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Riappacificarsi con il proprio passato per poter avanzare senza fantasmi alle spalle

di Francesco Lamendola - 08/01/2010

 

Fra tutte le cose che ostacolano il nostro progresso spirituale e il raggiungimento di uno stato di autentica consapevolezza, forse la più insidiosa, certo la più ardua da rimuovere dal nostro cammino, è la difficoltà di integrare il nostro passato, specialmente se doloroso o irrisolto, con il nostro presente, togliendogli la sua carica di veleno e trasformandolo in occasione di crescita e di maturazione.
È forse la più difficile, proprio perché il passato è - almeno nella prospettiva comunemente diffusa al riguardo - in se stesso immodificabile; per cui, se nella nostra storia personale vi sono delle disarmonie, delle cicatrici non rimarginate, o, peggio, dei buchi vuoti, delle assenze che ci hanno segnati, in genere si pensa che non vi sia più nulla da fare al riguardo; e, in particolare, che non esistano strategie per recuperare il tempo perduto. Una persona che, ormai anziana, si volga indietro e non riesca a scorgere altro che sofferenza, vuoto e delusione, non ha più alcuna possibilità - così, almeno, si pensa solitamente - di riappropriarsi delle esperienze non fatte, delle carezze non ricevute, delle gioie non vissute quando era giovane.
Ma è proprio vero?
Prima di esaminare la questione, una precisazione preliminare. Si dirà che la problematica ora posta è una questione centrale della psicanalisi, sulla quale c’è poco da dire se ci si pone da un punto di vista più filosofico che psicologico; qualcuno potrebbe anche obiettare che, dopo aver descritto più volte la psicanalisi come una forma di bassa magia nera, ora andiamo a rovistare fra  suoi cascami, come se avessimo fatto la scoperta dell’acqua calda.
Rispondiamo alla prima obiezione che la psicanalisi si è concentrata in maniera pressoché esclusiva - e, secondo noi, maniacale - sulle ferite inconsce della prima e primissima infanzia, riducendole tutte d altrettanti traumi sessuali di vario genere; mentre noi, presentemente, vorremmo riflettere sulle ferite dell’età adulta, niente affatto inconsce e non necessariamente attinenti la sfera sessuale. Sono queste ultime, a nostro avviso, quelle che più di tutte condizionano l’equilibrio esistenziale dell’individuo adulto e gli impediscono di progredire sulla via della consapevolezza spirituale; perché i fantasmi del passato sono sempre lì, in agguato, a tendere continuamente le loro trappole sul suo cammino.
Alla seconda obiezione, rispondiamo di non avere per nulla cambiato idea circa la natura delirante, e tendenzialmente distruttiva, della psicanalisi, specialmente quella d’impostazione freudiana; ma che, appunto, non è dei traumi inconsci dell’infanzia che desideriamo parlare, ma di quelli consci dell’adolescenza, della giovinezza e dell’età adulta; e, inoltre, che il nostro punto di vista non sarà tanto quello psicologico, ma bensì quello filosofico: vale a dire che non ci interesseremo tanto alla sfera della psiche individuale, quanto alla natura del rapporto esistente fra essa e ciò che si suole chiamare, parlando in maniera un po’ imprecisa e generica, la realtà (da non confondersi con il freudiano «principio di realtà», che altro non è se non la servile adorazione della situazione esistente, sia a livello sociale che individuale).
Inoltre, a differenza dell’approccio psicanalitico, quello che a noi interessa non è l’individuazione del trauma originario che ha generati sofferenza e nevrosi, allo scopo di ristabilire l’equilibro della psiche: con tutto il rispetto per la psicologia, noi crediamo che il buon terapeuta non è quello che desidera guarire per guarire, ma colui che si sforza di sgombrare  il terreno affinché l’anima possa ritrovare la propria strada, vale a dire intraprendere o proseguire il proprio cammino di consapevolezza.
Non è una distinzione da poco. Se l’anima non sa che farsene della salute, tornerà ad ammalarsi; se non sa come gestire il presente, ricadrà preda dei fantasmi del passato. La guarigione non è un evento, ma un processo; e, come tutti i processi spirituali, deve avere uno scopo che vada oltre le semplici premesse, vale a dire il ristabilimento della situazione iniziale. Così, noi definiamo guarita non già l’anima che sia ricondotta allo stato precedente l’insorgere della malattia, bensì l’anima che abbia saputo trasformare la malattia stessa in un processo di liberazione e in un aumento di consapevolezza. Se ciò non avviene, l’anima non può dirsi realmente guarita: sarebbe più esatto dire che la sua malattia è sotto sedativi.
