L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale’
di Marco Managò - 12/04/2006
Fonte: rinascita.info
Sennett, professore universitario di sociologia, è l’autore di un saggio, pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli in una prima edizione del 1999, in cui si evidenziano le contraddizioni del moderno evolversi del capitalismo.
L’autore spiega come la nuova forma che il capitalismo assume, sia ben riassunta nell’aggettivo “flessibile”, uno dei vari termini “edulcorati” che hanno accompagnato nei decenni il sistema commerciale occidentale, sminuendone i lati negativi. I tratti peculiari del nuovo sviluppo si concentrano su una maggiore versatilità dei mercati, dei lavoratori e dei consumatori, nella possibilità di adattarsi repentinamente ai mutamenti del mercato, cercando di assecondarli e di assumersi, senza impegnative remore, i rischi che esso comporta. L’abbandono di formalità, di centralismo e burocrazia, sembra fumo negli occhi verso il lavoratore moderno, affinché questo si senta sciolto dai legacci classici del vecchio capitalismo e assuma una dimensione più libera e personale nella scelta delle proprie linee guida.
Il credo si concretizza nel breve termine, nel raggiungimento di obiettivi programmati nel breve periodo, attraverso mutamenti e continue ristrutturazioni aziendali. Un mutamento strutturale che camuffa sapientemente, con capacità camaleontiche inaspettate, inefficienze sistemiche e difficoltà nel reggere il mercato. Mobilità, versatilità e mutamento che, nelle parole dei santoni della nuova economia, necessariamente dovrebbero produrre, per atavico legame, benessere, efficienza e ricchezza.
Il testo in questione, espresso con esclusiva padronanza linguistica e meritevoli citazioni dagli alti contenuti, esprime senza mezzi termini la condanna per un sistema che brucia tappe ed eventi in rapida successione, scavalcando l’esperienza personale, la competenza, la padronanza delle situazioni nonché ogni vincolo etico.
Sono riportate, con opportuni accorgimenti nominativi, delle situazioni realmente esistenti, tastate da protagonisti conosciuti dall’autore e analizzate con precisione. Il primo caso riguarda l’incontro occasionale con un ragazzo, comodamente chiamato Rico, il quale, inserito pienamente negli ingranaggi del nuovo mutante sistema, ha già sperimentato vari cambi professionali ma ha sviluppato, progressivamente, anche il rammarico per non aver costruito un necessario sedimento culturale e morale per i propri figli; questi ultimi sono, quindi, allo sbaraglio nelle fauci consumistiche dei nuovi mostri tentacolari della grande distribuzione commerciale.
Il padre di Rico, invece, conosciuto personalmente dall’autore, costretto a lavori semplici pur di mantenere la propria famiglia, costruiva giornalmente la personale “narrazione” di vita e, mattone dopo mattone, edificava il suo progetto famigliare. Il padre di Rico sapeva bene che la propria occupazione sarebbe stata la stessa sino alla pensione, con la sua ritualità e linearità, al sicuro nella weberiana “gabbia d’acciaio”, una struttura burocratica in grado di ottimizzare e razionalizzare i tempi. Una vita dura, costellata da sacrificio, puntellata costantemente e supportata di continuo con alto e legittimo senso di autostima. Rico sa bene che il prezzo da pagare, per la sopravvivenza nel nuovo sistema economico, è troppo alto e ha dei costi umani e affettivi ormai irreversibili e forse anche il compiacimento per l’esordio professionale della propria consorte comincia a vacillare.
L’impiego a termine sembra essere il fine esclusivo del nuovo credo economico, basato eccessivamente sul guizzo estemporaneo dell’imprenditore materializzatosi improvvisamente, pronto a scomparire di nuovo nel nulla. “La gente ha fame di cambiamento”, “il mercato sta per essere guidato dai consumatori”, “l’impazienza dei capitali”, queste le frasi ricorrenti dei nuovi guru del management moderno.
