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E’ sempre la presenza di un Terzo che fonda e garantisce l’idea di giustizia

di Francesco Lamendola - 06/01/2010

Il concetto di “diritto” non esisterebbe se non esistesse, a monte di esso, quale suo fondamento logico e ontologico, il concetto di “giustizia".
Se non esistesse l’idea di giustizia, ciascuno potrebbe fare qualsiasi cosa e, se avesse la capacità di eludere opportunamente gli ordinamenti sociali, non proverebbe alcun rimorso per il fatto di commettere azioni ingiuste.
È evidente che, se gli esseri umani possiedono le nozioni di “giusto” e “ingiusto”, possiedono anche quello di “bene” e “male”: giusta, infatti, è un’azione conforme al bene; ingiusta, un’azione conforme al male. Di conseguenza, l’idea di giustizia è fondata, a sua volta, sull’idea di bene, così come quella di ingiustizia lo è sull’idea di male.
Ora, le azioni ingiuste possono essere tali nei confronti di se stessi, nei confronti dell’altro (che comprende i propri simili, i propri dissimili - come gli animali - e la natura tutta) e nei confronti dell’Essere. In genere, nella società odierna, si tende a dimenticare la prima e la terza situazione: la prima, per la caratteristica estroversione della vita moderna; la terza, per il suo altrettanto tipico agnosticismo.
Strana contraddizione. Se si pone in dubbio l’idea del Bene, ossia la fondazione ontologica del bene fattuale, empirico, ne deriva che né la giustizia, né il diritto poggiano su basi solide: tutto dipende da un codice riconosciuto e imposto con la forza a ciascuno, almeno nel contesto di una data società; sempre che essa non entri in contatto con una società ove vigano altri codici, ciò che darebbe inevitabilmente luogo a un conflitto impossibile da mediare.
Perciò, il tentativo della modernità di fondare una idea di giustizia, e per conseguenza un diritto, puramente immanenti, fattuali, è contraddittoria in se stessa: mancando un terzo che sia veramente al di sopra delle parti, che cosa mi impone di rispettare una determinata condotta nei confronti dell’altro, oltre che di me stesso? Siffatto terzo non può essere lo Stato, perché anch’esso non è che l’espressione di forze sociali che hanno conquistato il potere politico: non è veramente “super partes”, né potrebbe esserlo.
Tale è stato, in effetti, il paganesimo dei totalitarismi del XX secolo: la pretesa di innalzare lo Stato a Realtà assoluta, che ha in se stessa la propria giustificazione etica; e si noti che anche il Pensiero Unico democratico dei nostri giorni ha imboccato la medesima china. Sotto l’apparenza di difendere la più ampia sfera di libertà del singolo cittadino, lo Stato democratico tende a porsi come istanza etica suprema, proprio perché investito di quella missione: paradosso e Nemesi dell’ideologia, in cui lo strumento pretende di ergersi a fine in sé.
Ciò che il pensiero moderno ha dimenticato è l’esigenza di un terzo che sia veramente “super partes”, vale a dire di una idea di giustizia che si fondi non sul dato empirico, quale la sottoscrizione di un patto sociale fra individui da cui scaturisca un determinato codice, piuttosto che un altro; ma su di un terzo che, nella sua essenza, non può essere che il Bene e il Giusto. Ed è su questo Terzo, che ora scriviamo con la lettera maiuscola, che gli uomini pre-moderni fondavano i propri codici e il proprio diritto: riconoscendo, cioè, che questi ultimi non traevano legittimità da circostanze empiriche, ma dal fatto di ispirarsi precisamente a quel Terzo, anteriore ad ogni dato storico e ad ogni fondazione umana.
Possiamo esprimere questo concetto dicendo che l’uomo pre-moderno obbediva alle leggi terrene, o, comunque, ammetteva la loro legittimità, perché riconosceva in esse un riflesso, per quanto pallido e imperfetto, dell’unica vera Legge, quella ultraterrena.
Qualunque tentativo di fondare una idea di diritto, una idea di giustizia o una idea di bene, che escluda programmaticamente  la sussistenza ontologica di codesto Terzo, e sia pure come ipotesi meritevole di considerazione, non può che naufragare nel relativismo e, in ultima analisi, nel nichilismo.
