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Con i soldi di papà i ragazzi degli anni ‘60 hanno inventato la controcultura giovanile

di Francesco Lamendola - 15/01/2010

I sociologi, questi signori che si vantano di aver costruito una scienza sulle sabbie mobili dei comportamenti collettivi (non di rado per manipolarli meglio, al servizio del padrone di turno), si affannano da tempo a stabilire una linea di demarcazione fra i concetti di subcultura e di controcultura.
In genere, per subcultura essi intendono un insieme di valori, di modelli di comportamento e di linguaggi che vengono elaborati da una parte della società, come una classe sociale, un gruppo giovanile, un gruppo etnico, una comunità deviante. Se, poi, una subcultura assume le caratteristiche di un modello sociale che si presenta come nettamente alternativo rispetto alla cultura dominante, si può parlare di controcultura.
Stabilita questa definizione, non si può fare a meno di domandarsi se la subcultura giovanile degli anni Sessanta e Settanta del secolo da poco trascorso sia stata una controcultura: domanda importante per chi voglia capire qualcosa della nostra storia recente e, indirettamente, anche della nostra realtà attuale.
Innanzitutto, non si può fare a meno di osservare che esiste una visione mitica di quel fenomeno storico, che rende difficile parlarne e analizzarlo serenamente.
In primo luogo, per ragioni contingenti: la maggior parte degli intellettuali affermati, in Italia (dove vige una feroce gerontocrazia), hanno più di cinquant’anni; quindi, all’epoca del fenomeno studiato, erano giovani, e da giovani l’hanno vissuto, se non come protagonisti, certo come testimoni non indifferenti. Per essi, quindi, è quasi impossibile valutarlo, a posteriori, con il necessario distacco: a molti di loro sembrerebbe quasi di tradire la propria giovinezza.
In secondo luogo, per ragioni ideologiche: quella è stata la prima (ed unica) volta in cui i giovani, in quanto tali, hanno fatto la voce grossa e hanno posto il problema generazionale come luogo di uno scontro inevitabile e irriducibile tra il vecchio e il nuovo: laddove il nuovo era, per forza di cose, anche il giusto che andava instaurato, mentre il vecchio era l’ingiusto che bisognava abbattere. Tutto ciò, in omaggio a una visione progressiva della storia: e a chi piace l’idea di vedersi affibbiare l’etichetta di nemico del progresso?
In terzo luogo, per ragioni storiche. L’Italia moderna è il Paese del passato che non passa: il Paese, cioè, dove, sia pure confondendo ogni volta le acque (secondo il motto del principe di Salina de «Il Gattopardo»: “bisogna che tutto cambi, affinché tutto resti come prima”), antichi centri di potere occulto, largamente collusi con società segrete e malavita organizzata, sono riusciti a conservare ininterrottamente la gestione del potere, cultura compresa. Ad essi può far comodo avvalorare il mito della controcultura giovanile degli anni Sessanta e Settanta, appunto per offrire un innocuo rifugio sentimentale a quanti avvertono un certo malessere per il fatto di dover vivere in una società dominata ininterrottamente da loro e dai loro «uomini di paglia».
Ciò premesso, cerchiamo di affrontare in maniera distaccata la questione che ci eravamo posta; se, cioè, la subcultura giovanile di quegli anni (ma forse sarebbe meglio dire: le subculture, al plurale, perché Pasolini farebbe notare che altra era la subcultura dei borgatari romani, altra quella dei pariolini romani o dei sanbabilini milanesi) sia stata effettivamente una controcultura.
Non è, lo ripetiamo, una questione di lana caprina o una curiosità puramente accademica: ne va della comprensione della nostra storia e del nostro stesso presente.
Cominciamo col dare la parola alla visione “classica” del problema, ad esempio per bocca di un manuale di scienze umane tra i più recenti (Luigi D’Isa e Franca Foschini, «I percorsi della mente. Elementi di psicologia, sociologia e statistica», Milano, Hoepli, 2008, p. 450):

«Una controcultura è un insieme di valori, modelli di comportamento e linguaggi che si contrappone in modo radicale alla cultura dominante in una certa società.