L’obiettivo aziendale primario, supportato dalle nuove rapide tecnologie, è quello di snellire l’apparato burocratico e strutturale, adeguandolo sempre più ai mutamenti del sistema, modificando la classica struttura piramidale in una sorta di rete. In tale rete cadono, come tanti piccoli pesci, i lavoratori, vittime di regole non sempre ben definite e notevolmente cangianti, anche per quanto riguarda i diritti e la conservazione del proprio posto di lavoro.
Le conseguenze pratiche di tale frammentazione si avvertono nella famiglia dove, secondo l’autore del volume <
L’analisi di Sennett si concentra sul grande senso di incertezza provato dalle attuali giovani e rampanti generazioni, per il quale non esiste una motivazione legittima, se si confronta l’ansia sostenuta dalle generazioni interessate dal peso delle guerre mondiali. Un’incertezza che si accompagna a contraddizioni e scorciatoie nonché a un ribaltamento di valori; non devono stupire, quindi, le affermazioni degli esperti i quali consigliano di affrontare il mostro aziendale non più dall’interno bensì di preferire l’assunzione dall’esterno, come collaboratori e consulenti, piuttosto che instaurare un inefficace e imbrigliante rapporto di fiducia interiore.
La ritualità professionale, così scaltramente vituperata dai profeti del nuovo capitalismo flessibile, non era giudicata tale agli albori del capitalismo stesso. Il francese Diderot, autore a metà Settecento dell’Enciclopedia, considerava la ritualità un ottimo mezzo di apprendimento e di realizzazione della personalità umana; la possibilità, attraverso la ripetizione, di migliorare la professionalità e comprendere meglio le proprie capacità, come un alunno che ripeta a memoria, più volte, una lezione.
Agli antipodi di questa visione c’è il pensiero di Adam Smith, pioniere del primo capitalismo, che considera la routine come la fine dello spirito e della personalità.
La situazione lavorativa ha conosciuto fasi importanti di mutamento, sfilando da un’epoca di coincidenza lavoro - casa, in cui i luoghi professionali si sono concentrati nella stessa abitazione, o quasi, sino alle prime fabbriche situate in luoghi diversi; il tempo, in origine scandito dai rintocchi delle campane delle chiese, oggi viene cronometrato con orologi meccanici, alla portata anche degli stessi lavoratori.
Il “fordismo” ha rappresentato un’ulteriore tappa nella strutturazione del primo capitalismo; il proprietario dello stabilimento della Ford ha iniziato una rilevante suddivisione del lavoro, su base tecnologica, sfruttando l’opera degli operai specializzati più che degli artigiani. Riguardo alle preoccupazioni circa la routine e i tempi di lavoro si è dimostrato indifferente, in quanto convinto che le buone paghe concesse, fossero più che sufficienti a lenire qualsiasi lagnanza su noia e disagio esistenziale.
Sennett cita anche il caso di Taylor, psicologo industriale << Egli asseriva che meno gli operai erano “distratti” dalla comprensione del disegno d’assieme, tanto maggiore sarebbe stata l’efficienza con cui si sarebbero limitati a eseguire i propri compiti. I famigerati studi di Taylor sui movimenti e sui tempi vennero condotti con un cronometro, misurando fino alla frazione di secondo quanto tempo era necessario per installare un faro o un parafango. >>
Tuttavia, la paventata sottomissione degli operai, auspicata da Taylor, fortunatamente non si è realizzata e, anzi, ci sono stati efficaci tentativi di boicottare tale rilevazione di tempi o di distorcerne gli effettivi risultati.
La logica taylorista del “tempo metrico”… così degradante per operai e dirigenti stessi che l’hanno utilizzata e la utilizzano… Una maniacale, insulsa e inefficace maniera di ottimizzare la produzione, senza tener conto delle effettive esigenze professionali, della dignità dei lavoratori e del modo di coinvolgerli maggiormente nella produzione migliorandone i risultati. E invece… elucubrazioni articolate sui secondi occorrenti per la gestione di un’operazione, in enormi fabbriche concentrate su uno stesso e unico luogo per evitare sprechi, o articolate in due sedi, una operativa e l’altra decisionale, dove i “generali “ perdono il contatto con le proprie “truppe” ma, in entrambi i casi, con il distacco delle maestranze dalla “vita” dell’azienda.
