La vita di molti scienziati fu influenzata dal grande insegnante spirituale J. Krishnamurti, ma nessuno di loro ebbe un rapporto intimo e duraturo con lui come lo ebbe David Bohm.
Bohm e Krishnamurti si incontrarono la prima volta nel 1961 e la loro amicizia si protrasse fino alla morte di Krishnamurti, nel 1986 (anche se nel 1984 entrò in crisi).
Bohm iniziò la carriera come pupillo di J. Robert Oppenheimer, il direttore del Manhattan Project, il progetto finalizzato alla realizzazione della bomba atomica, durante la seconda guerra mondiale. All’epoca del suo primo incontro con Krishnamurti, Bohm si era già guadagnato una grande e discussa fama come uno dei più brillanti fisici teoretici della nostra era. Egli aveva sviluppato la teoria del plasma – il quarto stato conosciuto della materia, dopo quello solido, liquido e gassoso – e la sua analisi del comportamento plasmatico degli elettroni nei metalli aveva posto le fondamenta per gran parte della fisica degli stati solidi.
Bohm, inoltre, esercitò un ruolo centrale nel dibattito sulla teoria dei quanti (ancora in corso ai giorni nostri), e fu l’autore di molte, provocatorie “interpretazioni” del quanto. Durante gli anni del suo insegnamento a Princeton, divenne amico di Albert Einstein, il quale, dopo aver trascorso vari anni cercando, senza successo, un’alternativa alla versione generalmente accettata della meccanica quantica, sembra aver indicato in Bohm il suo “successore intellettuale”, affermando: «Se qualcuno potrà riuscirci, questi è Bohm».
Ma David Bohm forse è più conosciuto, specialmente tra chi non è scienziato, per una teoria che è allo stesso tempo il frutto di una ricerca spirituale lunga una vita e il risultato di una profonda intuizione scientifica. Si tratta della teoria dell’ordine sottinteso, fondata su una visione globale, totale, nella quale la materia e la coscienza sono unite.
Bohm sembra essere stato ossessionato, sin da piccolo, dall’idea secondo cui viviamo in un universo nel quale la materia e il significato sono inseparabili; si dice che la parola “totalità”, da egli impiegata nel primo incontro con Krishnamurti per descrivere il suo lavoro scientifico, fece balzare quest’ultimo dalla sedia per dare un abbraccio a Bohm.
Leggendo Wholeness and the Implicate Order di David Bohm (in italiano Universo, mente, materia, RED edizioni), ho avuto spesso dei sentimenti simili. L’ampiezza e l’integrità della sua visione è efficacemente riflessa nella sua esposizione, che è allo stesso tempo lucida, ampia, precisa e profondamente, misteriosamente toccante. Leggendo Bohm, si rimane molto spesso sbalorditi dalla sua abilità nel connettere fenomeni di ordine radicalmente diverso, oltre che dalla sua passione per scoprire l’interrelazione e la coesione dinamica di un mondo generalmente considerato una forma di caos meccanizzato nel quale gli esseri umani sono destinati a svolgere una piccola parte.
Una volta abbandonata la vantaggiosa posizione di isolamento e distacco, l’essere umano si scopre profondamente inserito in un universo indivisibile che è allo stesso tempo reale ed eternamente misterioso; un unico evento multidimensionale senza inizio o fine.
Per molti colleghi di Bohm, comunque, la sua insistenza sul fatto che l’universo fosse da un lato intrinsecamente ordinato, dall’altro impossibile da comprendere appieno, era irritante piuttosto che fonte di ispirazione. Rievocando una frustrante intervista con Bohm nel libro The End of Science: Facing the Limits of Knowledge in the Twilight of the Scientific Age (La fine della scienza: a tu per tu con i limiti della conoscenza nel crepuscolo dell’Era Scientifica), lo scrittore di scienza John Horgan scrive: “Bohm anelava a conoscere, a scoprire il segreto di ogni cosa, sia attraverso la fisica… sia attraverso la conoscenza mistica. Tuttavia, insisteva sul fatto che la realtà era inconoscibile, perché, credo, provava repulsione verso l’idea della finalità”.
La premessa da cui parte Horgan, non insolita al giorno d’oggi, è che nel giro di venti anni la scienza avrà risposto a tutte le domande più importanti dell’uomo. Ma quello che Bohm riesce a comunicare in modo piuttosto chiaro durante quella intervista, è la sua concezione secondo cui le risposte finali non sono poi così importanti quanto il cercare di conoscere il mondo nel quale viviamo senza idee o conclusioni fisse. Fu caratteristico di Bohm insistere sul fatto che le idee fisse che sottintendono le ipotesi scientifiche non sono di aiuto, ma di ostacolo, e che una metodologia che unisca il rigore all’apertura mentale è la migliore per restare al passo della verità, man mano che essa si rivela nel corso dell’indagine scientifica.
Ma Bohm trovava ugualmente inadeguata la flessibilità senza il rigore, così comune nella vita spirituale. In un’intervista rilasciata per la rivista ReVision nel 1981, egli disse: “Dal momento in cui il mistico sceglie di parlare della sua esperienza… deve seguire le regole che governano il mondo ordinario, il che significa che deve essere ragionevole, logico e chiaro”.
E questo Bohm non lo chiedeva solo ai mistici, ma soprattutto ai fisici quantici contemporanei, molti dei quali, alla luce delle paradossali scoperte sul regno subatomico, si erano sentiti dispensati dalla necessità di offrire spiegazioni concrete o avevano sviluppato teorie e persino cosmologie più mistificanti delle visioni di uomini religiosi o spirituali. Ironicamente, fu proprio la richiesta di Bohm di spiegazioni puramente fisiche dei fenomeni quantici che lo portò a essere evitato da molti suoi colleghi.
Tuttavia, coloro che approvavano questo invito nutrivano per Bohm una grande fedeltà. Uno di questi è lo scrittore e fisico F. David Peat, che da giovane ascoltò catturato le spiegazioni di Bohm sulla meccanica quantica alla radio “BBS”, senza sapere che diversi anni più tardi avrebbe incontrato il suo eroe, apparentemente per caso, che sarebbero diventati amici e colleghi, che avrebbero scritto un libro insieme (Science, Order and Creativity), e che lui stesso avrebbe scritto alla fine la biografia di Bohm, Infinite Potential: The Life and Times of David Bohm.
Autore di molti libri, Peat è un uomo dai molteplici interessi, che l’hanno portato a girare tutto il mondo: tra questi la fisica moderna, le arti visive, la psicologia junghiana e la spiritualità dei nativi americani. La nostra intervista è stata condotta telefonicamente da Pari, il paese vicino a Siena dove egli vive attualmente. E’ stato un piacere parlare di David Bohm con qualcuno che lo conobbe intimamente e i cui ricordi sono ancora vivi nella sua memoria. Come si intuisce dalla nostra conversazione, il pensiero di Peat è stato influenzato, sotto molti aspetti, da Bohm.
