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Il sovrano moghul Akbar, cakravartin del suo tempo e maestro di interculturalità

di Paolo Scroccaro - 08/01/2010

 

“L’impero moghul era una grande e magnifica costruzione, creata e
conservata grazie a un’immensa quantità di ingegno e talento
politico. Fu splendida, potente e benefica; potrei aggiungere che, sul
piano religioso, fu, nonostante il fanatico zelo di Aurangzeb,
infinitamente più liberale e tollerante di qualsiasi regno o impero
europeo, medievale o contemporaneo”
(Aurobindo, The Spirit and Form of Indian Polity)

“Fu il più importante uomo di stato del suo tempo, sostanzialmente più lungimirante di
Filippo di Spagna e della sua antagonista Elisabetta d’Inghilterra”: così lo definisce
H.G.Behr nel suo testo dedicato ai Moghul (I Moghul imperatori dell’India, Garzanti,
1987, pag. 147).

Favorevoli valutazioni di questo genere non sono rare: storici delle più diverse tendenze
hanno fornito conferme assai positive, insistendo sulle eccellenti capacità di mediare e
armonizzare le varie componenti sociali, religiose ed etniche dell'impero2, impresa
notevole che di raro è dato riscontrare nella storia (si pensi solo al fatto che, in Europa, i
sovrani non riuscivano a far convivere nemmeno le tendenze interne al cristianesimo,
mentre in India erano presenti quasi tutte le più grandi religioni del mondo!).
Il suo impero voleva avere un carattere eminentemente spirituale, era visto come “una
luce che emana dal Divino, un raggio di sole che illumina il mondo”. Egli intendeva
realizzare l’ideale tradizionale del sovrano universale (cakravartin), capace di
manifestare le qualità del Dharma3 e di concretizzare nella storia il “regno di giustizia”4,
e a questo proposito è stata messa in luce l’affinità che lo legherebbe al suo antico
predecessore buddhista Ashoka.
Operando secondo i citati intendimenti, egli cercò di conciliare prima di tutto indù e
musulmani; abolì le tasse sui pellegrinaggi indù e la gizya, l’imposta sui non-musulmani
che di norma l’Islam imponeva in tutti i territori conquistati. Vietò l’uccisione della
vacca, ed anzi, più in generale, fece proprie le prescrizioni indù contro l’uccisione degli
animali, spingendosi a proporre pene severe per coloro che violavano tali disposizioni,
macellai in testa5. Proibì la condanna a morte per apostasia (voluta invece dai sunniti), e
garantì la libertà religiosa per tutti i culti, cercando di contemperare le particolari leggi
religiose.
Poiché “un matrimonio evita dieci guerre”, il sovrano sposò varie principesse rajputi (le
quali continuarono a seguire la loro tradizione), inserendo così i principi rajputi nelle
istituzioni moghul in modo indolore.
Raccogliendo certe suggestioni che gli provenivano dalla frequentazione di ambienti
dell’esoterismo islamico6 e indù, fondò nel 1575 la “Casa della Sapienza”, che divenne
un punto di riferimento interculturale per gli esponenti più costruttivi delle correnti
spirituali dell’epoca (induisti, sciiti, sunniti, zoroastriani7, ebrei, gesuiti, sikh8, giainisti,
nirgun-sant9…), mostrando nei fatti un’apertura culturale illimitata e una immensa
capacità di dialogo e di coinvolgimento, che non trovano adeguato riscontro nell’Europa
di ieri e di oggi. Seguendo questa sua propensione universalistica, egli era solito
declamare Inni al Sole in persiano (che all’epoca era la lingua dei dotti in India), arabo,
turco, hindi…Vari autori gli hanno attribuito il tentativo di dar vita ad una nuova
religione sincretistica, e hanno avanzato numerose riserve circa la liceità di un simile
tentativo: ma, probabilmente, l’espressione “religione sincretistica”, diventata un luogo
comune nel contesto di cui ci stiamo occupando, è un’invenzione di certi studiosi
moderni; in ogni caso, è del tutto inadeguata a rappresentare lo sforzo unitivo e
armonizzatore di Akbar, qualificato da profonde istanze spirituali-metafisiche, non da
un approssimativo sincretismo posticcio10. Comunque sia, l’esigenza di confronto
interreligioso era senz’altro indispensabile nella variegata India, confronto volto a
trovare un accordo sui contenuti più profondi e a trascendere certe inevitabili parzialità
delle formulazioni dogmatiche religiose, alla luce della saggezza non-duale. Inoltre,
poiché “il ciclo di ogni shariah (legge religiosa) dura 1000 anni”, non era priva di
fondamento l’esigenza di ricomprendere in chiave metafisica i principi delle varie
norme religiose, in modo da mostrarne la possibile efficacia, purché riarticolati e
riadattati alle varie circostanze (Aurangzeb, forse il più indegno tra i successori di
Akbar, dal basso del suo sunnismo ortodosso11farà esattamente il contrario, applicando
la shariah in modo meccanico e inintelligente, come succede anche oggi in vari paesi,
attirandosi il giusto risentimento indù, preparando così la disgregazione dell’India e la
successiva penetrazione inglese).
Come si può notare, l’esperienza akbarita ha posto dei problemi di grande rilevanza
teorica e pratica che sono quanto mai attuali e che oggi appartengono non solo all’India,
ma anche all’Europa ed anzi al mondo intero; i tentativi di soluzione di Akbar, volti a
salvaguardare contemporaneamente l’unità dell’impero, il pluralismo e le libertà
religiose e culturali12, presentano un’indubbia superiorità rispetto alle esperienze che in
tale campo si sono date nella civiltà occidentale medievale e moderna. Se ne possono
ricavare indicazioni spirituali, sociali e civili che possono apportare contributi
indispensabili la cui validità è estensibile anche all’età contemporanea.