Dunque, potremmo riformulare domanda che ci eravamo posta inizialmente, più o meno in questi termini: è possibile che una persona si riconcili con il proprio passato, anche quando le situazioni negative in esso sperimentate non sono più suscettibili di venire modificate, vuoi perché le circostanze sono mutate irrimediabilmente, vuoi perché le persone coinvolte non ci sono più, vuoi, ancora, perché - verosimilmente - non rimane più tempo per colmane quei vuoti, per medicare quelle ferite, per fare la pace con il proprio vissuto di un tempo?
Partiamo da quest’ultima situazione, che, essendo quella estrema, comprende in se stessa anche le altre, diciamo così, meno gravi. Infatti, quale situazione potremmo immaginare più grave di questa: un’anima che acquista coscienza di aver sprecato la propria vita, di essere vissuta sempre sotto il peso di un passato che non passa; ed acquista tale coscienza quando ormai la vita fisica è giunta quasi alla fine, e l’orizzonte del futuro si è ristretto a un piccolo spiraglio, che potrebbe chiudersi definitivamente da un giorno all’altro?
Situazione estrema, in cui la speranza esce di scena e non rimane che l’amarezza di una vita mancata, di un immenso bagaglio di rimpianti, di una assoluta impotenza a modificare ciò che appare come immodificabile: il proprio senso nel mondo. Si tratta, probabilmente, della situazione esistenziale peggiore nella quale un’anima possa venire a trovarsi: la più vicina, crediamo, a ciò che, nel linguaggio comune, si suole chiamare «l’inferno».
E tuttavia, sfrondando il nostro punto di osservazione da eccessivi coinvolgimento emozionali e considerando con sguardo lucido e spassionato i termini della questione, dobbiamo ammettere che nessuna situazione esistenziale è veramente disperata, finché esiste la possibilità di una reale comprensione, dischiusa dall’apertura della vista interiore. Un essere umano può dare un senso alla propria vita e trasformare la negatività di un passato doloroso anche nell’ultimo giorno della propria vita, beninteso a determinate condizioni.
Crediamo che l’insegnamento tradizionale del cristianesimo, relativo alla possibilità di salvezza dell’anima peccatrice anche in punto di morte, purché essa si converta sinceramente e incondizionatamente, contenga questo nocciolo di verità. Noi possiamo salvarci dall’inferno di una morte disperata se siamo in grado di assumere la responsabilità integrale del nostro passato, con tutto il male e tutto il bene che esso contiene; se sappiamo trasformare il rancore, la frustrazione, l’invidia, in serena e confidente accettazione del presente; se siamo disposti a riconoscere, in un supremo atto di consapevolezza, che noi e soltanto noi siamo stati i veri nemici di noi stessi, del nostro mancato progresso spirituale e, in ultima analisi, della nostra infelicità.
Che cosa facciamo, invece, sotto il peso di un passato deludente e doloroso, se non accusare gli altri, la sorte, il destino, gli dèi, e chissà che altro ancora? In questo modo, noi tentiamo di scaricare sulle circostanze esterne la responsabilità di non essere stati capaci di vivere nel modo giusto e, poi, di non essere capaci di prepararci nel modo giusto alla morte.
Tra questi due errori e tra questi due fraintendimenti essenziali, l’ignoranza del vivere e l’ignoranza del morire, l’anima si dibatte come un uccello preso in trappola, con le zampette imprigionate nelle reti tese dall’uccellatore. In questo senso, crediamo, bisogna interpretare la famosa sentenza di Platone, secondo cui lo scopo della filosofia è precisamente quello di apprendere l’arte di prepararsi a morire.
Perché si muore come si è vissuti: e una vita non è mai veramente squallida e vuota, se non quella che, giunta alla fine, si giudica tale da se stessa. Solo in questo caso la morte dovrebbe fare veramente paura: la morte, infatti, non è che la naturale conclusione, non della vita in astratto - come spesso si sente dire -, ma della PROPRIA vita.
Così come non ci sono due vite che si assomigliano veramente, perché ogni vita è un processo unico e irrepetibile e un singolare intreccio di circostanze, e, in essa,  anche le somiglianze esteriori celano profonde differenze di senso; così non ci sono due morti identiche: sicché è radicalmente sbagliato e fuor di luogo parlare della morte in generale, come se essa corrispondesse ad una categoria universale.
Abbiamo detto, dunque, che non è mai troppo tardi perché una vita riacquisti il proprio significato, e che ciò avviene allorché l’anima è divenuta consapevole di se stessa e capace di assumersi la responsabilità del male e del bene del proprio passato. Non abbiamo detto, però, COME ciò possa accadere; ed è su questo aspetto del problema  che dobbiamo svolgere una ulteriore riflessione, o almeno tentare di suggerire un percorso.