Infinite Potential è un ritratto completo e imparziale. La maggior parte del lavoro di Bohm è una straordinaria fonte di ispirazione, frutto di una grande integrità, ma Peat ha ben presenti anche i difetti del suo amico. “Bohm visse per il trascendente”, scrive Peat, “sognava una luce universale… Ma la sua vita fu caratterizzata da una grande sofferenza e da periodi di grave depressione. Durante la sua vita, non raggiunse mai la completezza; tutto ciò che conquistò, e di cui ancora avvertiamo i benefici, fu raggiunto solo al prezzo di grandi sacrifici”.
Simeon Alev: Perché pensa che fosse importante scrivere una biografia di David Bohm, in questo momento?
David Peat: Penso che sia un libro utile perché aiuta a mettere la vita di Dave in prospettiva e perché riunisce tutta la sua opera, cosa che non è mai stata fatta prima. Dave aveva fatto cenno al proposito di scrivere un’autobiografia – da solo o con l’aiuto di qualcuno – e dopo la sua morte, nel 1992, ne parlai con le persone che gli erano state più vicini. Tutti eravamo preoccupati dal fatto che un’altra persona avrebbe potuto improvvisare una biografia, per cui decidemmo che forse avremmo dovuto farne una noi, e subito.
Vede, sembra che il lavoro di Dave abbia molti aspetti diversi: in esso troviamo, per esempio, le ricerche giovanili sul plasma, la teoria delle variabili nascoste, l’ordine sottinteso e la ricerca di nuovi ordini nella fisica; inoltre, la collaborazione con Krishnamurti e le ricerche sulla coscienza e sul significato del soma. Ma quando si considera la sua vita come un tutto, ci si accorge che questi sono aspetti dello stesso modo di vedere l’universo, e quindi non sono diversi. Ho pensato che sarebbe stata una buona cosa che la gente sapesse ciò, particolarmente coloro che, nel mondo della fisica, hanno cominciato a selezionare le idee di Dave, scegliendone alcune piuttosto di altre. Ho pensato che sarebbe stato utile presentarle tutte insieme, in modo che le persone possano rendersi conto del loro livello di integrazione, cosa che non comprendono del tutto nemmeno coloro che conobbero abbastanza bene Bohm.
Simeon Alev: La sua vita e il suo lavoro furono un tutt’uno coerente.
David Peat: Sì, mi sembra che ogni cosa sia legata al resto; semplicemente, non puoi estrarne una parte.
Simeon Alev: Dunque, sembra che la vita e il lavoro di Bohm contengano un messaggio globale per l’umanità?
David Peat: Beh, in un certo senso il messaggio è questa stessa visione dell’interezza… Che naturalmente non è nuova; è contenuta in molte altre filosofie e se ne parla da tempo. Ma credo che ogni volta che qualcuno ne parla, la rinnova o la reinventa, riportandola in vita per il tempo presente. E io penso che David lo abbia fatto per la nostra epoca. Egli, inoltre, evidenziò il fatto che la scienza si era scissa sia all’interno di se stessa sia dalle tematiche spirituali e dalla riflessione sulla coscienza e il sé. E nella biografia è possibile vedere come queste idee si esprimessero attraverso la sua lotta. La sua vita fu allo stesso tempo l’intuizione di qualcosa di trascendente e una lotta per raggiungere questa condizione di integrità. E oggi il suo lavoro appare sempre più rilevante.
Simeon Alev: In che modo, secondo lei, la scienza e la spiritualità si incontrano nel suo lavoro?
David Peat: E’ certo che nei primi tempi nutrì dei sospetti nei confronti delle religioni organizzate, in particolare durante il suo periodo marxista – ma anche dopo – perché si era reso conto che esse non stavano aiutando la razza umana. Allo stesso tempo, però, fu sempre presente in lui un senso del numinoso, del trascendente – dalle sue precoci fantasie adolescenziali di una dissoluzione nello spazio fino alle visioni di luce, dell’illuminazione – un’intensità mentale, come se la mente potesse raggiungere una qualche verità che si sempre trova oltre il limite, che al di là di qualche sorta di frontiera ci sia una verità più profonda da scoprire.
Credo, quindi, che da questo punto di vista il suo lavoro fu una ricerca spirituale; qualcosa di più vicino, forse, alla ricerca dell’illuminazione, della luce, della verità. Diceva spesso che devi cercare la verità, ovunque essa ti porti; qualunque aspetto abbia, la dovrai affrontare. E a questo proposito penso che dovrei anche menzionare la sensazione che aveva durante la sua attività scientifica: egli sentiva spesso che l’universo era dentro il suo corpo, come se lui fosse un microcosmo all’interno del macrocosmo. Bohm intuiva che poteva raggiungere la verità all’interno del suo corpo, che era possibile rivolgere lo sguardo sia all’esterno che all’interno. Per tutta la sua vita fu presente questa sensazione di connessione diretta con il cosmo.
Simeon Alev: Sembra anche che abbia avuto la sensazione che gruppi più vasti di persone avrebbero potuto sperimentare la vita insieme in quel modo.
David Peat: Sì, parlava spesso delle diverse dimensioni dell’essere umano – l’individuale, la cosmica e la sociale – e, soprattutto verso la fine della sua vita, sentiva che esse dovevano integrarsi, e che forse ciò avrebbe potuto dar vita a una coscienza collettiva di qualche tipo. Talvolta faceva l’esempio di un fiume inquinato. Puoi cercare di eliminare l’inquinamento intorno alla città, ma la cosa importante è trovare la fonte dell’inquinamento, e in questo processo puoi scoprire un ordine di nuovo tipo. Sentiva che parte di quell’inquinamento era dovuto al linguaggio e che avremmo dovuto andare alle radici, alle origini del linguaggio, cosa possibile solo nell’ambito di un gruppo, attraverso una sorta di dialogo.
Bohm e Krishnamurti
Simeon Alev: Nonostante il fatto che Bohm era profondamente interessato a collaborare con gli altri, sembra che molti dei suoi rapporti di lavoro si siano conclusi tra i malintesi. Il suo rapporto con Krishnamurti è uno di questi. Come descriverebbe il ruolo di Krishnamurti nella vita di Bohm? Fu una delle sue relazioni più importanti?
DavidPeat: Credo che David Bohn avrebbe risposto di sì. Di certo, ha detto che i due incontri più importanti della sua vita furono con Einstein e Krishnamurti. Avvertiva qualcosa di simile tra i due: l’intensità, l’onestà e l’enorme energia che entrambi possedevano. Con entrambi instaurò una relazione di profonda amicizia , ma a un livello impersonale piuttosto che personale. Penso che ambedue furono molto importanti per lui, ma certamente i dialoghi che intrattenne con Krishnamurti si spinsero molto, molto in profondità.