note

1L’espressione è composta dai termini cakra (ruota) e vartin (mobile, in movimento), per cui il significato
più immediato è quello di “ruota in movimento” che corre liberamente in ogni direzione. Applicata alla
sovranità, l’espressione acquista tradizionalmente significati metaforici, che rinviano a colui che fa
“girare la ruota” e orienta il moto delle cose, cioè al “sovrano universale”, il cui dominio si estende in
tutte le direzioni, ossia alla “terra intera”. Va da sé che tale estensione non va intesa in senso meramente
geografico e quantitativo, come se si trattasse di indicare la grandezza materiale di uno stato: ben di più,
l’universalità del cakravartin è di tipo eminentemente qualitativo e spirituale, per cui essa si misura con la
capacità di accogliere, relazionare e coordinare le più disparate componenti, umane e cosmiche, che
caratterizzano un’epoca, neutralizzandone il più possibile gli aspetti conflittuali, in vista della “pace” e
della “giustizia”. Può ben dirsi che il cakravartin è tale nella misura in cui incarna, nella sua linea di
condotta, la saggezza perenne della non- dualità.
2 Evidenziando che certi diritti fondamentali non sono un’invenzione della liberaldemocrazia occidentale,
Amartya Sen osserva:”…l’eguaglianza laica non pare proprio una caratteristica della sola modernità. Gli
stati governati un tempo dagli Ashoka e dagli Akbar avevano operato proprio in direzione del
conseguimento di trattamenti egualitari” (Laicismo indiano, Feltrinelli, 1998, pag. 46). Nel prosieguo,
Sen precisa che tale orientamento egualitaristico va inteso come riconoscimento delle libertà e dei diritti
fondamentali nei riguardi delle molteplici componenti del mondo indiano.
3 Il Dharma è qui inteso come quel modo d’essere “normale” che garantisce la stabilità cosmica (dalla
radice dhr: sostenere, mantenere, conservare); tale stabilità si manifesta nella misura in cui le varie
energie dell’universo (umane e non umane) si trovano nella posizione o nella funzione che gli è propria,
senza debordare e senza prevaricare le altre, collaborando quindi all’equilibrio del Tutto. La “politica
cosmica” del cakravartin ha tale equilibrio universale come punto di riferimento, e quindi asseconda tutto
ciò che può contribuire ad esso.
4 In questo caso, il “regno di giustizia” è l’applicazione, particolarizzata sul piano prima di tutto umano,
del Dharma universale. Non a caso, la “giustizia” è un requisito indispensabile del “sovrano universale”,
assieme alla “pace”.
5 In sintonia con l’etica non-dualistica della compassione cosmica, che prevede il rispetto per tutti gli enti
e non solo per alcuni, esortò a rispettare anche il mondo vegetale: per esempio, decretò che il taglio delle
piante era lecito solo in caso di evidente bisogno e non per futili motivi (v. Dabistan-i Mazahib, un testo
neoparsi che riporta tra l’altro alcuni decreti di Akbar).
6 Tra queste frequentazioni, quella di Mubarak Nagori, considerato un sufi molto radicale e influente sullo