Questo è il dramma intimo del mondo moderno: tutti gli altri drammi - politici, sociali, economici, culturali, ecologici - ne sono la diretta conseguenza. Se si nega la realtà di quel Terzo, capace di fondare il bene e la giustizia perché li possiede in se stesso e non li deriva da alcuno, tutto il resto non può che crollare.
Ha scritto  l’illustre storico della filosofa Alexandre Kojève in «Linee di una fenomenologia del diritto» (titolo originale: «Esquisse d’une Phénoménologie du Droit», Paris, Gallimard, 1982; traduzione di Rosabruna D’Ettorre, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 31; 35; 37):

«Come ogni entità reale, il Diritto a) si “mostra” o si “rivela” all’uomo; b) “esiste”, o entra in relazione con altre entità (che modifica o codetermina, subendone nello stesso tempo i contraccolpi), e c) “è”, sia in se stesso che nell’insieme dell’Essere. Una analisi completa del diritto dovrebbe dunque tener conto di questi suoi tre aspetti, essere cioè non solo “fenomenologica”, ma anche “metafisica” e “ontologica”. […]
C’è una situazione giuridica  (o un rapporto giuridico) sempre  - e solo – quando si ha il DIRITTO di fare o di omettere qualcosa. (….)  C’è una situazione giuridica  (o un rapporto giuridico)  sempre - e soltanto -  se si ha il DIRITTO a un comportamento effettivo (o ad un’azione, sia positiva che negativa).
… si può constatare la presenza del diritto basandosi unicamente  sul fatto dell’intervento del terzo.  E si può anche aggiungere che è sufficiente sapere  che si è di fronte a una situazione giuridica, per essere indotti a postulare (o a prevedere) un tale movimento (almeno in quanto possibile)
Si deve dunque concludere che il diritto non può rivelarsi all’uomo, senza che costui constati o postuli un intervento disinteressato  di un terzo. In altre parole questo intervento è un elemento costitutivo necessario, o “essenziale”, del fenomeno “diritto”. »

Naturalmente, qualcuno potrebbe negare che noi ci troviamo, per il semplice fatto di esistere, in una situazione giuridica. Padronissimo di farlo: ma sarebbe come negare che l’uomo sia un essere sociale. Fino a quando gli esseri umani sentiranno il bisogno di vivere in società, essi, automaticamente, verranno a trovarsi in una situazione giuridica, vale a dire in nella condizione di poter fare certi atti e di doversi astenere da altri.
Diremo di più: anche Robinson Crusoe, completamente solo e abbandonato sulla sua isola in mezzo all’oceano, si trovava in una situazione giuridica. Le capre che cacciava o che allevava, le piante che coltivava, la sua stessa vita solitaria, di cui era, nondimeno, il padrone, lo ponevano in una situazione giuridica: a meno che noi affermiamo che solo nei confronti dei nostri simili abbiamo il dovere di rispettare un determinato codice di comportamento.
È peraltro evidente che, dall’idea di bene e da quella di giustizia, scaturiscono conseguenze diverse, a secondo del piano su cui ci si pone: sul piano pratico, scaturisce la necessità di un diritto positivo; sul piano della coscienza, scaturisce l’evidenza di una morale che - di nuovo - non può essere posta da noi, perché, in tal caso, il MIO bene coinciderebbe con il bene, e il MIO senso del giusto coinciderebbe con la giustizia. Ma nessun altro potrebbe sottoscrivere tale identificazione, e da ciò nascerebbe un conflitto immediato e permanente, che sarebbe deciso solo dalla forza.
Ora, l’idea del diritto è proprio quella che consente di superare l’ottica della forza e mette quest’ultima al servizio di un principio ad essa superiore: il principio secondo cui una cosa è giusta in se stessa, e non perché lo afferma qualcuno che è più forte di noi.
Anche da questo lato, quindi, si arriva a riconoscere l’assoluta imprescindibilità della situazione giuridica quale componente della condizione umana: se togliamo la situazione giuridica, ricacciamo l’umanità nella barbarie di una violenza senza fine.
Abbiamo detto che il diritto positivo è una emanazione, o un riflesso, di quel Terzo, che compendia in sé la somma Giustizia e il sommo Bene.