D’altra parte, ho incontrato persone secondo le quali il pensiero di Bohm non fu profondamente influenzato da Krishnamurti, che le sue idee e il suo lavoro furono sempre dello stesso genere, che la frequentazione di Krishnamurti gli dava semplicemente incoraggiamento e ispirazione, e lo aiutò ad attraversare un periodo molto oscuro, in cui dubitava del valore in generale della scienza. Secondo queste persone, in quel periodo Krishnamurti fu importante per Dave, ma i gruppi di dialogo di quest’ultimo, tutto ciò che è a essi collegato, e le sue idee sulla coscienza collettiva non provenivano da Krishnamurti.
Si tratta di un argomento molto difficile e forse solo il tempo sarà in grado di dirci di più, quando vedremo le cose in prospettiva. Infatti, così come molte persone discutono di David Bohm, molte altre lo fanno a proposito di Krishnamurti, fuori e dentro la Krishnamurti Foundation. È in atto una rivalutazione di Krishnamurti, ci si incomincia a chiedere chi fosse e quale fu il significato della sua vita. E’ stato difficile per me, quindi, ricevere delle risposte chiare su Krishnamurti e Bohm.
Simeon Alev:Lei ha mai incontrato Krishnamurti di persona?
David Peat: Sì. Dave organizzò due incontri di scienziati con Krishnamurti e partecipai a entrambi.
Simeon Alev: Nella biografia lei approfondisce alcuni dettagli sulla loro relazione in generale, affrontandone anche la conclusione. Potrebbe riassumerci come e perché la loro relazione si ruppe?
David Peat: Nella biografia dovevo soltanto riferire ciò che la gente mi aveva raccontato, ma anche io avevo parlato molto con Dave di questo argomento. Penso che i loro incontri fossero molto intensi. Quando si sedevano insieme, in modo aperto e onesto, c’era una profonda intensità tra di loro, e Dave disse che riusciva a vedere alcune delle cose di cui Krishnamurti parlava; cioè, le sperimentava direttamente, non si trattava di una conoscenza di seconda mano.
D’altra parte, era disturbato dall’immagine di Krishnamurti creata dalle persone intorno a quest’ultimo. Sebbene Krishnamurti dicesse: «La verità è un territorio senza sentieri. Non ascoltate i guru, compreso colui che parla in questo momento», le persone lo trattavano e si comportavano come se lui fosse un guru. E credo che questo infastidì Dave. Sentì che c’era qualcosa di incompatibile in questo, di paradossale. Cominciò a chiedersi in che misura Krishnamurti fosse stato condizionato dalla sua stessa educazione e pose delle domande su questo argomento.
Penso che avesse anche dei dubbi sul modo in cui operavano le scuole di Krishnamurti, perché all’interno di queste ultime sembravano esserci molti conflitti. Se si riteneva che le persone potessero lavorare senza tutti questi condizionamenti, perché c’erano tanti problemi? Quindi, aveva molte domande dentro di sé. Penso che almeno durante un incontro con Krishnamurti si trovasse in questo stato d’animo. Allo stesso tempo, credo che avesse delle domande sulla propria vita e il proprio lavoro; forse si stava avvicinando uno dei suoi periodi di depressione.
Krishnamurti, dal canto suo, cominciò a chiedere perché David Bohm, se aveva capito tanto profondamente le cose di cui parlava Krishnamurti, fosse ancora tanto dipendente dagli altri; infatti, sembrava molto attaccato alla moglie e a Krishnamurti stesso.
Dunque, in realtà, si trattò di un confronto; Krishnamurti chiedeva a Dave di guardare la totalità della sua natura, mentre Dave aveva a sua volta dei dubbi su Krishnamurti. Alla fine, sembrò crearsi una rottura tra i due; per Dave essa fu, secondo me, dolorosa. Egli non riuscì a comprendere chiaramente cosa fosse successo, e perché. Anche se in seguito continuarono a vedersi, non discussero più con la profondità del passato.
Simeon Alev: Pensa che i loro incontri, fino a quel momento, fossero stati soprattutto intellettuali, o tra i due c’era una certa profondità spirituale, simile a quella che si può riscontrare tra un guru e un discepolo?
David Peat: Ho parlato con molte persone presenti a quegli incontri, e ho il massimo rispetto delle loro parole. Alcune di loro non avrebbero mai usato l’immagine del guru e del discepolo, ma quella di due persone impegnate in un’esplorazione comune, a un livello paritario. Dave contribuiva con un intelletto molto brillante e con profonde intuizioni provenienti dalla fisica, Krishnamurti interveniva dal suo punto di vista. In definitiva, si trattava di due uomini che discutevano dello stesso argomento. In molti casi, David Bohm aiutava Krishnamurti a chiarire non tanto le sue intuizioni – cosa che non avrebbe potuto fare – quanto il modo in cui Krishnamurti le presentava, il linguaggio che usava e l’andamento della discussione. Talvolta Krishnamurti faceva delle generalizzazioni su cui Dave balzava subito, sollecitandolo ad affinarle.
Ma non erano soltanto incontri tra due menti energeticamente elevate; secondo Dave, almeno, c’erano anche molto calore e affetto. Questo avvertì in Krishnamurti: il calore. Non si trattava, quindi, della tradizionale relazione tra guru e discepolo, ma della relazione tra due amici o colleghi. Dave disse di aver provato la stessa sensazione con Einstein: entrambi conducevano una ricerca comune, senza che qualcuno sembrasse superiore all’altro. Credo che la stessa cosa sia stata avvertita anche da molte persone che hanno lavorato con Dave. Naturalmente, eri consapevole che Dave era molto più intelligente di te – ti batteva su tutta la linea – ma quando lavoravi con lui, non avevi la sensazione che Dave fosse il capo, bensì che stavate indagando qualcosa in comune. Suppongo che la relazione con Krishnamurti fosse qualcosa di simile.
Allo stesso tempo, altre persone avevano la sensazione che, quando loro due erano insieme, si avvertiva una certa atmosfera spirituale; di fatto, la gente spesso diceva che si sentiva di qualcosa di potente nella stanza. E certamente questi dialoghi pubblici furono di grande aiuto a molti occidentali per riuscire ad avvicinare Krishnamurti: infatti, David Bohm li affrontava in maniera più occidentale di Krishnamurti.
Simeon Alev: Ho accennato alla relazione guru-discepolo a causa di un passaggio della biografia nel quale lei racconta come Krishnamurti, dopo quindici anni, avesse cominciato a esercitare su Bohm una certa pressione affinché egli cominciasse a cambiare: cosa che, normalmente, sarebbe sembrata consona al suo ruolo di maestro spirituale. Ma, poiché anche lei suggerisce che Bohm nutrì delle riserve per ciò che vedeva accadere intorno a Krishnamurti, forse si trattò più che altro di uno scambio di accuse.
David Peat: Di nuovo, è difficile da dire. Ho parlato con persone che erano nella cerchia intima di Krishnamurti, secondo le quali questo tipo di rottura si era verificata più volte. È come se le persone frequentassero Krishnamurti per molti anni, fino a quando lui sembrava quasi attaccarle e provocarle. A un certo punto, Krishnamurti sentiva il bisogno di provocare anche persone con cui si sentiva a suo agio e cui permetteva di stargli vicino. In questo senso, quando sfidò Dave su se stesso e i suoi condizionamenti, la cosa probabilmente assomigliò molto a una relazione guru-discepolo; all’improvviso tutto era cambiato.