Una logica colpevole nell’essenza, così determinante, purtroppo, anche nel mondo moderno e causa/effetto di un processo vorticoso e rapido di vite incontrollabili, poi profondamente rimpiante, come nel caso di Rico.
Faccia riflettere il fatto come, dal calcolo ossessivo del tempo effettivo di lavoro prestato, si calcolassero anche gli scatti di anzianità e come i sindacati giocassero i loro dadi proprio su questioni inerenti il tempo di lavoro. La speculazione sindacale, professionale e aziendale ruotava proprio intorno a quello che ne era il principio del male, da estirpare immediatamente e invece così vincolante.
La flessibilità, già nella sua accezione originaria, indica la possibilità di piegarsi e tornare alla situazione di partenza; estendendo il riferimento al lavoratore, si immagini quanto questo debba subire processi di innovazione continua senza “spezzare” la personalità, anzi, ricevendo maggiore impulso dall’abbandono della routine. Niente di più falso, afferma Sennett <
Il testo prosegue attraverso alcune riflessioni di notevole portata, ben illustrate dall’autore, per le quali sarebbe un peccato ignorare alcuni passaggi tali e quali come sono stati scritti.
Lo sviluppo della nuova economia flessibile si realizza attraverso tre grandi direttrici che l’autore definisce: reinvenzione discontinua delle istituzioni, specializzazione flessibile della produzione e concentrazione di potere senza centralizzazione.
Il primo punto riguarda la continua e frammentaria rivoluzione che stravolge le strutture burocratiche aziendali, in nome di una maggiore dinamicità, assumendo una struttura di rete anziché piramidale come nel classico e logoro fordismo.
Una ciclica contraddizione del sistema, che genera continuamente nuove forme di ristrutturazione.
Precisa Sennett <
I tentativi degli studiosi e degli economisti di camuffare la pericolosità della “reingegnerizzazione”, di surrogare l’implicito collegamento al licenziamento, mascherandolo con un’ottimizzazione dei costi e dei tempi, si scontrano con la realtà più evidente, addirittura con un minor profitto per l’azienda, facendole perdere competitività ed efficienza. Spiega l’autore <
La specializzazione flessibile della produzione ben si accompagna ai prodigiosi progressi della tecnologia, soprattutto quella informatica.
Gli statunitensi pretendono di poter incarnare il massimo del principio della flessibilità mondiale, in quanto allineati a una maggiore duttilità politica che precede quella economica. Un’interessante intuizione del banchiere Albert individua due filosofie economiche: quella del modello “renano”, tipico di Olanda, Germania, Francia e Italia, in cui la politica economica si accompagna a un certo grado di sussistenza e intervento statale, e il modello “angloamericano”, tipico di Usa e Gran Bretagna, del tutto scevro dal burocratismo statale, considerato altamente dannoso. Due definizioni diverse per i due “regimi”, “capitalismo di stato” per quello renano, in cui a una maggiore disoccupazione si accompagna una minore diseguaglianza economica e “neoliberismo”, nel caso di quello angloamericano, capace di ridurre la disoccupazione ma di generare immense sperequazioni salariali.
Per ciò che concerne il terzo punto individuato da Sennett occorre partire da un recente assioma “la concentrazione del potere senza una sua centralizzazione”. Scrive il sociologo <<… la grande azienda tiene nella propria stretta il mutevole corpo di ballo costituito dalle aziende dipendenti, scaricando sui partner più deboli (che ne subiscono gli effetti con più forza) le flessioni del ciclo economico o il fiasco di qualche prodotto. >>
In una struttura sempre meno piramidale <
Nel mosaico dei tempi lavorativi, dei cicli giornalieri sempre più personalizzati, una molla fortemente catalizzatrice della flessibilità è stata la massiccia, e legittima, invasione della donna nel ciclo lavorativo. La richiesta crescente di part-time, per coniugare i doveri professionali e quelli domestici, ha sviluppato una maggiore predisposizione per figure flessibili e frammentarie dell’orario lavorativo.
