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Balmaceda, ovvero come il capitale straniero condannò al sottosviluppo un Paese in espansione

di Francesco Lamendola - 05/01/2010

 

Un buon conoscitore di geografia del Sud America sa che esiste, nella Terra del Fuoco, una catena di montagne che portano il nome di Sierra Balmaceda, così come sa che, in quel remoto arcipelago, esistono un Monte Sarmiento, una Sierra Irigoyen e una Peninsula Mitre: tutti nomi di uomini politici cileni e argentini, ossia delle due nazioni che si divisero pacificamente, in seguito ad un arbitrato di Edoardo VII d’Inghilterra, ne 1902, le estreme regioni australi di quel continente.
Ma chi era  codesto Balmaceda?
Nato a Santiago del Cile nel 1838, oratore popolare, José Manuel Balmaceda era stato eletto deputato nel 1870 e nel 1886 era divenuto presidente della Repubblica cilena. Le enciclopedie generali, come l’«Enciclopedia Biografica Universale» della Treccani, si limitano a dirci che, poi, egli si mise in urto con il Congresso nazionale; che da questo venne destituito e che a ciò fece seguito una guerra civile, la quale terminò con la sconfitta dei suoi seguaci e con il suo stesso suicidio. Ma nemmeno una parola sulle cause di quella tragedia, così come assoluto silenzio sulle dimensioni di essa.
E allora sarà bene dire subito che non si trattò del solito «golpe» sudamericano, ma di una guerra civile estremamente accanita, che causò la morte di 10.000 persone in pochissimi mesi: una cifra enorme, se si considera la popolazione totale di quel Paese e il fatto che le guerre d’indipendenza dalla Spagna erano state, in proporzione, assai meno cruente. Il paragone che viene subito alla mente è quello con la repressione del brigantaggio nell’Italia postunitaria, che, come è noto, fu la prima guerra civile dell’Italia moderna e che costò molti più morti di tutte le guerre del Risorgimento messe insieme.
Ma quali erano state le cause di uno scoppio di odio fratricida così virulento? Alcuni testi di storia dell’America Latina parlano, genericamente, delle riforme di Balmaceda, che avevano coalizzato contro di lui tanto i membri del suo partito - il liberale -, colpiti negli interessi dei grandi proprietari terrieri e degli azionisti delle miniere, quanto l’opposizione conservatrice, urtata dalla sua politica sociale verso le classi lavoratrici, che, in termini di odierno neoconservatorismo, si definirebbe solo di tipo «compassionevole». Ma, a ben guardare, furono proprio i primi a odiarlo di più, se possibile, dei secondi, tanto che riuscirono a trascinare nella rivolta armata contro di lui la Marina e una parte dello stesso Esercito - il suo successore fu appunto un ufficiale di Marina, Jorge Montt. E questo basta a smentire la favola che il Cile fosse pressoché l’unico Paese latinoamericano, almeno fino al 1973, a non aver mai conosciuto colpi di Stato militari, e nel quale le Forze armate si siano sempre mosse nel pieno rispetto della legalità istituzionale.
Tutto al contrario, il sanguinario «golpe» del generale  Augusto Pinochet contro il presidente eletto dal popolo, Salvador Allende, e che lo aveva personalmente nominato capo dell’Esercito, si inscrive nella linea inaugurata da Montt all’epoca della presidenza Balmaceda: anche le Forze armate cilene sono sempre state, più che mai, una istituzione di classe, pronta ad agire con pugno di ferro quando gli interessi che esse rappresentano siano anche solo lontanamente minacciati. Il fatto che ciò sia accaduto con frequenza assai minore che in altri Paesi di quel continente, come i suoi vicini Perù e Bolivia, non significa se non che quelle forze sociali - proprietari terrieri, industriali, banchieri e Chiesa cattolica, in sintonia con il capitale straniero largamente predominante nel’economia nazionale - hanno trovato in Cile maggiore stabilità che in quelli, e, di conseguenza, una minore necessità di fare ricorso all’uso della forza.