Simeon Alev: Questo deve essere stato piuttosto sconvolgente per David Bohm.
David Peat: Secondo le informazioni raccolte, sì. Ma sono cose difficile da determinare con certezza, perché tutti coloro che li circondavano avevano dei forti interessi. Secondo alcuni, Dave era molto importante per Krishnamurti; altri, invece, sarebbero stati più felici se Dave non avesse avuto nulla a che fare con lui. Questi ultimi avevano la sensazione che egli stesse in un certo senso contaminando l’immagine di Krishnamurti, che lo stava spingendo a parlare in maniera troppo occidentale, intellettuale e razionale, a scapito della poesia. Alcuni sentirono questo: che la poesia si stava perdendo. Ma forse non vedevano la poesia insita in David Bohm.
La scienza di Bohm
Simeon Alev: Quali erano alcune delle principali idee di Bohm che lo resero una figura di primo piano nel processo di avvicinamento tra la scienza e la spiritualità?
David Peat: Dave avvertiva che la scienza non doveva staccarsi dalla vita di tutti i giorni, diventando qualcosa di astratto che aveva a che fare soltanto con la meccanica. Sentiva, piuttosto, che l’universo stesso è in certo senso uno specchio delle nostre strutture basilari come esseri umani e della nostra relazione con il trascendente. Questa fu la chiave di tutto il suo pensiero. Così, quando cominciò a sviluppare la sua teoria dell’ordine sottinteso, sentì che essa non riguardava soltanto la struttura della materia, ma anche quella della coscienza, perché ogni cosa riflette se stessa.
Persino il suo primo lavoro sul plasma sopraggiunse non tanto attraverso lo studio degli atomi e degli elettroni – cosa che naturalmente fece – quanto grazie al dilemma fondamentale dell’individuo e della collettività: può un individuo essere libero all’interno una società, portandovi allo stesso tempo il suo contributo? Anche qui, vide che i dilemmi di base degli esseri umani riguardo il libero arbitrio e gli obblighi verso la società sono, in qualche modo, riflessi nella struttura stessa dell’universo. A questo proposito, egli ebbe una visione (credo mentre viveva in Brasile): l’universo era un insieme di sfere di argento, ognuna delle quali rifletteva le altre, inclusa se stessa; una sorta di infinita riflessività dell’universo nella quale ogni parte era contenuta in tutte le altre.
Simeon Alev: A partire dal lavoro sul plasma, sembra che il pensiero di Bohm acquisisse una dimensione sempre più cosmica.
David Peat: Sì, anche se possiamo dire che fu sempre così. Persino quando frequentava ancora la scuola, tentò di sviluppare una teoria sul cosmo che comprendesse la coscienza; quindi, fin dall’inizio intuì che ogni teoria dell’universo doveva comprendere l’essere umano; l’osservatore umano doveva essere parte della teoria. Non avrebbe potuto essere una teoria obiettiva nel senso convenzionale del termine, cioè qualcosa di esterno ai fenomeni, che non tiene conto di noi, non considera la realtà esistenziale del nostro essere. Il suo pensiero fu sempre cosmico e onnicomprensivo.
Simeon Alev: Perché sembra che ancora oggi tanti scienziati hanno problemi ad accettare o rifiutare le sue idee?
David Peat: Beh, suppongo che in alcuni casi sia perché alla gente piacciono i lavori di dimensioni limitate: i “risultatini”, come li chiamava David; non i risultati, ma i “risultatini”. Quando Dave lavorava, affrontava idee e concetti molto generali; al contrario, la moda attuale nella fisica contemporanea è che tutto deve essere iper-matematico, mentre lui non ebbe mai fiducia nella matematica. Per lui, la matematica era un buono strumento, ma niente di più. Il problema della matematica, anche di quella più bella ed elegante, è che da qualche parte nasconde molti presupposti.
Quando parliamo insieme, usando il linguaggio comune, è più semplice scoprire quali siano questi presupposti. La matematica tende a nascondere molte cose. Bohm aveva dubbi anche su altri aspetti della fisica: per esempio, sulla tendenza della fisica delle particelle a frammentare, piuttosto che a unire. Vede, Dave si era reso conto che, in questo secolo, si era verificata una rivoluzione fondamentale nella fisica e nella meccanica quantica, ma che il nostro pensiero non ne aveva tenuto il passo.
Nel vecchio ordine, potevi frammentare le cose e definirle secondo una griglia cartesiana di spazio e tempo. Ora, avevamo bisogno di un ordine interamente nuovo, e l’ordine sottinteso, che è intrinsecamente infinito, era uno degli elementi su cui Bohm lavorò. Questo, però, equivale certamente a chiedere troppo dai fisici. A loro piace vedere le cose piccole e finite, mentre Dave fu un pensatore troppo globale, credo, per molti di loro… A parte i migliori, che simpatizzarono con Dave perché si resero conto che era necessario qualcosa di nuovo.
Simeon Alev: Ma alla maggior parte degli scienziati non sembrava che egli si fosse spinto oltre i confini della scienza?
David Peat: Sì. E appare ironico che ora, dopo la sua morte, il suo lavoro sulle variabili nascoste – quello che causò più controversie – è stato adottato dai fisici come un modello di calcolo. Per Dave, si trattava di un modo completamente nuovo di considerare la meccanica quantistica, ma ora viene usato solamente come un modello di calcolo. Hanno messo da parte il contorno, mantenendo l’essenziale.
Simeon Alev: La chiamano “la meccanica Bohmiana”?
David Peat: Sì, la meccanica Bohmiana, esatto. Dave sarebbe rimasto molto scioccato. È ironico che questo è ciò che hanno estratto dalla sua teoria. Ma in passato sono successe cose simili. Basil Hiley e lui, a un certo punto, si accorsero che il nuovo ordine che stavano cercando era già stato anticipato da matematici quali Grassman, Hamilton e Clifford. E anche in quel caso, quello che era successo fu che la gente aveva lasciato da parte i contenuti più profondi per conservare soltanto un semplice modello di calcolo; le idee veramente importanti sono sempre state ignorate.
Simeon Alev: Potrebbe essere utile per contestualizzare tutte queste informazioni fare una coincisa panoramica di alcune delle più importanti teorie di Bohm.
David Peat: Bene, una era la teoria delle variabili nascoste, che ho appena menzionato. Lui credeva che l’universo si componesse di un’infinità di livelli e che non potesse mai essere interamente compreso dal pensiero umano. In questo si differenziò molto da Einstein, con il quale ebbe un lungo scambio epistolare sull’argomento. Per Einstein, alla fine doveva esistere un solo livello unificato che avrebbe spiegato tutto, mentre Bohm credeva che ogni livello raggiunto ne avrebbe nascosto un altro dietro di sé, e che quindi non avremmo mai raggiunto la fine.
