell’esperienza di Julius Evola. Nella nota introduttiva al volume, infatti, Renato del Ponte rileva come l’alpinismo evoliano sia da considerare “elitario [e] assai differente dagli esibizionismi o dai tecnicismi oggi di moda, nonostante molte resipiscenze e il recente conforto di alcune notevolissime eccezioni”. Nell’edizione del 1986 in nostro possesso questo passo veniva accompagnato da una nota a piè di pagina - scomparsa nella attuale versione fresca di stampa - che chiariva come la più luminosa delle eccezioni fosse rappresentata proprio da Reinhold Messner, definito non solo “il più grande alpinista vivente”, ma anche, e soprattutto, “il tipo di alpinista ideale prefigurato da Evola”. A questo punto si può ben comprendere come la frase dello scalatore altoatesino non sia affatto fuori luogo in un contesto come quello del libro che stiamo trattando, esortandoci, al contrario, a interrogarci sul significato che viene ad assumere l’esperienza della montagna nell’opera evoliana. Significato che è del tutto spirituale, mille miglia lontano da ogni ossessione di tipo sportivo e superomistico o, peggio ancora, di stampo turistico-massificante. L’andare per i monti è infatti per Evola soprattutto liberazione, è “una catarsi, uno svegliarsi, un rinascere in qualcosa di trascendente, di divino”. Affermazione, questa, che riecheggia il celebre detto del saggio tibetano Milarepa, per il quale “andare per montagne selvagge, è una via alla liberazione”: non a caso Evola traduce e commenta in Meditazioni delle Vette “Il canto della gioia” da cui è tratta tale citazione.
Alpinismo, quindi, come via per il superamento dei limiti della condizione umana, come “compimento interiore” e “intima trasfigurazione” nella forma dell’ azione e della contemplazione, che divengono “due elementi inseparabili di un tutto”. Un’ascesa, pertanto, che si trasforma in ascesi, in eroica ascesi. Espressione, l’alpinismo, di una “volontà eroica [che] cerca altri sbocchi oltre la rete degli interessi pratici, delle passioni e delle cupidigie che ogni giorno si serra sempre di più”. E’, ancora, fuga dalle bassure della quotidianità, ricerca del contatto con l’elementare, il primordiale, l’originario, il non addomesticato che si disvela e rileva nelle altezze inviolate, nella tormentata purezza dei ghiacciai alpini, nell’incontaminata asprezza delle giogaie montane. Ove, appunto, l’uomo differenziato si ricongiunge alla sua “natura umana più profonda, che è quella stessa delle forze elementari della terra, la cui purità possente e calma si fissa nelle vette ghiacciate e lucenti”. L’esperienza dell’alpe, quindi, non si riduce in Evola a mero ‘contemplativismo’ estetico-borghese di derivazione romantica – cosa ben diversa, comunque, dal senso eroico della contemplazione – né, tantomeno, a lotta superomistica per la conquista della montagna. Come ben rileva Luisa Bonesio nel citato saggio introduttivo, non si tratta tanto, nell’alpinismo metafisico informato ai principii della Tradizione, di “<< vincere>> la montagna, quanto se stessi”. E questa vittoria su se stessi trova per Evola il suo ambiente più adatto in quel “mondo dell’alta montagna [che] va a parlare [alla] eredità primordiale” dell’uomo differenziato, facendo “emergere lentamente [in lui] il senso di quella libertà più che umana, che non significa evasione, ma è principio di una forza pura” che si realizza nel “lucido dominio della parte irrazionale dell’essere umano”.
Le terre alte e le vette che si stagliano all’orizzonte come una visione simbolica appaiono pertanto essere un mondo ‘altro’ rispetto alle bassure della pianure, un mondo nel quale è possibile realizzare il Sé anche nei perigliosi percorsi dell’età oscura. Non è un caso che Evola metta bene in rilievo come la montagna esiga un comportamento o, meglio, uno stile che si contrapponga a quello cittadino della civilizzazione contemporanea. Innanzitutto “la castità della parola e della espressione. La montagna insegna silenzio. Disabitua dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. Essa semplifica e interiorizza”. Poi “la disciplina interna, il controllo completo dei riflessi” che mira ad una “concentrazione lucida conforme allo scopo”. E, infine, l’alta montagna è luogo propizio al manifestarsi dell’impersonalità attiva in quanto “ci abitua ad un’azione, che fa a meno degli spettatori, di un eroismo che rifugge dalla retorica e dal gesto”.
Evocatrice, anche, la tacita e luminosa maestà dell’alpe. E la massima evocazione di idee e di simboli compare nell’articolo che dà il titolo all’intera raccolta, Meditazione delle vette, laddove Evola con rara efficacia, di fronte al grandioso spettacolo di cime e di ghiacciai che si squadernano alla vista dall'’alto del monte Bianco, è insensibilmente portato a pensare all’ “idea di una superiore, immateriale unità, del fronte invisibile di tutti coloro che […] oggi lottano in ogni terra una stessa battaglia, che vivono una stessa rivolta e sono i portatori di una stessa intangibile tradizione […] Forze apparentemente isolate e disperse […] intese a custodire l’ideale assoluto dell’ Imperium e a prepararne l’avvento, dopo che il ciclo relativo a questi tempi oscuri sarà chiuso”.
Le vette qui parlano, allora come oggi, a chi sa cogliere il loro linguaggio, contrassegnato dal sigillo dell’ aeternitas.