Balmaceda, comunque, non era affatto un rivoluzionario. Era un liberale progressista dalle ampie vedute, che aveva una concezione assai larga del futuro economico e sociale della propria nazione. Era convinto che una classe lavoratrice povera e sfruttata non avrebbe rappresentato che un fattore di debolezza e di ritardo per lo sviluppo del Paese; e, soprattutto, che le ricchezze minerarie nazionali dovessero tradursi in un maggiore beneficio per il Cile, e non esclusivamente - com’era allora - per le imprese straniere, in maggioranza britanniche. Ciò bastava a fare di lui la vittima designata della reazione degli interessi minacciati nei loro privilegi e nelle loro posizioni di rendita: in breve, quelli del capitale contro quelli del lavoro.
Così lo storico americano Hubert Herring delinea la personalità e il programma riformista del presidente Balmaceda (in H. Herring, «Storia dell’America Latina»; titolo originale: «A History of Latin America from the Beginnings to the Present», New York, Alfred A. Knopf, 1968; traduzione italiana di Francesco Ricciui, Milano, Rizzoli, 1971, pp.925-26):

«Il liberale José Manuel Balmaceda, incaricato della presidenza nel 1886, aveva di che essere soddisfatto, considerando la nazione in cui era stato chiamato a presiedere. I cileni ora non avevano dubbi per quanto riguardava lo splendore del loro futuro. Erano vittoriosi sui loro nemici [cioè la Bolivia e il Perù], il loro territorio si erra ingrandito [con le province di Arica e Antofagasta], e avevano ricchezze oltre ogni aspettativa [i giacimenti di nitrati delle nuove province, in un momento di grande richiesta del mercato internazionale]. Il nuovo presidente sembrava proprio l’uomo adatto per guidare una nazione vittoriosa. Bello, ricco, generoso e uno dei più grandi oratori del momento, Balmaceda riscuoteva grande ammirazione.  C’era sostanza e convinzione profonda nel suo liberalismo; a differenza di molti liberali non si accontentava di tormentare la Chiesa e di lavorare per un governo popolare e rappresentativo.  Il liberalismo di Balmaceda prendeva in considerazione la muiseria delle masse cilene, la povertà che rendeva l’uomo comune vittima dei proprietari terrieri egoisti. Il suo spiccato interesse sociale – ed egli era il primo presidente cileno Ad avere un simile interesse – era accompagnato da un rigido senso di responsabilità quale presidente-guida della nazione; sull’ultimo punto egli era inflessibile com’era stato il grande conservatore Diego Portales.
Balmaceda diede l’avvio a un ambizioso programma di lavori pubblici, per la costruzione di ferrovie e strade, per assicurare un efficiente sistema idrico alle città principali e alle minori, per provvedere al miglioramento delle condizioni igieniche, per mettere i servizi sanitari e le scuole alla portata di tutti - compresi i “rotos”, i cui interessi errano stati trascurati dai liberai del’epoca precedente. Il suo programma incontrò una violenta opposizione nel Congresso. I liberali, non ancora pronti per tali digressioni radicali, si volsero adirati contro di lui, i conservatori, irritati per i suoi provvedimenti umanitari persino di più di quanto non lo fossero per il suo anticlericalismo, gli mettevano i bastoni tra le ruote. I contribuenti in generale lo accusavano di dispendi esagerati.
Intorno0 al 1890 Balmaceda aveva pochi sostenitori al Congresso, che metteva in discussione le sue sue scelte di governo e rifiutava di approvare il bilancio. Gli fu negato il rispetto ch’egli meritava: da verro liberale egli avversava la tradizione coloniale spagnola e resisteva alla intransigente oligarchia dei proprietari terrieri, del clero e degli ufficiali di marina. Potenti famiglie lo combattevano perché il suo liberalismo era onesto e perciò contrario ai loro interessi. Nel gennaio del 1891 egli arditamente annunciò che avrebbe proceduto senza l’approvazione congressuale, avrebbe imposto il suo bilancio e nominato i suoi collaboratori. Una settimana dopo il Congresso votò la sua destituzione, e nominò un  ufficiale di marina, Jorge Montt, capo di un governo provvisorio.»

Questa descrizione della coalizione che si formò contro la politica riformista di Balmaceda è sempre meglio di niente, ma tace sul punto essenziale: vale a dire, sulla convergenza di interessi del capitale straniero, specialmente britannico, che il tentativo di limitare la sua strapotenza nel settore minerario cileno mise in movimento contro il presidente.