stesso Akbar (sarebbe uno dei principali ispiratori della Casa della Sapienza).
7 Il sacerdote zoroastriano Ardashir venne appositamente dalla Persia con un “fuoco sacro” che consegnò
al ministro di Akbar. Il sovrano volle coinvolgere anche il mistico neoparsi Azar Kaivan, autorevole
rappresentante di tale religiosità.
8 Akbar era in ottimi rapporti anche con i sikh e con il loro guru Ramdas (capo spirituale istituzionale nel
periodo 1574-1581). “Akbar gli donò un terreno con ampio stagno che fu sistemato e sulle cui sponde
venne costruito il celebre tempio dei sikh, ad Amritsar”(A. Danielou, Storia dell’India, Ubaldini, 1984,
pag. 238).
9 Akbar si rivolgeva non solo alle scuole induiste solitamente considerate ortodosse, rappresentate dai 6
darshana canonici, ma anche alle altre: a questo riguardo, merita ricordare il suo vivo interesse per i
mistici “nirguna”, e il suo incontro con uno dei principali esponenti, cioè Dadu Dayal. Secondo la
tradizione popolare, l’incontro sarebbe avvenuto nel 1585 e si sarebbe protratto per quaranta giorni. La
spiritualità aformale e sovrareligiosa dei nirgun-sant è ben sintetizzata in questi versi di Dadu:
“Io non sono hindu,
e nemmeno musulmano.
Non sono nemmeno seguace dei sei darshan:
amo semplicemente il mio Signore”.
Dadu morì nel 1602 a Narana, vicino a Jaypur: lì ancora oggi si trova il più importante luogo di culto dei
Dadupanthi (v. G. Milanetti, Il Dio senza attributi, Ubaldini, 1984).
10 La propensione esoterica e unitiva di Akbar, essendo mal compresa da certi studiosi occidentali,
sarebbe stata scambiata per una neoreligiosità di tipo sincretistico: ad una simile conclusione giunge
anche Marc Gaborieau, il quale incolpa esplicitamente gli storici coloniali di tale fantasiosa invenzione
(v., di autori vari, Sufismo e confraternite nell’Islam contemporaneo, Fondazione G. Agnelli, 2003,
pag. 77).
11 Già al tempo di Akbar, i sunniti ortodossi lo accusavano di simpatie per le religioni non islamiche; ad
essi rispose il consigliere Abul Fazl in questi termini, congiungendo saggezza e diplomazia:”…i saggi di
diverse religioni furono ricevuti a corte, e poiché ogni religione ha in sé qualcosa di buono, ciò è stato
riconosciuto. Ora, per spirito di equità, non si può pretendere di stendere un velo sopra i meriti di una
scuola, anche se considerata eretica”.
12 Riconoscendo i grandi meriti di Akbar nella difesa del pluralismo, Amartya Sen commenta:” Ancora
una volta non si tratta di un democratico ma di un sovrano potente che insisteva sull’accettabilità delle
diverse forme di comportamento sociale e religioso, e che riconosceva diversi diritti umani, compresa la
libertà di culto” (Laicismo indiano, Feltrinelli, 1998, pag. 159).
In un altro testo, osserva:” A questo proposito, e soprattutto alla luce di certe esaltazioni del liberalismo
occidentale, forse non è fuori luogo osservare che, mentre Akbar proclamava questi principi, in Europa
erano in piena fioritura le inquisizioni” (Lo sviluppo è libertà, Mondadori, 2000, pag. 239