Questa idea rappresentava anche un’alternativa al riduzionismo, perché in quest’ultimo scopri, diciamo, delle molecole; queste le spieghi in termini di atomi, gli atomi in termini di particelle elementari e così via; ti addentri, via via, in componenti sempre più elementari. Ma per Bohm li livello superiore e quello inferiore potrebbero condizionarsi a vicenda. Quindi, non si trattava in realtà di livelli indipendenti, allo stesso modo con cui il corpo umano è fatto di organi e cellule, ma le cellule, a loro volta, sono specificate dall’intero ordine del corpo. Così, ciò che sta in alto condiziona ciò che sta in basso, e viceversa.
Perciò, intuì che la meccanica quantica, basata sull’idea di casualità e indeterminatezza a livello subatomico, era solo un primo passo verso una teoria più profonda che avrebbe incluso queste variabili nascoste. Come Einstein, Bohm voleva conservare l’idea che ci fosse un grado di oggettività a livello subatomico, che le cose non hanno bisogno di osservatori umani per accadere; e si interessò anche al fatto che la meccanica quantica non offre alcuna reale spiegazione sul modo in cui gli eventi quantici avvengono. Sviluppò, quindi, una teoria che all’inizio chiamò l’«interpretazione causale» e poi “ontologica” di questi eventi. Essenzialmente, si trattava di un tentativo di spiegare le cose in modo più razionale: sebbene nel 1950 esse non ebbero successo, recentemente la gente è arrivata ad accettarle come un modo diverso di considerare la meccanica quantica.
Poi c’era la teoria dell’ordine sottinteso. Dave definiva Il mondo dove sembriamo vivere – il mondo degli oggetti classici, della fisica newtoniana – come il mondo dell’«ordine manifesto». Sentiva che quella che consideriamo come realtà è solo uno specifico livello o una percezione dell’ordine. Sotto di esso si trova ciò che definiva “l’ordine sottinteso”, “ripiegato”, nel quale le cose sono ripiegate le une sulle altre e profondamente interconnesse, e dal quale l’ordine manifesto si rivela. Si potrebbe dire che il manifesto è come la schiuma del latte, mentre l’ordine sottinteso è molto più profondo; esso include non solo la materia, ma anche la coscienza; è solo nell’ordine manifesto che tendiamo a dividerli, a vederli come due entità separate. Dave trascorse parecchio tempo, negli ultimi decenni della sua vita, a cercare di trovare un’espressione matematica per questa intuizione della realtà.
Avvertì anche la necessità di reintrodurre il tempo nella fisica. Naturalmente, il tempo era sempre esistito come parametro, ma non come una reale entità dinamica, capace di muovere le cose. A questo lavorava negli ultimi giorni della sua vita. L’altra attività di quel periodo, con i gruppi di dialogo, non era qualcosa di diverso perché, di nuovo, avvertiva che la sua teoria doveva includere tanto la coscienza quanto la materia; ciò condusse all’idea che doveva esistere un campo di informazioni.
Dalla sua interpretazione ontologica della teoria quantica si ricava la nozione secondo cui la materia risponde sempre a un campo del genere. Fino a quel momento, erano presenti due livelli in natura: la materia e l’energia. Adesso Bohm, con la sua interpretazione ontologica, ne introdusse un terzo, che chiamò “informazione attiva”, cioè l’informazione come un’attività in natura. Gli elettroni si muovono e si comportano nel loro modo bizzarro perché rispondono a un campo di informazioni, un campo attivo. Ma anche il corpo umano risponde a un campo attivo: in questo modo opera il sistema immunitario. Dunque, egli introdusse il concetto dell’informazione attiva come qualcosa di inerente sia alla materia che alla coscienza, un fenomeno collettivo non localizzato al quale la coscienza individuale umana – o il cervello – è in grado di rispondere.
Bohm credeva fosse possibile sviluppare una qualche forma di collettività se la gente vi avesse lavorato per un certo periodo di tempo; ecco perché creò i gruppi di dialogo, basandosi sull’idea che sarebbe stato possibile, grazie a questa informazione attiva, produrre una trasformazione nella coscienza umana. Forse avrà pensato che la stessa cosa accadeva alla presenza di Krishnamurti, cioè che quando quest’ultimo incontrava un gruppo di persone, si verificavano dei cambiamenti di coscienza.
Simeon Alev: Questo era ciò che stava cercando di fare da solo, dopo la rottura con Krishnamurti.
David Peat: Sì, esatto, tramite il lavoro con questi gruppi. Qualche volta si sentiva molto incoraggiato da essi, altre volte, no. Ma ci credeva davvero: poiché in fisica non è sempre necessaria una grande quantità di energia per produrre un notevole cambiamento, forse anche questi piccoli gruppi sarebbero riusciti a influire sulla coscienza umana.
L’ignoto
Simeon Alev: Come obiettivo, potrebbe sembrare piuttosto ambizioso, ma una delle cose che più mi hanno colpito di Bohm, fin dalla prima volta che lo lessi, è il fatto che, a dispetto della sua importanza, egli sembra essere stato una persona molto umile. La sensazione è che avesse un rispetto profondo per ciò che non conosceva.
David Peat: Sì, questo fu certamente vero. Naturalmente, c’era anche l’altra faccia della medaglia. Discuteva abbastanza animosamente con le persone; quando gli altri facevano un errore, li perseguitava. Per il resto: sì, sentiva che, di fronte alla totalità dell’universo, conosciamo davvero poco.
Simeon Alev: Lei crede che questa umiltà abbia avuto un ruolo nel suo lavoro?
David Peat: Rese sicuramente le cose più facili per coloro che volevano lavorare con lui. Semplicemente, ci si sedeva insieme e si affrontava un problema, oppure si discuteva un argomento. Lo stesso atteggiamento, probabilmente, gli permise di parlare con Krishnamurti a un livello paritario. La maggior parte delle persone che incontravano Krishnamurti erano consapevoli di essere alla presenza di un guru, la qual cosa rendeva loro difficile la conversazione. E la sua umiltà probabilmente gli facilitò anche la conversazione con Einstein.
Simeon Alev: E per quanto riguarda il suo pensiero? Lei pensa che questa umiltà lo aiutò anche ad arrivare alle sue conclusioni o ad avere la sua prospettiva?
David Peat: Sa, c’è sempre una via di scampo, non è vero? Potresti prendere le tue idee e dire: «Le presenterò in modo piacevole per il pubblico»; oppure: «Non mi spingerò troppo in là». Puoi andare in cerca di approvazioni o di elogi , cioè quel genere di cose che conducono inevitabilmente al compromesso. Se vuoi avere successo, devi cercare un piccolo campo di lavoro e approfondirlo. Ma Dave non volle mai fare questo. Ebbe l’onestà e la modestia di fare quello che voleva veramente, ovvero formulare le domande più importanti. Mi spiego, che cosa rende possibile formulare le domande più importanti? O una grande arroganza o la franca ammissione della propria ignoranza.