In confronto a quello che tenterà di fare Allende, circa ottant’anni dopo - vale a dire, la nazionalizzazione dell’industria mineraria - l’azione di Balmaceda non ha assolutamente nulla di rivoluzionario, anzi, è del tutto in linea con quello che qualunque governo liberale degno di questo nome, e non asservito al capitale straniero, desidera fare per trattenere in patria almeno una parte delle ricchezze prodotte dalla sua agricoltura, dalla sua industria e dalle sue risorse minerarie. Ma il Cile è in Sud America, e il Sud America, non appena liberatosi dal dominio coloniale spagnolo, era caduto immediatamente sotto l’egemonia economica britannica: né si dimentichi la parte decisiva svolta dalla Gran Bretagna in quel’evento, con la flotta dell’ammiraglio Cochrane che aveva trasportato gli eserciti indipendentisti di San Martin dal Cile a Callao, determinando il collasso finale del sistema politico-militare spagnolo (altrimenti tutt’altro che certo, almeno in Perù e Bolivia, cuore strategico dell’impero coloniale iberico).
Ora, la Gran Bretagna non era minimamente disposta a tollerare che le giovani repubbliche latinoamericane tentassero di emanciparsi dalla sua pesante ipoteca finanziaria e commerciale: si pensi, a solo titolo di esempio, che dietro la guerra condotta nel 1865-70 dalla Triplice Alleanza (Brasile, Argentina e Uruguay) contro il Paraguay del dittatore F. Solano Lopez vi era l’ombra del capitalismo britannico, ben deciso a impedire che quest’ultimo Paese si rendesse autarchico e si liberasse dal monopolio commerciale di Londra; guerra che, sia detto per inciso, si concluse con lo sterminio dell’intera popolazione maschile adulta del Paraguay, e che precipitò per sempre quella nazione nel sottosviluppo, da prospera e fiera che era stata.
Non è stata una bella pagina da parte della ricca, potente e liberale Inghilterra, che, proprio in quegli stessi anni, si faceva - per bocca di Kipling - portatrice dell’ideologia colonialista del «white man’as burden»,del «fardello (civilizzatore) dell’uomo bianco», in nome della quale soggiogava tutto il continente africano dal Cairo al Capo e conduceva una crudele guerra in Sudan contro i Mahdisti, affermando di volervi portare la civiltà e la religione (cristiana),  abolendo lo schiavismo e combattendo l’arretratezza e la miseria di quelle popolazioni.
I capitalisti britannici consideravano il salnitro del deserto di Atacama come loro naturale bottino; non solo possedevano quote azionarie notevolissime sia delle miniere che delle ferrovie realizzate per trasportare il minerale ai porti d’imbarco, sulla costa del Pacifico, ma controllavano altresì, attraverso la stampa a grande tiratura (come il giornale «El Mercurio»), buona parte dell’opinione pubblica che contava: con la quale, del resto, esisteva una oggettiva convergenza d’interessi. I proprietari terrieri erano indignati dell’aumento del costo del lavoro provocato dalla politica riformista di Balmaceda, così come gli azionisti stranieri delle miniere e delle ferrovie lo erano dal suo progetto di porre dei limiti all’acquisto di azioni delle compagnie minerarie per i cittadini di altra nazionalità.
A quell’epoca, la regione di Atacama, annessa al Cile dopo la guerra vittoriosa contro la Bolivia e il Perù, somigliava in maniera allarmante ad una gigantesca azienda britannica, così come, del resto, avveniva, al di là delle Ande, per la Patagonia argentina e per le sue immense mandrie di bovini. E la cosa più impressionante è che l’infeudamento dell’industria estrattiva cilena al capitale europeo e nordamericano, all’indomani della vittoriosa guerra del Pacifico, ebbe luogo proprio attraverso il capitale cileno. Come è stato ormai dimostrato dalla ricerca storica, le compagnie inglesi che s’impadronirono delle azioni di Tarapacà agirono con il denaro ottenuto in prestito dal sistema creditizio cileno: una autentica beffa ai danni di quel Paese, perpetrata con la complicità o la connivenza di importanti settori  bancari, giornalistici e politici.
Se il Cile avesse avuto una classe dirigente degna di questo nome, o anche, semplicemente, se i liberali cileni avessero fatto il loro normale mestiere di liberali, di certo non avrebbero giudicato tollerabile un tale stato di cose, e si sarebbero adoperati per porvi rimedio, come stava tentando di fare il loro presidente.