Sono state controculture i movimenti giovanili che si sono sviluppati negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Alla fine degli anni Sessanta, prima negli Stati Uniti e successivamente in Europa, si afferma un radicale movimento di contestazione di tutte le istituzioni tipiche della cosiddetta “civiltà del benessere”. Sono fortemente avversate le guerre, portatrici degli interessi imperialistici dei ceti dominanti, e la contestazione si rivolge anche ala scuola, accusata di perpetuare una società disuguale, anziché essere uno strumento di emancipazione per le classi subalterne. Anche la famiglia è vista come uno strumento di oppressione che perpetua un’ingiusta divisione di ruoli in cui le donne sono sottoposte agli uomini. Per i contestatori la famiglia forma individui conformisti, pronti a adeguarsi allo stile di vita richiesto dai ceti dominanti.
La contestazione colpisce quasi tutte le organizzazioni e le istituzioni, dalla tecnologia al’industria, dalla religione ai partiti politici. Una certa quota della popolazione giovanile degli anni Settanta attua uno stile di vita che comporta continui spostamenti, si abbiglia in modo pittoresco, pratica una sessualità libera da vincoli e fa uso di sostanze stupefacenti.
Una variante di tale controcultura è il movimento “hippie” che, pur partecipando ai gruppi contrari alle guerre, assume meno il carattere di contestazione politica e si propone soprattutto come stile di vita contrapposto ai valori della società occidentale dell’epoca (per cui conta il successo, la produttività nel lavoro, le restrizioni sessuali, le differenze tra gruppi etnici e tra i sessi ecc.).
I valori espressi dalle controculture sono spesso combattuti aspramente dai ceti dominanti ma, in certi casi, alcuni aspetti finiscono per essere assorbiti. Per esempio, oggi molti giovani godono di una maggiore libertà sessuale rispetto al passato e nessuno si scandalizza se si vestono in modo pittoresco o sono appassionati di quella musica rock e beat, assai diffusa negli anni Sessanta e Settanta.
Molte persone che in gioventù hanno fatto parte di  queste controculture hanno abbandonate tali valori e si sono integrate nei valori della società dominante. Va detto, tuttavia, che molti elementi di questi movimenti giovanili sono diventati aspetti importanti di movimenti sociali e culturali successivi. Per esempio, la spinta per una completa parità tra i sessi è stata accolta dai movimenti femministi per l’emancipazione della donna, così può dirsi per i movimenti per la difesa dell’ambiente che hanno ripreso le critiche rivolte alla tecnologia e allo sviluppo industriale senza limiti, già in parte presenti in tali controculture.»

Da questo quadretto, tutto sommato rasserenante e positivo della controcultura giovanile degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo (e non privo di inesattezze: la contestazione americana esplode non “alla fine degli anni Sessanta”, ma nel 1964, con gli scontri all’Università di Berkeley), rimangono fuori, ahimé, due aspetti a nostro giudizio assolutamente decisivi, senza considerare i quali la visione d’insieme di quel fenomeno e la valutazione storica che se ne voglia dare, risultano gravemente deformati.
Primo: non vi sarebbe stata alcuna controcultura giovanile se nelle tasche dei giovani, a partire da quegli anni, non fossero arrivati i soldi di papà: soldi per comprarsi vestiti «da giovani» (cosa che prima non esisteva), per andare al cinema; per frequentare locali da ballo a pagamento (altra cosa che prima non esisteva); per acquistare dischi; per viaggiare in motorino e perfino in automobile, ma senza i genitori e, in genere, gli adulti.
L’industria consumistica si è immediatamente impossessata di quella situazione ed ha trasformato in occasione di mercato la nuova tendenza giovanilistica. Se, ad esempio, nell’Italia degli anni Cinquanta, nonostante il “boom” economico, era una cosa assolutamente normale che i figli indossassero le giacche e i cappotti dismessi dai loro genitori, negli anni Sessanta la cosa divenne improvvisamente intollerabile: i giovani dovevano vestire da giovani.
Dietro il pretesto della contestazione, quindi (il non voler vestire “da vecchio” per esplicitare il rifiuto della cultura dei genitori) fin da subito fece capolino la furberia consumistica dell’industria e la dabbenaggine, a dire poco, dei giovani contestatori, che non si accorsero di cadere schiavi di una cultura molto più totalitaria di quella familiare.