Simeon Alev: In che modo il suo rapporto con lui ha influito su di lei come persona e come scienziato?
David Peat: Beh, probabilmente mi ha aiutato ad abbandonare la scienza!
Questo rapporto è arrivato nel momento giusto, quando stavo mettendo in discussione me stesso rispetto a un sacco di cose e volevo veramente andare fino in fondo a ciò che stavo facendo. Durante un anno sabbatico, venni a Londra per lavorare con Roger Penrose. Incontrai David Bohm quasi per caso e cominciai a conversare con lui. In realtà, quello che successe fu forse simile a ciò che avvenne tra Bohm e Krishnamurti: Dave non mi rivelò nulla di nuovo, ma confermò i dubbi che già avevo. Probabilmente, avrei preferito affrontare da solo tutte quelle profonde questioni, ma non ne avevo il coraggio, oppure pensavo che non fosse pratico o possibile.
Però, quando vidi che Bohm lo stava facendo, pensai: «Perché non possiamo farlo anche noi?». Forse, Krishnamurti non ha detto niente di nuovo a David Bohm, ma si è limitato a sostenerlo nelle sue indagini. Nel mio caso, il fatto cruciale fu sentire il sostegno di Dave per un certo numero di anni. Non che egli pensasse di starmi sostenendo in modo attivo; bastava la sua semplice presenza.
Inoltre, egli rifiutava l’idea del “genio”; sosteneva che non è necessario essere dei geni. Chiunque abbia l’energia per fare domande, per fronteggiare le cose e lavorare con costanza, può farcela. Questa è una cosa importante. Altrimenti, tanta gente lascerebbe perdere, dicendo: «Tanto non sono un genio». Questo è ciò che mi fu detto quando facevo il ricercatore: «Beh, non sei un genio: perché ti preoccupi di queste cose? Scegli qualcosa di modesto». Al contrario, Dave sosteneva che chiunque poteva fare questo lavoro. Naturalmente, devi avere qualche formazione, ma la cosa più importante è continuare a porsi quelle domande. E chiunque può farlo.
Simeon Alev: Questo suggerimento che le fu dato riguardo il fatto di non essere un genio… È normale per gli studenti di fisica sentirsi dire cose del genere?
David Peat: Sì. Sì, lo è. Succede spesso. Un altro consiglio che ricevetti fu: «Trova un settore molto, molto ristretto della fisica e pubblica all’incirca dieci o quindici articoli al proposito; così ti guadagnerai una reputazione». Solo dopo puoi cominciare a fare queste altre cose. Infatti – un altro piccolo aneddoto – quando andai a trascorrere un anno sabbatico con Bohm, in Inghilterra, un fisico molto importante mi chiese di fargli visita per qualche giorno.
Una sera mi portò a cena fuori e in modo molto paterno mi disse che voleva darmi qualche consiglio. Raccontò di essere al corrente del fatto che collaboravo con Bohm, aggiungendo che quella probabilmente non era la cosa migliore che potessi fare. In realtà, era una cosa che mi danneggiava e avrei dovuto cercare di staccarmi da lui per tornare a occuparmi di settori ben limitati della fisica. «Occupati di problemi modesti», mi disse; «questo è il modo in cui la fisica si evolve: grazie a persone che fanno piccole cose».
Un’altra persona mi confessò che la sua ambizione più grande era quella di diventare una nota a piè di pagina di un libro. Ebbene, Dave non ha mai ragionato così. Egli riteneva che quando le persone si esprimevano in tal modo, si trattava, in fondo in fondo, di falsa modestia; per lui, l’unica cosa veramente importante era porsi gli interrogativi fondamentali. Altrimenti, a che pro occuparsi di fisica? Penso che questa idea sia ben espressa in una delle lettere tra Bohm ed Einstein. Einstein scrisse: «Se così stanno le cose, non c’è motivo che continui a occuparmi di fisica».
Simeon Alev: Quali direzioni ha preso il suo lavoro che non sarebbero state possibili senza Bohm?
David Peat: Più che altro, si trattava di ampliare il campo di indagine. Una volta, David Bohm mi raccontò che la cosa più significativa che Krishnamurti gli avesse detto era: «Comincia dall’ignoto». Ebbene, Krishnamurti non aveva molto tempo per studiare fisica con Dave – né credo che ci pensasse molto – ma questo fu il suo consiglio: «Comincia dall’ignoto». Credo che da qui vengano le mie lunghe discussioni con i nativi americani, nel tentativo di comprendere il loro mondo. E negli anni passati ho anche discusso molto con vari artisti – scultori, pittori – per cercare di comprendere ciò che vogliono realizzare, che ha a che fare con la ricerca di un nuovo ordine; ho notato incredibili somiglianze tra tutto ciò e quello gli scienziati stanno cercando in fisica. Di base, sto cercando di porre gli interrogativi più grandi possibili. Forse è questa l’eredità di Dave.
Simeon Alev: Lei avrà un’idea di cosa intendesse Krishnamurti quando affermò: «Comincia dall’ignoto»…
David Peat: Penso che Krishnamurti sentiva che procedere dal noto verso l’ignoto non era il giusto modo di lavorare. Devi cominciare dall’ignoto, da ciò che non si conosce: e nell’ignoto scopri un’energia infinita per penetrare le cose, che non trovi quando lavori continuamente con il noto. David stesso una volta ha detto a qualcun altro: «Tra dove sei ora e dove vorresti essere c’è una specie di barriera, o un baratro, e talvolta è una buona idea immaginare di trovarsi già dall’altra parte del baratro, così che puoi cominciare dalla parte sconosciuta».
Nuovi indirizzi della scienza
Simeon Alev: Ho letto un suo articolo nel quale evidenzia il bisogno di un paradigma completamente nuovo per la scienza occidentale, e dove descrive le sue ricerche sulle filosofie e le cosmologie dei nativi americani. In che modo lei concilia queste tendenze che, agli occhi della maggioranza, possono sembrare molto distanti?
David Peat: Dunque, penso che quando stavo con alcuni nativi americani molto anziani cercando di comprenderne la visione del mondo – ma non è che al riguardo ebbi più di qualche barlume – alcune delle cose che dicevano sembravano corrispondere… Ma, vede, non ho mai voluto fare o scrivere qualcosa che assomigliasse al Tao della Fisica perché non sono certo di credere a tutta quella roba.
Quello che si può dire, tuttavia, è che tra i nativi americani esiste una certa percezione del cosmo, o della nostra relazione con esso, che è una visione della natura in divenire: tutto è movimento, flusso, trasformazione. Entriamo in relazione con questo flusso, ma la realtà di base è trasformazione e cambiamento. Dall’altro lato, per diverse centinaia di anni, gli scienziati hanno creato strutture e ordini fissi, fino a quando la meccanica dei quanti ha rivoluzionato tutto. In seguito, la teoria del caos ha creato un’altra rivoluzione.