Invece, fu a quel punto che si operò la saldatura fra gli interessi del capitale straniero, legati all’industria estrattiva e alla rete ferroviaria, e quelli della borghesia nazionale, subalterni ai primi e paghi di conservare i propri meschini, egoistici privilegi di classe: basso costo della mano d’opera e minimo di spesa pubblica a favore dell’istruzione, della sanità, dei servizi d’interesse generale; e, viceversa, tassazione non progressiva sui redditi, in modo da concedere allo Stato solamente lo stretto indispensabile.
Insomma, la borghesia cilena si comportò come una classe sostanzialmente parassitaria, tutta intesa a produrre ricchezza non per il Paese, ma esclusivamente per se stessa: laddove, per dirla con Gramsci, emerge la differenza fra una classe dirigente e una pura e semplice classe dominante. Le analogie con il caso italiano, anche di questi nostri anni di inizio del terzo millennio, sono impressionanti, e preferiamo fermarci qui, per carità di Patria. Chi lo desidera, può sviluppare tutti i raffronti del caso, osservando, ad esempio, come le più recenti statistiche concordemente confermino che la ricchezza si va sempre più concentrando in un numero estremamente ristretto di famiglie, mentre tende ad aumentare inesorabilmente l’impoverimento di quelle che un tempo errano le “classi medie”: indice inequivocabile che nell’economia di un Paese esiste una tendenza parassitaria da parte delle classi abbienti.
La tragica vicenda del presidente Balmaceda e del suo fallimento riformista è stata acutamente delineata da Andre Gunder Frank nel suo ormai classico saggio: «Capitalismo e sottosviluppo in America Latina» (titolo originale: «Capitalism and Underdevelopment in Latin America. Historical Studies of Chile and Brazil», Monthly Review Press, New York and London, 1967; traduzione italiana di Mario Carrara, Torino, Giulio Einaudi editore, 1969, pp. 100-111):

«Il periodo seguente [a quello della Guerra del Pacifico, detta anche «guerra del salnitro»,1879-82] fu decisivo per il rafforzamento di questa tendenza verso il sottosviluppo nella struttura sociale, economica e politica del Cile.  Decisivo solo per modo di dire, naturalmente, perché il seme del sottosviluppo strutturale era già stato gettato dalla conquista e dalla struttura economica internazionale, nazionale e locale in cui fu integrata da allora la popolazione di questa terra potenzialmente molto ricca. Decisivo solo in quanto gli eventi successivi rappresentarono forse il tentativo più spettacolare di sradicare la pianta del sottosviluppo e sostituirla con una di sviluppo. D’altro canto, questo tentativo, legato al nome del presidente Balmaceda, fu meno decisivo di quanto sostengano scrittori come Pinto, Nolff, Ramirez e altri. Dopotutto, se fallì, come fallì in modo spettacolare, fu solo perché le sue possibilità di riuscita errano già state pregiudicate dalle stesse circostanze che avevano già causato fallimenti simili, anche se meno noti, nei tre secoli precedenti; le radici del sottosviluppo erano state piante troppo profondamente e troppo saldamente nella struttura, nell’organizzazione, e nel funzionamento del sistema economico di cui ilo Cile faceva parte dalle sue origini, e fino a oggi.