Da lì alle aberrazioni del vestito firmato, dello zaino scolastico firmato, o, per le ragazze, della borsa firmata da cinquecento e magari mille euro, che oggi stanno diventando d’obbligo fra i giovani di qualunque ceto sociale (ovviamente, con un carico di sacrifici economici ben diverso, a seconda dei casi: ma sempre a spese di papà e mamma), il passo è stato non breve in termini cronologici, ma brevissimo in termini di atteggiamento mentale delle masse giovanili: si può dire tranquillamente che tali esiti erano impliciti nelle premesse.
Secondo aspetto su cui occorrerebbe svolgere una onesta riflessione: i giovani che furono protagonisti di quel fenomeno, una volta divenuti quarantenni e cinquantenni, si sono quasi tutti integrati beatamente nell’odiato ordine borghese che a suo tempo volevano distruggere, ma con cattiva coscienza e segreti rimpianti (più che rimorsi), al punto da creare essi per primi la mitizzazione degli anni Sessanta e Settanta.
Divenuti manager di successo, palazzinari d’assalto e rampanti assessori e politici dei partiti di governo, gli ex ragazzi di quella generazione non hanno avuto l’onestà intellettuale di riconoscere la miseria del loro opportunismo e, probabilmente, la fragilità delle loro idee di un tempo. Ed è così che hanno costruito un mausoleo alla controcultura giovanile, dove bisogna entrare a piedi scalzi, come in un luogo sacro, e adorare incondizionatamente i loro vecchi slogan e i loro vecchi idoli: dai «Beatles» all’LSD, dalle comuni hippies al rifiuto della guerra nel Vietnam (anche se ora approvano senza problemi la guerra in Afghanistan).
Certo, ci vuole coraggio per riconoscere francamente la bancarotta dei propri ideali di un tempo; ma, soprattutto, ci vuole coraggio ad ammettere che si è sognato un mondo radicalmente nuovo con i soldini di papà in tasca, e utilizzando gli strumenti ideologici gentilmente imprestati dal potere dominante. Un tipico esempio di questa strumentalizzazione, che non oseremmo dire del tutto inconsapevole, è la produzione di film sulla contestazione studentesca come «Fragole e sangue» di Stuart Hagmann, del 1970 (con l’immancabile Israel Horowitz nel doppio ruolo di sceneggiatore e di attore), nei quali la borghesia industriale finanzia un discorso contro se stessa, pur di ricavarne degli utili: certa che, a lungo andare - e i fatti le hanno dato ragione - la carica eversiva di quel discorso si sarebbe spenta e i giovani, dimentichi della rivoluzione, sarebbero felicemente passati ad altre mode.
Quel che vogliamo dire non è soltanto che aveva ragione Pasolini allorché, dopo la battaglia di Valle Giulia, diceva di sentirsi dalla parte dei poliziotti e non degli studenti, perché i primi erano figli di contadini e i secondi erano figli di papà; questo sarebbe semplicistico, dato che le forze repressive sono sempre state arruolate, da che mondo è mondo, fra il proletariato, il che non cambia il fatto che esse siano al servizio dei poteri forti e non della povera gente.
Vogliamo anche dire che molte delle esigenze della controcultura giovanile erano reali, e non semplicemente create dalla pubblicità e dall’industria; ma che il modo in cui i giovani ne presero consapevolezza era viziato, sin dall’inizio, da una gravissima ambiguità di fondo: perché non è serio un movimento di contestazione che nasce con i soldi di papà.
In precedenza, il giovane proletario che riusciva ad andare alle scuole superiori, e magari all’università, consapevole degli enormi sacrifici fatti dalla sua famiglia, badava a studiare e a non sprecare nulla: il che non gli impediva affatto, se era un giovane intelligente e sensibile, di prendere consapevolezza delle ingiustizie sociali e delle storture della cultura borghese; anzi, proprio la scuola dei sacrifici gli insegnava a vedere con chiarezza tali aspetti.