Si potrebbe quindi sostenere che la fisica occidentale rifletteva il desiderio umano di un certo tipo di ordine – classico o platonico – che ora è stato rovesciato. E’ come se la natura ci avesse rivelato che non possiamo più procedere in quella direzione e che la modalità successiva, la teoria quantica o un’altra qualsiasi, corrisponde in qualche modo alle intuizioni che ho avuto parlando con i nativi americani. Può vedere che questi due modi di vedere le cose non sono così distanti. I nativi americani vedono l’universo come un flusso, un processo o un rapporto di energie. E quando chiedi ai fisici quantici: «Cosa sono queste cose, cosa sono le molecole?», ti risponderanno: «Sono rapporti di energie». Per esempio, David Bohm concepiva una particella elementare come un processo: una particella sta sempre collassando all’interno o espandendosi all’esterno.
Allo stesso modo, anche noi oggi abbiamo a che fare con flussi, processi e relazioni, il che è molto simile alla metafisica dei nativi americani. Rimasi molto colpito da questa scoperta. Suppongo che rimasi colpito anche dal fatto che essi avevano sviluppato un linguaggio che li rendeva in grado di vivere in quel tipo di mondo. Uno dei problemi chiave della meccanica quantica, come evidenziò Niels Bohr, è che i linguaggi indo-europei riguardano concetti e interazioni fra oggetti statici: per questo, non sembrano adeguati al mondo dei quanti. Sembra che siamo tagliati fuori da quel mondo a causa del nostro linguaggio.
Simeon Alev: Non abbiamo un linguaggio adeguato per esprimere queste verità.
David Bohm: Esatto, perché il nostro linguaggio è basato sui nomi, così tendiamo a vedere un mondo fatto di oggetti e interazioni. E poiché abbiamo un linguaggio basato sui nomi, tendiamo a vedere categorie e concetti, a sistemare le cose in categorie. Così, dal linguaggio che parliamo deriva un certo modo di pensare, una certa logica. Ma alcuni gruppi di nativi americani non hanno questo tipo di linguaggio; come risultato, non hanno categorie in cui incasellare le cose, quindi non hanno i nostri problemi. Vede, in questo c’è qualcosa di liberatorio: dando un’occhiata al loro mondo e facendo ritorno al mio, mi rendo conto che la mia esperienza del mondo è condizionata dalla mia cultura e non è inevitabile; capisco che potrebbero esserci altri punti di vista. Ecco cosa ho trovato di così prezioso in quel contatto.
Per rispondere alla sua domanda, quindi, non ho visto alcuna incompatibilità tra il mio interesse per la scienza e quello per i nativi americani. In questi giorni, per ragioni simili, discuto molto con gli artisti: infatti, ritengo che l’altro grande cambiamento che deve verificarsi nella fisica riguarda il nostro concetto di spazio, argomento con cui hanno a che fare tutti gli artisti con i quali ho parlato. Può darsi che avvicinandosi al millennio, stiamo tutti cominciando a porci le stesse domande, ognuno attraverso la sua disciplina; oppure, che la rigidità della mente occidentale sia arrivata alla fine e sta lasciando spazio a qualcosa di più flessibile. Forse la scienza sarà mitigata da cose come l’intuizione e la compassione, valori che non erano presenti prima.
Simeon Alev: Da un certo punto di vista, la scienza è sempre stata innovativa, ma allo stesso tempo gli scienziati sono spesso molto orgogliosi del rigore e della razionalità della propria metodologia. In questi tempi invece, molti tra gli scienziati più importanti dell’odierna generazione stanno seguendo direzioni molto affascinanti, anche se, da un certo punto di vista, apparentemente bizzarre. Rupert Sheldrake, per esempio, sta facendo ricerche sulla “fisica degli angeli”.
David Peat: Oh, davvero? Allora se ne è uscito con questo…
Simeon Alev: Sì, ha appena pubblicato un libro su questo argomento. E mi è venuto in mente che la gente potrebbe considerarlo, comprensibilmente, al di là del rigore necessario per l’indagine scientifica.
David Peat: Sono sicuro che è quello che pensano molte persone.
Ma, vede, io sto vivendo in questo paese, in Italia, dove pago un affitto molto basso, il vino è assai economico e tutto il cibo è coltivato localmente. Non devo più soddisfare nessuno, per cui la cosa non m’importa granché. E quando parlo ai nativi americani vedo che queste persone hanno un’incredibile disciplina nella loro vita e nel modo in cui lavorano –molto più di quella che abbiamo noi, direi – e anche gli artisti che ho conosciuto studiano a lungo e profondamente i loro materiali e il proprio lavoro: in tutto ciò, io scorgo un grande rigore. Mi interessa il rigore in questo senso. Forse dovremmo tornare all’idea di David Bohm, secondo cui bisogna cercare la verità dovunque essa ti porti, senza compromessi, senza cercare di mitigare le cose. Le persone che lo fanno sono quelle che rispetto.
Ora, come lei sa, esiste ogni genere di personaggi folli e bizzarri, sia dentro che fuori la comunità scientifica, ma la cosa non mi interessa.
Simon Alev: In questo caso, per esempio, si può considerare la fisica degli angeli un argomento molto creativo e rischioso, nel quale Sheldrake si inoltra da solo per esplorare qualcosa in cui crede profondamente.
David Peat: Mi sta chiedendo di commentare qualcosa di cui non sono molto al corrente. Ma forse potrei metterla in questo modo, sperando di non sembrare ipocrita: se ottocento anni fa, in Europa, alcune delle menti più filosofiche come Dionigi il Certosino e San Tommaso d’Aquino dibattevano e studiavano molto profondamente certi argomenti attinenti al modo in cui percepivano la realtà, arrivando alla fine a delle conclusioni, penso che valga la pena prenderli seriamente. Ebbene, quando cerchi di trasferire ciò alla meccanica quantica, per esempio, di solito ottieni qualcosa di molto stravagante, stupido e new age.
Quindi, devi trovare un linguaggio molto creativo col quale esprimere queste cose per il mondo moderno, restando però fedele alle idee originarie. Penso che qui stia la difficoltà: è un atto di traduzione. Infatti, dopo tutto, Nicola di Cusa (mi pare fosse lui) sviluppò un’idea molto simile all’ordine sottinteso, ma era impossibile trasferire Nicola di Cusa nella meccanica quantica. Non avrebbe funzionato. Ci voleva qualcuno come David Bohm per riscoprire quell’idea, porla in un nuovo contesto e tradurla in un diverso linguaggio. Penso che, in parte, le cose stiano così. E se Rupert Sheldrake riesce a portare il rispetto intellettuale del mondo moderno verso l’Aquinate, Dionigi e tutti gli altri, ha compiuto qualcosa di molto creativo. Non ho letto il suo libro e ne ho solo parlato brevemente con lui.
Simeon Alev: Penso di essere d’accordo, ma non intendevo chiederle di commentare Sheldrake, bensì di dirmi qualcosa sul fatto che questi argomenti sono diventati oggetto della scienza contemporanea.