La spiegazione che studiosi come Jobet, Pinto, Ramirez, Nolff e Vera danno della frustrazione dello sviluppo all’epoca dei nitrati dei nitrati di Balmaceda, è da addebitare, talvolta esplicita,ente e talvolta più implicitamente, il non riuscito “decollo”del Cile verso la fine del XIX secolo alla infelice coincidenza di alcune circostanze più o meno speciali. Si potrebbe accettare questa spiegazione  se, come sostengono questi autori, il Cile fosse stato “chiuso”, autarchico o feudale fino alla seconda metà del secolo XIX (Jobert), o fino alla prima metà del medesimo secolo (Pinto e Nolff) o almeno fino al XVIII secolo, e avesse in seguito solo tardivamente tentato di passare dall’autarchia a “uno sviluppo orientato verso l’esterno” anziché “verso l’interno”. La dura realtà della storia e della struttura economica cilena» è che il Cile ha avuto fin dall’inizio una economia aperta, capitalistica e dipendente; in altre parole, le radici della sua arretratezza sono molto più profonde, e giacciono nella struttura del capitalismo e n on nel feudalesimo o nello “sviluppo verso l’esterno” o in una combinazione di questi ultimi due.  Di conseguenza, per far passare il Cile da sottosviluppo allo sviluppo , è necessaria una trasformazione strutturale molto più profonda  della sola deviazione da uno sviluppo capitalistico  orientato verso l’esterno  a uno orientato verso l’interno. […]
La guerra del pacifico fruttò al Cile le enormi ricchezze  delle province settentrionali, precedentemente peruviane o boliviane, che contenevano i maggiori depositi conosciuti al mondo di nitrati. Questi, prima del moderno sviluppo dei sostituti sintetici, costituivano, insieme al guano peruviano e cileno, il principale fertilizzante in commercio nel mondo. Le miniere di nitrato erano state aperte con capitale peruviano e cileno e in gran parte con il lavori cileno, e la guerra fu combattuta essenzialmente per il controllo d queste miniere. Il Cile vinse la guerra e le miniere, ma le conseguenze della vittoria furono disastrose. Essa attrasse ancora di più sul Cile l’interesse di una potenza metropolitana, la cui partecipazione agli affari economici e politici del paese segnò ulteriormente il destino del Cile al sottosviluppo. […]
“Le obbligazioni e i certificati emessi dal governo peruviano che avevano perso quasi tutto il loro valore (a causa della guerra del Pacifico) incominciarono improvvisamente a venire acquistati da misteriosi acquirenti… che li pagavano tra il 10 e il 20 per ceto del valore nominale in soles (moneta peruviana) svalutati… Quando il governo cileno decise [di convertire le obbligazioni peruviane in azioni) i nuovi detentori di titoli diventarono proprietari della parte di maggior valore dell’industria. La figura centrale di questo dramma, assurdo quanto sospetto, fu il quasi leggendario John T. North, che, per colmo di ironia, effettuò questa fantastica speculazione, che lo rese ‘il re dei nitrati’, con capitale cileno fornito dalla Banca di Valparaiso. Questo istituto, e altri in Cile, fecero credito per sei milioni di dollari a North e ai suoi soci per permetter loro di accaparrarsi  i titoli dei nitrati e le ferrovie di Tarapacà.  Il processo di decilenizzazione fu rapido e, stranamente, giunse fino al punto di ridurre la parte d’industria controllata dai cileni prima della guerra,. Secondo Encina, “… verso il 10 agosto 18834, il capitale peruviano era scomparso;  il capitale cileno era stato ridotto al 36 per cento, il capitale inglese raggiunse il 34 e il capitale europeo senza nazionalità specificata il 30 per cento” (Pinto, 1962).
Ben presto gli Inglesi eliminarono ancor più il capitale cileno:
“L’ex ministro Aldunate, che ebbe una parte importante nella decisione governativa di dare via libera alla cessione dei nitrati, più tardi, nel 1893, rifletteva malinconicamente: ‘Sfortunatamente,, grazie a una combinazione di circostanze che ci vorrebbe troppo tempo a ricordare, l’industria dei nitrati è completamente ed esclusivamente sfruttata da stranieri. Non vi è un solo cileno che possegga azioni delle floride ferrovie di Tarapacà… Le navi che trasportato la ricchezza della nostra terra dai nostri porti ai centri di consumo battono tutte bandiera straniera. Il combustibile usato per far funzionare le macchine è tutto inglese; e per rendere completo il monopolio straniero di queste industrie  anche tra tutti gli intermediari tra produttori e consumatori sono stranieri; e nelle mani di straneri resta anche tutto il profitto commerciale dell’industria” (Pinto, 1962). […]
Tuttavia “El Ferrocarril” […] sostenne il 28 marzo 1889:
“Le ricchezze accumulate dagli stranieri non dovrebbero ispirare invidia, perché esse sono il frutto legittimo della loro attività, del loro lavoro e della loro intelligenza; essi servono anche il nostro Paese, in quanto forniscono nuove industrie che sviluppano un maggior consumo di prodotti nazionali e giovano ai nostri sforzi…[…]
Anche se “El Ferrocarril” sosteneva che vi era “accordo generale” sul fatto che il Cile avrebbe prosperato attraverso le relazioni economiche con l’estero e che “nessuno potrebbe negare che di conseguenza la cooperazione straniera è indispensabile”, tale disaccordo e tale diniego esistevano, come il giornale sapeva fin troppo bene (era infatti la ragione per cui scriveva quello che scriveva) soprattutto nella persona del presidente appena eletto Balmaceda. Il discorso con cui accettava la nomina ala presidenza, il 17 gennaio 1886, proclamava la sua filosofia e il suo programma economico… […]
Ramirez riassume nel modo seguente la politica di Balmaceda nei riguardi dei nitrati e di altri settori economici:
“1) Spezzare il monopolio esercitato dagli inglesi a Tarapacà per evitare che questa regione diventi semplicemente un’azienda estera;
2) Stimolare la formazione di società nazionali per i nitrati con azioni non trasferibili a cittadini o società estere. In questo modo di neutralizza la preponderanza britannica  E contemporaneamente si rende possibile trattenere in Cile almeno una parte degli ampi benefici del’industria dei nitrati.