Se non vi fosse quel Terzo, ciascuno sarebbe perfettamente libero di fare di se stesso qualsiasi cosa, e di fare qualsiasi cosa agli altri, purché fosse abbastanza abile da evitare le eventuali conseguenze spiacevoli delle proprie azioni. Se non vi fosse quel Terzo, inoltre, ciascuno sarebbe libero di agire contro se stesso e contro gli altri, in accordo con determinate situazioni giuridiche formali (ad esempio, l’omicidio legalizzato in tempo di guerra), senza che la voce interiore vi si ribellasse, rivelando il proprio disaccordo.
Invece, quella voce interiore esiste: tanto è vero che, per tentare di coprirla, sia i singoli individui che le società mettono in opera tutte le strategie di cui sono capaci, una volta che abbiamo deciso di rendere formalmente lecite delle azioni moralmente  ingiuste.
Ogni volta che noi tradiamo un amico, ogni volta che deludiamo volutamente coloro i quali credevano in noi, con ciò calpestiamo una idea di giustizia che non scaturisce da un diritto formale, ma che è inscritta nel nostro statuto ontologico: dimostrazione evidente del nostro legame originario, inscindibile con l’Essere. Noi ci siamo dati una legge formale perché possediamo una legge morale, e non viceversa.
Ed è questo Terzo che rende sacra la nostra persona, sacro il nostro rapporto con gli altri esseri umani e con tutti i viventi, sacro il nostro essere nel mondo e con il mondo. La nostra persona è sacra ed è sacro il nostro rapporto con l’altro: non perché noi siamo i padroni di qualcosa, e nemmeno di noi stessi, ma, al contrario, perché il nostro esserci corrisponde a una legge, e dunque non sta in noi infrangere ciò che non ci siamo dati da soli.
Venendo al mondo, noi abbiamo accolto una chiamata e realizzato una vocazione: è stato un atto volontario, mediante il quale abbiamo assunto un impegno preciso verso noi stessi e verso il mondo che ci ha accolti. È questo impegno che ci pone in una situazione giuridica, perché l’essenza del diritto è la nozione di “dovere”. Se non avessimo impegni verso alcuno, neanche verso noi stessi, non avremmo la nozione del dovere da compiere e dell’impegno da rispettare.
Noi abbiamo la nozione di una legge perché la Legge esiste; non solo: perché la Legge è la sostanza stessa della realtà. La Legge è l’ordine universale che parla attraverso ogni singola coscienza; è l’armonia che permea gli enti sia in se stessi che nelle loro relazioni reciproche. È da essa che discende il concetto umano della legge, come la luce del giorno deriva dal Sole, fonte inesauribile di luce che si pone al di sopra ciò che noi chiamiamo il giorno e la notte.
La modernità, pretendendo di emancipare l’uomo dall’Essere, ha prodotto una singolare schizofrenia: da un lato essa ha proclamato la signoria assoluta dell’uomo sul mondo; dall’altro, lo ha fatto sentire intimamente vuoto, quasi superfluo. Perciò, dietro le apparenze dell’edonismo, la modernità ha prodotto nell’uomo un profondo rifiuto e un profondo disprezzo di se stesso. Se egli si volesse veramente bene, avrebbe un maggiore rispetto di se stesso e della funzione di responsabilità che è chiamato a svolgere nel mondo; non si butterebbe via con tanta facilità, come cosa del tutto priva di valore.
Noi non solo ABBIAMO un valore, ma SIAMO anche un valore; tutto ciò che è esiste ha un valore ed è un valore: tutto ciò che esiste, noi compresi, è sacro. La giustizia della Legge consiste proprio nell’affermazione di questa sacralità; sacralità che noi non possiamo darci da noi stessi, perché la nostra legge è imperfetta e mutevole, e i nostri sistemi giuridici non sono che pallidi riflessi di quella Legge perfetta e perenne, che precede e fonda le leggi umane.
Così, l’oblio dell’Essere ha portato con sé anche l’oblio del bene e l’oblio della giustizia: il mondo moderno è un mondo costruito sull’ingiustizia, perché fondato sulla negazione e sul rifiuto della sorgente perenne della giustizia.
Oltrepassare la modernità, pertanto, significa ritrovare il senso della giustizia e, con essa, l’idea del Bene, vale a dire l’idea dell’Essere, senza la quale siamo come naufraghi alla deriva su un mare tempestoso.
Si tranquillizzino  i progressisti di ogni specie: non si tratta di un passo indietro, ma di un passo avanti sulla via del perfezionamento spirituale, senza il quale ogni progresso materiale risulta  inutile o, addirittura, altamente pericoloso.