La filosofia non può accontentarsi di delineare delle teorie e di indagare delle ipotesi speculative; deve anche, e soprattutto, mostrare la via da percorrere. Come diceva Kierkegaard, sarebbe un argomento gravissimo contro la filosofia, se essa non fosse in grado di dire a me, proprio a me, che cosa devo fare della mia vita. Lasciamo ai filosofi chiacchieroni e da sbadiglio, come Hegel, il discutibile vanto di avere spiegato a parole il mondo intero; l’arte della parola è la sofistica, e non ha nulla a che fare con una bene intesa pratica della filosofia.
Dunque: come è possibile, praticamente, riappacificarsi con il proprio passato, quando esso continua a gravarci con il peso insopportabile di speranze tradite, di illusioni perdute, di incontri mancati, di attese sfiorite; e, per giunta, quando ormai le strade della vita sono giunte quasi al tramonto, sicché sarebbe impossibile sperare di ritrovare quel che abbiamo perduto, o quello che abbiamo inseguito da sempre, senza averlo mai trovato?
Per tentare di rispondere a questo interrogativo, dobbiamo porre una ulteriore domanda: da che cosa nasce, precisamente, uno stato d’animo come quello che abbiamo testé descritto? Sostanzialmente, crediamo che esso nasca un gravissimo errore della prospettiva esistenziale: vale a dire, dal credere che, nella vita, si possa ricevere più di quel che si è disposti a dare; ovvero, che possa esistere una sorta di congiura del destino contro le anime belle.
Al contrario, non c’è alcuna congiura del destino e a nessuno è fatto torto, se la vita non riserva ad alcuni ciò che essi ritengono spetti loro: forse hanno chiesto troppo; forse hanno chiesto cose sbagliate; forse non hanno saputo domandare nella maniera giusta. D’altra parte, osservare il destino degli altri, e istituire un confronto con ciò che noi abbiamo ricevuto nella nostra vita, è fuorviante: perché, dall’esterno, è facile scambiare lucciole per lanterne; ad esempio, giudicare felici e appagate delle persone che, nel loro intimo, sono  deluse e disperate. No, non è un buon sistema quello di fare confronti con la vita degli altri e trarne delle conclusioni di carattere generale: così come non esiste la morte in teoria, ma solo l’evento unico e irripetibile della morte di ciascuno; allo stesso modo non esiste un qualcosa che si possa chiamare la vita, e, meno ancora, un qualcosa che si possa giudicare - dall’esterno - felicemente riuscito (o anche totalmente fallito) nella vita degli altri.
Invece di occuparci della vita degli altri, faremmo bene a pensare alla nostra. E ad ammettere che, fatti i conti, la vita ci ha trattati esattamente come meritavamo di essere trattati: né meglio, né peggio. Certo, è  innegabile che certe circostanze esteriori si presentano in maniera molto diseguale: ad alcuni sembra che tutto vada bene, anche senza loro merito; ad altri, pare che tutto vada male, come se il destino si accanisse contro di loro.
Tuttavia, il segreto della saggezza è capire che non sono le circostanze esteriori, mai e poi mai, a fare di noi quello che, alla fine, siamo diventati: sono le persone da poco che giudicano così; quelle che giocano ogni settimana la schedina della lotteria, illudendosi che, se faranno una grossa vincita, la loro vita cambierà.
Tanto varrebbe pensare che la nostra vita cambierebbe se noi indossassimo un vestito diverso, o se andassimo a vivere in un altro luogo. Invece non è così: la nostra vita non cambia solamente perché cambiano le circostanze esteriori; cambia - in meglio, in peggio - solo ed esclusivamente se cambia il nostro approccio verso di essa.
In questo senso abbiamo detto che la vita è giusta, e che essa dà a ciascuno - alla fine - secondo i suoi meriti: né più, né meno.
Quando si è compreso questo, allora esistono le condizioni necessarie e sufficienti per fare la pace con se stessi e con il proprio passato. E chi ha fatto la pace con se stesso e con il proprio passato, non ha più paura di morire: perché l’importante è comprendere e riconciliarsi, sia pure alla fine della propria vita. La paura di morire è il frutto avvelenato di una vita che non ha saputo trovare in se stessa il proprio significato.
Poi, quando ci si è riappacificati con essa, si può affrontare con animo sereno l’ultimo viaggio: come chi sia consapevole di aver portato a termine un lavoro importante e di meritare, perciò, il sospirato riposo.