3) Evitare la crescita ulteriore d imprese straniere senza però interferire nelle attività già da esse avviate;
Sviluppare la produzione di nitrati ricorrendo a una tecnologia più avanzata, all’apertura di nuovi mercati e alla riduzione delle tariffe del trasporto marittimo e terrestre. Queste proposte intelligenti e lungimiranti non vennero mai messe in pratica” (Ramirez, 1958).
I conservatori e la chiesa sembrano aver riconosciuto alcuni dei meriti di Balmaceda, ma questo non significa che li abbiano apprezzato. Il loro portavoce, “Estandarte catolico”, scrisse il 4 giugno 1889, sotto il titolo impegnativo “Antes lo necesario que lo conveniente”… […]
La precisa differenza tra “necessario” e “utile” - cioè per chi fosse necessario il “bene generale” e a quale parte del “popolo” si dovessero alleggerire le tasse – è chiarito da due altri editoriali apparsi in altri giornali in quella stessa primavera del 1889:
“Grazie alle innumerevoli opere pubbliche che in questo momento vengono costruite in tutta la repubblica, l’anno passato i salari sono saliti in misura tale da meritare da essere notati dagli economisti. I lavoratori che precedentemente erano pagati 70 centesimi al giorno senza i pasti, ora ricevono sui cantieri di costruzione 90 centesimi e cibo per un valore di altri 26 centesimi circa al giorno” (Ramirez 1958, da “La Tribuna2, 20 aprile 1889).
“La crisi si aggrava. La mancanza generale di lavoratori, ai salari già alti.  Allo stato terribile dei vigneti e alla cattiva qualità dei prodotti in generale, si sono ora aggiunti i salari più alti ancora  con cui la Clark Railroad Company attrae la maggior parte dei lavoratori.  Oggi, i viticoltori si trovano nella impellente necessità di pagare i medesimi salari della Clark Railroad se vogliono completare il raccolto in tempo utile. Sarebbe molto utile se la Compagnia facesse del suo meglio per attrarre da altre regioni il resto della manodopera di cui ha bisogno” (Ramirez, 1958, da “Ecos de los Andfes2, 18 aprile 1889).
Questo lascia ben pochi dubbi su che cosa fosse giudicato necessario e per chi,  e su cosa fosse giudicato immediatamente “utile” e per quale parte della popolazione e, nel lungo peridio, per quale sviluppo dell’intera economia.
Il presidente Balmaceda, analogamente, fu del tutto chiaro sulle persone e sulle istituzioni, e su quali gruppi, interessi e forze essi rappresentassero: “Il Congresso è un covo di corruzione. Vi è un gruppo che lavora con oro straniero e che ha corrotto molte persone. Vi è un uomo ricco che ha accalappiato la stampa e anche gli uomini. Le forze del Partito del Congresso hanno ondeggiato tra vizi e ambizioni personali. La popolazione è rimasta tranquilla e contenta, ma l’oligarchia ha corrotto ogni cosa” (Ramirez, 1958). Il “Times” di Londra non era meno informato o istruttivo: “Il partito del Congresso è composto soprattutto da amici dell’Inghilterra, che rappresentano gli elementi conservatori e ricchi, oltre che dall’intellighenzia del paese” (“Times”, 22 giugno 1891). Pochi mesi più tardi, dopo che si era mobilitata l’opposizione contro di lui, Balmaceda osservava”Noi subiamo una rivoluzione antidemocratica, iniziata da una piccola classe centralizzata che, a causa dei suoi rapporti personali, si crede in dovere di ritenersi il gruppo dominante e privilegiato nel governo” (Ramirez, 1958).