David Peat: Vada per gli angeli. Ma che dire dei dischi volanti, i rapimenti degli extraterrestri e cose simili? Sono appena tornato da una conferenza dell’Istituto di Arti Contemporanee a Londra, la scorsa settimana, dove si parlava di dischi volanti, rapimenti da parte di alieni, dosi enormi di droghe, Timothy Leary che moriva nell’Internet… cose del genere. Insomma, le cose stanno diventando un po’ troppo stravaganti.
Simeon Alev: Quando fa queste distinzioni, come traccia la linea di confine?
David Peat: E’ molto difficile. Dipende dalle persone coinvolte. Penso che sia possibile individuare una persona insincera con molta facilità. Ma credo anche che se incontri una persona e hai per lei un certo rispetto, se questa ti dice delle cose che ti sembrano un po’ bizzarre, devi approfondirle, parlarne e investigarle insieme a lei. Questo è sempre possibile, anche se quello che senti all’inizio ti sembra decisamente folle. Voglio dire, quando senti dire che Swedenborg andò su altri pianeti e cose simili, si tratta ovviamente di fatti bizzarri; personalmente, non credo che Swedenborg sia andato su altri pianeti.
Ma se ipotizzi che Swedenborg intuì qualche verità e cercò di esprimerla nel solo linguaggio che conosceva a quel tempo, la cosa diventa più accettabile e puoi sostenere: «Approfondiamo questo Swedenborg, perché sembra un pensatore molto intelligente e profondo. Che cosa sta dicendo?». Forse questa è l’unica cosa che puoi fare, a livello personale. È possibile che all’inizio devi cercare di non farti scoraggiare dal linguaggio utilizzato (che si parli di dischi volanti, di angeli o di qualsiasi altra cosa) e dovrai dunque chiederti: «E se fosse una metafora, un’immagine? Bene, a cosa si riferisce quest’immagine?».
Alcune persone vedono dischi volanti, altre, angeli, ma cosa c’è dietro? I nativi americani direbbero: «Vediamo i guardiani dello spirito». E se solleciti spiegazioni, chiedendo: «Cosa sono i guardiani dello spirito?», risponderebbero: «Sono energie». Allora dici: «Va bene, se stai parlando di energie, stiamo usando lo stesso linguaggio, che si riferisce a relazioni di energie». Si tratta di trovare un linguaggio comune e discutere rispettandosi a vicenda.
Simeon Alev: Quindi, dal suo punto di vista, questi sono linguaggi ugualmente validi o modi diversi di descrivere la stessa cosa?
David Peat: Quello che intendo dire è che quando hai a che fare con una cultura esistente da molto tempo, come quella dei nativi americani (o anche dell’Europa medievale che discuteva degli angeli) devi averne molto rispetto. Non è la stessa cosa che rispettare i dischi volanti, il magico bambino interiore, il tuo animale superiore o cose del genere, come fa la gente in California. Non si tratta di queste cose. Voglio chiarire la mia posizione.
Simeon Alev: La distinzione fatta da alcuni autori che ho avuto modo di leggere – Ken Wilber e Huston Smith, per esempio – non verte tanto sul fatto che queste non siano tutte strade valide per studiare e descrivere la nostra esperienza, quanto sul fatto che potrebbe verificarsi una sorta di errore di classificazione. Secondo questa tesi, il dominio della scienza è quello di una realtà empirica fisicamente verificabile, mentre il dominio spirituale (ma anche quello razionale-filosofico) si rivolge a una dimensione completamente diversa dell’esperienza umana. Naturalmente, tutte queste dimensioni sono correlate, ma ciononostante, non si dovrebbe pensare che l’affermazione fatta in un dominio valga anche per un altro.
David Peat: Sì, questi sono ragioni forti, me ne rendo conto.
Sa, c’è un aneddoto riguardo Pasteur. Egli si trovava nel suo laboratorio, quando qualcuno venne a intervistarlo, chiedendogli: «Pasteur, signore, dottore, lei quando prega?». Ed egli, guardando al microscopio, rispose: «In questo momento, sto pregando». Nella vita dell’individuo – quella di David Bohm, per esempio – potrebbe non esserci distinzione tra quando si smette di essere uno scienziato e si diventa qualcos’altro. Egli non avrebbe potuto compiere questa frammentazione del proprio essere.
Con un nativo indiano anziano, avviene la stessa cosa: egli è sempre in preghiera e in profonda relazione spirituale con la natura. Personalmente, quindi, non vedo come una persona possa smettere di essere una cosa e all’improvviso diventare un’altra. E penso che per alcuni scienziati l’impulso di base sia di tipo religioso, o spirituale: cioè un senso del numinoso, di qualche ordine profondo o qualche qualità trascendentale dell’universo. Lei troverà che ciò è sempre vero in questi scienziati, anche dopo aver distinto la loro onestà e la loro volontà di affrontare la verità dal loro lavoro e dal linguaggio che utilizzano per esprimere le loro idee.
Ma credo che sia pericoloso usare la scienza per dimostrare o dare credibilità alla religione. Mi riferisco a libri del tipo God and the New Physics. Ritengo che sia un’operazione rischiosa.
Simeon Alev: Prima ha citato Il Tao della Fisica. Ritiene che il lavoro di Fritjof Capra appartenga a tale categoria?
David Peat: A essere onesti, non l’ho mai letto. Devo essere una delle poche persone sul pianeta che non lo ha ancora letto, quindi non so che dirle. Può appartenervi o meno, non so. Ma penso che ci siano un sacco di analogie deboli: per esempio, quando sostieni che la meccanica quantica produce uno stato di vuoto, che è uno stato di infinita energia potenziale, e poi da lì salti ad affermare: «Questo è Dio». Tutto ciò è molto stupido e superficiale.
Simeon Alev: Per finire, riprendiamo un filo del discorso che ci siamo lasciati alle spalle, e che ha a che fare con il suo modo di vedere le cose: qual è per lei la cosa più importante nella vita?
David Peat: Hmm…Una domanda facile! La cosa più importante nella vita…Sa, forse non ci penso. Mi spiego, è stato bello trovare un villaggio sulla cima di una collina, circondato dalla bellezza, dove le persone vivono in modo tradizionale e puoi condurre una vita bilanciata fatta di passeggiate, buon cibo, calore… Suppongo che… riuscire a esprimersi creativamente, forse questa è la cosa importante. Di qualunque cosa si tratti: scrittura, pittura, qualsiasi cosa… E relazionarsi con le persone…
Non lo so, non lo so. Non è qualcosa che mi preoccupa. Forse, se mi preoccupassi, non starei facendo questo. In passato, mi preoccupavo di più. Forse non sono preoccupato adesso… ma niente dura per sempre!
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Jiddu Krishnamurti, David Bohm. Dove il tempo finisce. Astrolabio.1986. ISBN: 8834008472
Fritjof Capra. Il Tao della fisica. Adelphi.1989. ISBN: 8845906892
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