Ma poi, con le tasche ben fornite di denaro dai padri che volevano rifarsi, attraverso i figli, delle strettezze patite in gioventù (pessima pedagogia), una nuova generazione di giovani ha trovato che fosse un gioco divertente quello di recitare il ruolo degli scontenti, degli sfruttati, e quindi dei ribelli, prendendosela proprio con quei genitori che li rifornivano del superfluo e li abituavano a prendere gli impegni della vita con poca serietà.
È emblematico, al riguardo, il caso degli studenti pigri, bocciati e fuori corso, che, non dovendo andare a lavorare per mantenersi nell’ozio, avevano scoperto che giocare alla rivoluzione era un ottimo antidoto alla noia e che, per giunta, forniva loro il necessario alibi ideologico: perché, infatti, bisognava studiare nei licei e nelle università dei padri-padroni, visto che diplomi e lauree erano solo il sigillo della aborrita schiavitù di classe?
Finalmente possiamo tentare di avvicinarci a una risposta alla nostra domanda iniziale: se, cioè, la controcultura giovanile degli anni Sessanta e Settanta sia stata veramente una controcultura. E ci sembra di poter rispondere in maniera negativa, dal momento che una controcultura contesta radicalmente la cultura dominante, e non accetta di essere finanziata, sponsorizzata, corteggiata e vezzeggiata - come invece è accaduto allora - proprio da parte dei poteri dominanti.
Si obietterà che anche Lenin, probabilmente, ha accettato l’oro del kaiser Guglielmo II, quando è rientrato in Russia, nell’aprile del 1917, sul famoso «vagone piombato» messo a sua disposizione dal governo tedesco (formalmente in guerra con la Russia). I seguaci di Lenin, e gli storici di tendenza marxista, hanno sempre giustificato tale gesto, sostenendo - con Machiavelli - che, in politica, il fine giustifica i mezzi; e che un rivoluzionario può prendere i soldi anche dal Diavolo, quel che importa è che egli li utilizzi per la propria causa, che è quella della costruzione del «mondo nuovo». Purtroppo, non si accorgono che i mezzi non sono indifferenti rispetto al fine, e proprio il caso dell’universo concentrazionario sovietico sta lì a dimostrarlo con una chiarezza ed una evidenza addirittura imbarazzanti.
Allo stesso modo, non crediamo ci si dovrebbe stupire per il fatto che tante figure di spicco della controcultura giovanile siano poi passate, armi e bagagli, nel campo nemico, ossia dell’odiata borghesia, ove hanno fatto brillanti carriere e hanno conquistato poltrone che non mollerebbero per nulla al mondo. Una tale nemesi era inscritta già nelle origini del movimento: nella cattiva coscienza di numerosi figli di papà che giocavano alla rivoluzione, mandando allo sbaraglio tanti loro coetanei più ingenui e, in genere, più squattrinati  (e quindi arrabbiati per davvero e non per finta, come loro).
Certo, non erano tutti così. Alcuni erano realmente degli idealisti (di sinistra o di destra, questo poco importa ai fini del nostro ragionamento); ma il punto non è questo. Quando una intera generazione pecca di ingenuità, pur disponendo di tutti gli strumenti cultuali per comprendere come stiano realmente le cose, allora vuol dire che essa merita, complessivamente parlando, di finire come è finita la generazione del ’68: o integrata, o svuotata e fallita.
Inoltre, lo ribadiamo, molte delle esigenze e delle proteste di quella generazione erano giuste, perfino sacrosante. Ma essa cadde nella logica pseudo-rivoluzionaria del «tutto e subito» e dimenticò che ogni vero cambiamento sociale parte dalla persona, non dal numero e dalla massa; e meno ancora lo si può realizzare prendendo le scorciatoie, solo apparentemente lontanissime fra loro, della droga o del terrorismo. Così come la droga non risolve i problemi dell’individuo, ma anzi li aggrava enormemente, allo stesso modo il terrorismo non risolve i problemi sociali e non innesca alcuna rivoluzione, ma ancora e sempre reazione.
Possibile che quei giovani, che dopotutto erano studenti liceali o universitari e non figli di contadini o di operai senza uno straccio di diploma, avessero studiato la storia così poco e così male, da non averlo ancora compreso?