L’alleanza imperialistica e nazionale tra interessi finanziar, minerari e agricoli non tardò a muovere in forza contro il presidente Balmaceda. “Quando alla fine del 1890n e all’inizio del 1891  alcune persone si preparavano alla guerra che stava per scoppiare, Augustin Edwards e Edoardo Matte consegnarono a Joaquin Edwards, a Valparaiso, gli ordini di pagamento per le somme con le quali essi contribuivano a finanziare gli eventi futuri (“El Ferrocarril”, 17 gennaio 1892) “Le spese avvenute in Europa durante i primi mesi della rivoluzione al servizio della causa del Congresso furono da noi coperte con fondi prelevati dalla banca A. Edwards y Compñia”… […]
Nell’ultimo secolo, era il capitale britannico (appropriato, anche se non apportato) a predominare che predominava in Cile. Il rappresentante americano in Cile non aveva dubbi su questo quando, il 17 marzo 1891, informava il Dipartimento di Stato: Come fatto di particolare interesse, osso osservare che la rivoluzione gode della totale simpatia, e in molti casi del’attivo sostegno, da parte degli inglesi residenti in Cile… è noto che molte aziende  inglesi hanno contribuito generosamente ai fondi rivoluzionari. È ammesso apertamente dai leaders della guerra civile che, tra gli altri, John T. North  ha contribuito con la somma di centomila sterline” (Ramirez, 1958). […]
Il “Times” di Londra riassumeva così la situazione il 28 aprile 1891: “È ovvio che già molto prima di dicembre la maggioranza del Congresso e dei suoi alleati erano giunti alla conclusione che una rottura con l’esecutivo e un tentativo di rivoluzione fossero inevitabili. Non è sorprendente che, con l’influenza di quasi tutte le famiglie terriere, dei ricchi stranieri e della chiesa,essi considerassero facile la caduta del presidente.  Inoltre avevano ottenuto l’appoggio della marina, e di pensavano di avere quello di gran parte dell’esercito. Quindi, non dubitavano che non appena la bandiera rivoluzionaria fosse apparsa, essa sarebbe stata il segnale per la nascita di un movimento popolare  a loro favorevole in tutto il paese.  Una parte di queste aspettative si è realizzata.  Le grandi famiglie, i grandi capitalisti nazionali e straniere, i proprietari di miniere  di Tarapacà, la marina e un piccolo numero  di disertori dell’esercito sono con loro. Ma la grande maggioranza della popolazione non ha mostrato segni di rivolta, e nove decimi dell’esercito restano fedeli al governo in carica”. (Ramirez, 1958)
Il governo del presidente Balmaceda fu rovesciato con una guerra civile sanguinosa,  e il presidente stesso fu costretto al suicidio. Gli interessi economici stranieri e il governo americano non meno di quello britannico, che li rappresentavano, non era orinasti passivi. Il console inglese telegrafò Al Foreign Office nel 1891: “In cambio dell’aiuto sopra menzionato contro le forse rivoluzionarie, il governo degli Stati Uniti pretende che il Cile denunci i trattati con i paesi europei e sottoscriva un trattato commerciale con gli Stati Uniti” (Ramirez, 1958). Nello stesso anno il corrispondente cileno del “Times” di Londra si rivolgeva al Foreign Office (più che al suo giornale) ed esprimeva il timore che “sarebbe stata una vergogna se il Cile, che su questa costa era stato finora un baluardo contro l’interpretazione  della dottrina di Monroe fatta da Blaine, divenisse ‘blainiano’ nostro malgrado” (Ramirez, 1958). L’allora segretario di Stato degli Stati Uniti James G. Blaine aveva solo poco prima, nel 1889, convocato a Washington il primo Congresso panamericano, al fine di fondare l’Unione panamericana, il cui edificio, per non parlare della politica, è passato all’attuale organizzazione degli stati americani Ma, fortunatamente per gli inglesi, se non necessariamente per i cileni, il timori britannici che il Cile divenisse “‘blainiano’ nostro malgrado” erano ancora prematuri…»

Bisognerà aspettare, infatti, per questo cambio della guardia fra l’imperialismo britannico e quello statunitense nel Cile e nella maggior parte dei Paesi dell’America Latina, gli anni successivi alla prima guerra mondiale; e non dimenticando che, nei primi anni del Novecento, quello tedesco giunse a mettere seriamente in forse l’egemonia della Borsa di Londra e dei cartelli inglesi, finché la guerra del 1914 non lo spazzò via dalla concorrenza.