Occorre notare come gli Usa, e nell’inevitabile “plagio” europeo, l’assegnazione di eventuali modifiche nell’orario lavorativo, sulla scorta dell’esempio del part-time, sia addirittura considerata più come una concessione aziendale, mascherata da conquista sociale, che un diritto dei lavoratori, tant’è che a beneficiarne, statisticamente, risultano le classi sociali più elevate, rispetto alla manovalanza di colore che deve accontentarsi dei turni notturni.
La forma estrema di flessibilità è il lavoro a domicilio, ma anche in questo caso il controllo aziendale rimane forte, sostituendo quello classico di tipo “faccia a faccia” con quello mediato dai mezzi informatici, come le e-mail, facendo venir meno, ancora una volta, quella che l’autore definisce visione illuministica della flessibilità di Adam Smith.
Sennett descrive anche l’aria diversa che avverte nell’annuale raduno dei potenti della finanza e del commercio, nella cittadina svizzera di Davos <
L’autore considera un altro esempio e mette a confronto una panetteria, visitata 25 anni prima, con la situazione attuale, sempre nella stessa azienda. Le interviste raccolte in passato lanciavano un messaggio chiaro: una singolare valutazione della classe sociale, identificata più che altro nella stessa provenienza razziale, da celebrare con il lavoro alacre per un’elevata considerazione. L’obiettivo primario dei panettieri era quello, classico dell’economia statunitense di metà Novecento, di celebrare il proprio trionfo sulla massa e di ottenere riconoscimenti per l’attività svolta che permetteva quindi l’innalzamento sociale. Scrive Sennett << La personalità dei singoli si esprimeva comportandosi onorevolmente sul posto di lavoro, lavorando in cooperazione e in modo leale con gli altri fornai perché appartenevano alla stessa comunità. >>
La panetteria attuale è ben diversa da quella di 25 anni fa, non c’è un collante razziale, né un amorevole interesse del singolo lavoratore nei confronti di un processo lavorativo sempre più impersonale, dominato dalle macchine, dove l’arte manuale e pratica di produrre il pane è surrogata da computer, schermi e icone da digitare con le stesse mani che tempo prima impastavano con maestria. La flessibilità degli orari introdotti, ancora una volta maschera di un dominio sottile, ha il solo scopo di favorire l’impersonalità e la scarsa qualità della produzione.
Flessibilità, sinonimo di duttilità e fluidità, implica una semplificazione dei rapporti professionali e delle fasi lavorative che, paradossalmente, eliminando a priori ogni eventuale difficoltà, stempera anche l’interesse e le motivazioni dei lavoratori. Essenza pura nelle parole dell’autore << Le immagini di una società senza classi, che condivide un unico modo di parlare, di vestire e di vedere, possono anche servire a nascondere differenze più profonde; c’è una superficie nella quale tutti appaiono sullo stesso piano, ma penetrare questa superficie può richiedere il possesso di un codice di cui la gente è priva. E se quello che gli individui possono conoscere di se stessi è facile e immediato, può anche darsi che sia insufficiente. >>
Il testo prosegue attraverso un altro esempio molto significativo, quello di Rose, proprietaria di un bar, entusiasta all’idea di voltar pagina affrontando il periglioso iter dell’attività pubblicitaria. Il suo rischio è contenuto, in quanto la protagonista decide, saggiamente, di mantenere la proprietà dell’esercizio commerciale. L’esperienza durerà un anno e si concluderà in una profonda delusione.
Rose incarna, a sue spese, il nuovo quadro sociale. Gli squali imprenditoriali più vincenti sembrano essere quelli più spregiudicati, quelli più distanti dal rischio e dalle avversità che esso può arrecare. L’esperienza non ha valore né titolo, anzi sembra essere un freno alla dinamicità, alla giovane disponibilità di affrontare il mondo del lavoro e tutti i rischi che quotidianamente comporta, sino a considerarlo una componente essenziale anziché eventuale. La quotidianità del rischio… una necessità della nuova economia, secondo alcuni studiosi così direttamente proporzionale all’aumento della produzione sociale di ricchezza.
