L’arte dello swapping
di Andrea Bertaglio - 14/01/2010
Dopo aver parlato di Natale e dei consumi che questa ricorrenza prova sempre ad aumentare, è ora il momento di fare i conti con tutto ciò che si è speso (in cibo, regali, vacanze) e con tutto ciò che si è ricevuto ma che, in molti, troppi casi, non si aveva nessun desiderio di avere, o di cui non si aveva alcun bisogno.
Che fare, arrivati a gennaio, se la nostra casa ed il nostro guardaroba sono stracolmi di merci che nemmeno toccheremo nei prossimi anni? Cosa possiamo farne di tutta questa roba, se non buttarla via, quando anche quest’anno non siamo riusciti a convincere gran parte di parenti e amici a non farci regali che non ci servivano? E quale alternativa ci può essere alle emergenze rifiuti che ne potrebbero conseguire?
La risposta più immediata, oltre al loro dono a chi li può apprezzare maggiormente o a chi ne può avere più bisogno di noi, sta nello scambio di tutti questi oggetti con altri che possano avere un uso (ed un senso) maggiore nelle nostre case. Per chi ha deciso di scambiare, piuttosto che spendere, oggi c’è infatti lo swapping, ossia lo scambio (o baratto, se si preferisce), nuova tendenza ecosostenibile che probabilmente maschera anche la necessità di sempre più persone di trovare metodi (e praticare stili di vita) che non le “impoveriscano” già entro la terza settimana del mese.
Precedentemente limitato al solo mondo degli accessori e dell’abbigliamento, lo swapping ha contagiato molti altri contesti, dai viaggi ai regali, ha portato allo scambio delle case durante le vacanze o, addirittura, allo scambio di debiti con beni fra alcune aziende.
Anche con l’evento “Regali senza moneta”, svoltosi a Torino il 10 gennaio scorso ed organizzato dall’Associazione Manamanà, si è celebrata (nella scia della “frenesia da regalo” natalizia) la rinascita anche nel nostro Paese di questo tipo di pratica. Come? Chiedendo a tutti coloro che avevano ricevuto un regalo indesiderato (quelli, per intenderci, che provocano enormi sorrisi di plastica, nonché imbarazzi, ogni volta che li si riceve) di portarlo ed eventualmente scambiarlo con chi, apprezzando il nostro “riciclone”, potesse dare in cambio qualcosa più di nostro gradimento.
Precedentemente limitato al solo mondo degli accessori e dell’abbigliamento, lo swapping ha contagiato molti altri contesti
Nello swapping c’è da vedere non tanto il desiderio di lasciare da parte l’acquisto compulsivo, l’accumulazione e lo spreco di merci, quanto il primo passo verso una presa di coscienza di massa. Nella voglia di baratto si inizia ad intravedere quanto sia noioso, alla fine, riversarsi a fare acquisti nei tempi, nei modi e nei luoghi (o non-luoghi, come nel caso dei centri commerciali) prestabiliti.
Con lo scambio dei propri oggetti, delle proprie conoscenze e delle proprie competenze, la voglia di un ritorno alla socialità, al risparmio ed alla solidarietà si fa sempre più largo nell’immaginario collettivo. Del resto, vista la situazione, è più che mai necessario provare a reagire, prima che sia troppo tardi. Troppo tardi per noi, non per il pianeta.
Certo questo fenomeno può sembrare solo un passo indietro, piuttosto che un vero cambiamento. E forse è così, se si pensa che il baratto ha spianato a suo tempo la strada alla creazione della stessa moneta.
Lo swapping può anche essere visto come un rigurgito anti-consumistico
Arcipelago Scec, Transition Towns, negozi Kostnix, Banche del tempo… potremmo andare avanti un bel po’ elencando realtà che si sono iniziate a muovere in direzione di una società, e di una vita, non basate totalmente e necessariamente sul denaro. Esperienze dai risultati spesso inattesi che, seppure a volte con piccoli dettagli che le differenziano, sono realmente fra le principali forme di reazione ad un sistema esasperatamente consumista. Ed i primi forti sintomi di bisogno di indipendenza, a volte anche solo di pensiero.
La massimizzazione dei profitti continua e continuerà a caratterizzare gran parte delle menti e delle nostre economie, ma ci sono sempre più persone che, spesso obbligate dalle “avverse” circostanze del momento, si sono rese conto che, alla fin fine, non è necessariamente il denaro a fare la felicità, né a fornire ciò di cui si ha bisogno. Nemmeno a livello materiale.