A partire dagli anni Venti del XX secolo, l’intero continente latino-americano cade sotto l’egida della superpotenza statunitense, pronta ad intervenire anche sul piano militare o attraverso il finanziamento di opportuni colpi di Stato, per impedire che qualche governo locale osi rimettere in discussione anche solo una parte degli smisurati proventi delle compagnie multinazionali in tutti i campi del’economia: dall’agricoltura all’allevamento, dall’estrazione petrolifera e mineraria alla pesca, dall’industria ai trasporti internazionali.
La vicenda della presidenza Balmaceda, e della guerra civile che pose fine al suo esperimento riformatore, è esemplare anche da un altro punto di vista; e cioè perché, oltre a mostrare come un Paese nelle condizioni del Cile fosse pressoché condannato al sottosviluppo dal sistema finanziario e commerciale internazionale, allora dominato dal capitale britannico, evidenzia anche l’arretratezza della cultura politica di tutti i Paesi latinoamericani, arretratezza che rese pressoché inevitabile la disfatta degli ambiziosi programmi del presidente.
Quando Balmaceda accusava il Congresso di essere un centro di corruzione, e spostava il centro del dibattito dal piano economico e finanziario a quello etico e morale, ripeteva, forse senza rendersene conto, l’errore di Robespierre negli ultimi tempi del governo giacobino, davanti alla sorda opposizione della Convenzione. Anche Robespierre, nel suo ultimo discorso alla Convenzione, aveva accusato i convenzionali di essere collusi con i corrotti e gli accaparratori; a giudizio di moltissimi storici, il colpo di Stato di Termidoro non avrebbe avuto luogo, se l’Incorruttibile, richiesto dall’assemblea di fare i nomi, non avesse rifiutato di rispondere, facendo così sentire tutti in pericolo e decretando la propria fine, che si concretizzò mediante una temporanea e innaturale alleanza fra l’estrema sinistra vicina ai sanculotti (Billaud-Varenne e Collot d’Herbois) e gli elementi più moderati e  collusi con la speculazione (Tallien, Barras), alleanza tessuta con estrema abilità dall’onnipresente Fouché.
Ma quando un uomo politico rivoluzionario, chiamato alla direzione del governo del proprio Paese, invece di individuare i concreti interessi economici che intende colpire e di appoggiarsi alle forze nuove che si propone di favorire, si abbandona ad accuse morali contro il vizio dei propri avversari, si avventura su un terreno sdrucciolevole, ove non troverà amici ma soltanto nemici, perché tutti si sentiranno danneggiati e minacciati dal suo inflessibile richiamo all’onestà; e questo tanto maggiormente, quanto più la classe politica del momento sia realmente sprofondata nella corruzione.
Balmaceda, comunque, non era un giacobino e nemmeno un rivoluzionario; o meglio, il suo torto fu appunto quello di voler fare una politica di fatto rivoluzionaria, ma nel pieno rispetto della legalità parlamentare e aspettandosi, ingenuamente, che la maggioranza del Congresso capisse e apprezzasse le sue buone intenzioni. Al contrario, nulla importava al Congresso della miseria delle classi lavoratrici: ad esso era sufficiente la salvaguardia della propria posizione dominante, e questo era tutto ciò che desiderava da un presidente della Repubblica.
In questo idealismo, in questa ingenuità e in questo suicidio politico annunciato, consiste il parallelo fra Robespierre e Balmaceda, salve restando tutte le altre, notevolissime differenza tra i due: idealismo e ingenuità che li spinsero a non vedere la vera natura delle forze avverse ai loro progetti, e che li perdettero entrambi.
Il fatto, poi, che sia il rivoluzionario francese, sia il presidente cileno, fossero degli eccellenti oratori, abituati a trascinare l’uditorio con la forza impetuosa della propria eloquenza e non con il freddo ragionamento politico ed economico, può essere considerato come una semplice coincidenza?