In un’economia controversa, sempre più proiettata verso una gestione estranea ai vincoli del tempo e dello spazio, si assiste alla contrapposizione di diverse correnti di pensiero in cui, essenzialmente, si fronteggiano coloro che scorgono nell’assunzione sistemica e quotidiana del rischio un esercizio per sviluppare la personalità, e coloro che negano in toto tale assioma.
Il salto effettuato verso nuove professioni allettanti contiene, quasi sempre, un implicito viaggio verso effimere progressioni verticali (in realtà sono esclusivamente orizzontali) e regressioni dal punto di vista economico, alcune delle quali non avvertibili nel breve periodo.
La domanda che ci si pone è come mai, vista l’incidenza del rischio e la statistica negativa dei risultati ottenibili, ci si proietti verso una massiccia e diffusa versatilità e brama di cambiare professione. Sennett chiarisce l’enigma con un’affermazione importantissima che smaschera la colpevole e subdola tendenza dei nostri tempi. << La moderna cultura del rischio si distingue invece dalle altre perché i mancati spostamenti sono presi come indicazioni di fallimento, e la stabilità sembra quasi una morte in vita. La destinazione, quindi, conta meno dell’atto di partire. Questa insistenza sul partire viene plasmata da immense forze sociali ed economiche… in questo contesto rimanere immobili vuol dire essere tagliati fuori. >>
Ogni tentativo di valutazione chiara e razionale del rischio è sapientemente celata e offuscata dalla moderna e cangiante flessibilità. A beneficiarne, in questo momento del mutamento economico e chissà per quanto, vista l’enorme duttilità, sono le aristocrazie tecnologiche, in grado di aggredire il mercato e di sviluppare enormemente la forbice divisoria tra ricchi e poveri, tra vincenti e perdenti.
Un mercato vorticoso, affamato di rischi e di masse pronte a viverlo, astioso nei confronti dei lavoratori di mezza età perché considerati meno propensi alla disponibilità all’azzardo. Il sistema respinge, dunque, l’età, in quanto sintomo di minor rischio; si generano, così, situazioni completamente paradossali in cui, Rose, a esempio, è prima selezionata per la propria esperienza, poi è tagliata fuori per l’età non più verdissima, non più idonea al gioco, non più di moda. Non si cerca più l’esperienza consolidata nel tempo, bensì la grinta dei giovani rampanti, di coloro in grado di offrire capacità nell’immediato e di aggiornarsi continuamente. Tale versatile immediatezza spinge il lavoratore a cambi continui, al salto nel vuoto, senza rimpianti, verso una nuova occasione lavorativa.
I cinquantenni subiscono le falle del sistema più delle fasce giovanili e, statisticamente, rappresentano la fascia più appetibile per tagli e licenziamenti. Il loro “potere di voce”, la personalità e la scaltrezza consolidata nel tempo, ne costituiscono un latente pericolo per l’azienda, molto più del giovane, in genere tollerante con le decisioni sbagliate dei dirigenti.
Il nuovo capitalismo induce profondi stravolgimenti della personalità, attraversa e altera situazioni personali e desiderio di autostima, profittando dell’immediatezza e della fascia di età più conveniente al momento, pone effimere illusioni e permanenti insicurezze, rallenta i normali rapporti sociali sedimentati nei secoli.
In tale situazione mediata e confusa si studiano nuovi modi più accattivanti per stimolare il lavoratore, e, inserendolo in una vera e propria sceneggiatura di gestione, si alimenta la cooperazione permeandola di termini mutuati dal linguaggio sportivo e volti al gioco di squadra, alla virtuale cooperazione. L’autorità perde la propria classica facciata austera e si cala, meno evidente, nel pieno della cooperazione dei dipendenti, come un collaboratore attento e non antagonista, sempre meno responsabile. La spersonalizzazione dell’autorità, non del potere, facilita la scarsa individuazione delle responsabilità, la neutralità degli eventi e delle decisioni aziendali. Ogni lamentela del lavoratore è etichettata con ipocrita riferimento a una mancanza di collaborazione all’interno dell’azienda, la socialità e la pressione dei colleghi sono abilmente proiettate all’aumento della produttività. E’ scritto <
Il fallimento, incubo dei tempi moderni, si inserisce in maniera decisa nella nuova economia dei mercati, investe fasce lavorative in precedenza escluse dal fenomeno ma ora coinvolte alla pari della classica vittima capitalistica: la classe operaia.
La quotidianità del fallimento segue pari passo quella del rischio, attraversa vite e famiglie con una rapidità tale da concedere poche occasioni di riflessione e di valutazione delle cause. L’élite dominante, che sbanca sempre più il mercato, stravolge equilibri e scrolla da sé le responsabilità, addossando le colpe a un vacuo sistema considerato necessariamente atavico ai tempi moderni.
L’ultimo esempio presentato nel libro è quello di un gruppo di ex programmatori della IBM che, vittime del downsizing, si ritrovano senza lavoro pur essendo dotati di competenze tecniche di rilievo, pur essendo borghesi e professionisti. Questi lavoratori non mancano di incontrarsi e di darsi delle spiegazioni sulle cause del proprio fallimento, di come reagire. Una delle cause, non l’unica certamente, è stata quella che oggi si definisce outsourcing, l’affidamento all’esterno, in special modo a paesi stranieri con basso costo di manodopera, quelle stesse mansioni svolte dai lavoratori locali a oneri più elevati. Cambia la terminologia e si ammanta di affascinanti parole straniere che indorano pratiche spiacevoli e, soprattutto, nella sostanza, identiche a quelle di un tempo, quando si preferiva il proletario disponibile al salario più basso.
Dal punto di vista imprenditoriale tale fallimento viene visto in termini negativi, addossando la responsabilità per intero ai dipendenti, i quali non hanno affrontato in maniera adeguata la soluzione del rischio e la loro avidità è risultata fatale.
I dipendenti licenziati, nelle loro continue riunioni, hanno preso pian piano coscienza del proprio fallimento, riuscendo a eliminare qualsiasi pudore ma accettando, con rilevante passività, anche il fatto di esser superati in un’economia vorace che considera obsoleti i cinquantenni e verso la quale forse non è più neanche il caso di resistere. Difficile per loro individuare il vero motivo del fallimento e il modo più opportuno per reagire; importante è sicuramente recuperare il senso di comunità, così duramente messo alla prova dalla nuova economia, riscattando i rapporti personali, l’aspetto sociale dei luoghi e la condivisione delle esperienze, del “noi”, sedimentandone l’aspetto difensivo. Del resto la stessa delocalizzazione aziendale non può essere perseguita all’estremo, in luoghi e città dalle diverse istituzioni e strutture; la stessa comunità originaria reclama la paternità aziendale e, per giovare dell’aspetto economico, è ben disposta a concessioni. <
L’attacco allo Stato sociale, da parte della nuova economia, punta a innescare una concezione vergognosa e disonorevole del rapporto di dipendenza, di bisogno reciproco, anche a livello gerarchico, sopprimendo quel sano vincolo di cooperazione, di solidarietà interpersonale e di fiducia reciproca. Tutto ciò si sostituisce con un costrutto del tipo “nella crisi ci stiamo tutti dando da fare, ma d’altro canto, se non badi da solo a quello che fai, noi ce la caveremo senza di te.”
Indifferenza, diffidenza, smembramento delle relazioni personali, repressione del dissenso, queste le caratteristiche del nuovo capitalismo individuate nell’analisi di Sennett. Le sue affermazioni sono intrise di profondo realismo che sfocia, a volte, in intimo pessimismo riguardo l’impossibilità di scavalcare la situazione attuale; eppure, proprio nell’individuare gli sconquassi prodotti dalla nuova economia nella sfera personale e psicologica, intravede la possibilità di salvezza e conclude << Il “noi” è un pronome pericoloso anche per quanti si trovano a proprio agio nel disordine imprenditoriale, ma temono il confronto con forze organizzate… un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni agli altri non può mantenere per molto tempo la propria legittimità. >>