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Possiamo davvero investigare il fatto religioso con gli strumenti dell’analisi economica?

di Pietro Barcellona - 15/01/2010

 
 

Sul Corriere di martedì 12 gennaio la pagina della cultura è molto ampia. “Le fedi come le aziende aspirano al monopolio” è il titolo di una lunga recensione dell’ex direttore, e storico, Paolo Mieli all’ultimo libro di Philippe Simonnot, giornalista ed economista francese, autore di Il mercato di Dio. La matrice economica di ebraismo, cristianesimo, islam. La religione? «Un’“azienda” - spiega Mieli illustrando Simonnot - che offre beni di credenza, la cui qualità si basa sulla fiducia riposta in chi li produce dal momento che il risultato della pratica religiosa - cioè la salvezza eterna - non è, per sua natura, né verificabile né falsificabile». Le fedi, dunque, si contendono i credenti sul “mercato”. Chiesa cattolica compresa. E aspirano al monopolio, cioè ad essere le uniche sulla piazza. Un momento però. Simonnot lo dice: non si tratta di voler spiegare la religione con l’economia, ma, «più modestamente, di mettere a disposizione della scienza religiosa gli strumenti dell’analisi economica». Ma è una tesi che non convince del tutto Pietro Barcellona, filosofo del diritto.

Possiamo davvero investigare il fatto religioso con gli strumenti dell’analisi economica?

No, perché questi strumenti mi paiono davvero fuori luogo. Una ventina d’anni fa dall’America arrivò questa novità: invece di studiare le norme e il loro significato, la ratio, la funzione, il rapporto con l’idea - più o meno definibile - di una giustizia, bisognava valutare gli effetti dell’applicazione delle norme sulla vita economica delle imprese. Conviene di più, per intenderci, iniziare un procedimento giudiziario contro un debitore inadempiente, o fare una transazione e accontentarsi della metà dei soldi dovuti?

E dunque?

La cosa che subito mi colpì era che il diritto perdeva ogni significato, perché veniva trattato al pari di un qualsiasi ostacolo si incontri lungo un percorso che, partendo da una premessa, vuole raggiungere un risultato misurabile in termini di convenienza.

Qui la vittima designata non è più il diritto, ma la fede. Nella quale l’uomo impegna non solo il portafogli, ma la vita tutta. Ammesso beninteso che faccia sul serio.

Al di là delle tesi di Philippe Simonnot, quello che viene occultato è che le cose si mostrano nel modo in cui noi abbiamo deciso di osservarle. Ma le coordinate dell’analisi economica sono quelle di Adam Smith. Tanto è vero che Paolo Mieli, in questo articolo-manifesto…

Perché manifesto?


Ma perché è impressionante lo spazio che ha avuto sul Corriere. Mi pare che il discorso si possa inquadrare in una direzione ben precisa che ha assunto la divulgazione culturale non solo sul Corriere, ma anche su Repubblica. Quella che pretende di eliminare tutto ciò che non si spiega in termini di scientismo empiricamente verificabile. Direi un’eliminazione sistematica di tutto ciò che rimanda a giudizi di valore.

Le fedi come le aziende aspirano al monopolio. Ma il monopolio non fa felice nessuno, perchè frena lo sviluppo. Meglio dunque la frammentazione e il politeismo laico?

Una visione così apparentemente oggettiva elimina tutto ciò che è concretamente riferibile all’esperienza della bellezza, del bene e dei valori. È la soppressione dello specifico dell’umano: la psiche, l’anima, i pensieri, l’aspirazione a qualcosa che trascende l’apparenza. Ridurre l’oggettività all’economia è un altro dei tanti modi possibili per togliere di mezzo il vero “codice” di tutta la civiltà occidentale.

Lei parla evidentemente di un concetto inadeguato di ragione. Qual è quello giusto?

L’uomo oggi non ha bisogno soltanto di un concetto più adeguato di ragione, ma di ricollocare se stesso nella complessità del mondo, che è irriducibile ad una unità semplificata, ad un concetto semplice o a una definizione. Ha smarrito il fatto che la ragione stessa è complessa e non è una sola. C’è una ragione comunicativa e una calcolante. C’è la sapienza degli antichi, la ragionevolezza dei greci, la scienza dei moderni. L’uomo non ha solo un metodo per sapere come sono le cose che gli stanno di fronte. Ecco perché oggi il termine unico di ragione può apparire improvvisamente riduttivo.

Ma queste diverse forme della ragione trovano una sintesi nella vita o no?

Ma certo, perché se questo non accade la persona scompare. Anzi, sappiamo bene dove va: in manicomio. Si scinde, ha come esito la frammentazione. A livello individuale e politico. A livello individuale si impoverisce lo spazio interno, proprio dove normalmente si ritrovano le coerenze tra le diverse forme della propria esistenza. È il mio io interno che dal punto di vista della mia autorappresentazione mi dà il senso di me, la coscienza di essere un’identità non riducibile a tutto ciò che è fuori di me. Se il rapporto esterno-interno si distrugge, la conseguenza inevitabile è quella di un comportamento robotico o animale, cioè prevalentemente meccanico.

E cos’è che va perduto?

Ne va della nostra vita. La memoria umana, che è elaborazione e continuità, è ciò che ci permette di mantenere l’unità contro la disintegrazione esterna, e con essa l’unità del giudizio e della domanda di senso, perché la domanda di senso della vita non è dei vari momenti ma unitaria. Se sono al mondo ci sono per qualcosa che riguarda tutto me stesso e non solo una parte di me.

Ha parlato anche di una frammentazione politica. In che senso?

L’effetto della disintegrazione molecolare dell’identità della persona è ancor più disastroso dal punto di vista politico perchè distrugge lo spazio sociale, che non può essere frutto solo dell’individuo come di un suo parto originario, ma è il risultato di uno stare insieme che elabora collettivamente le esperienze comuni. Perché mai come oggi si parla di bene comune senza sapere da dove cominciare? Perché lo stare insieme non è più visto come originario. Invece tutto quello che gli uomini fanno è individuale e collettivo allo stesso tempo.

Lei non intende entrare nel supermercato delle fedi e lo abbiamo capito. Ma qual è la sua posizione personale?

Sono convinto che il concetto di creazione sia indispensabile per concepire la mia stessa libertà. Se invece sono il frutto di un’evoluzione meccanica o di una pura casualità, non mi posso pensare come un essere che decide tra bene e male, o anche solo tra un’opzione e un’altra. Se questa creazione l’ha fatta il Dio del monoteismo cristiano o un’altra entità che non riusciamo a definire, non sono in grado di dirlo. Comunque l’ho detto più volte: quello che mi colpisce di più della religione cristiana non è tanto l’idea di Dio, ma la figura di Cristo.

Perché?

La persona di Cristo è un fatto specifico, un incontro tra l’umano e il divino che non si è mai osato concepire nelle forme in cui è accaduto. La sua croce è un segno inesplicabile. E uno scacco per la ragione umana.

Quali rischi si corrono se a prevalere è una visione utilitaristica?


L’individualismo per come si sta manifestando provocherà un disastro. Gli uomini non possono essere ridotti a terminali di un apparato di consumo.

Ora ce l’ha col benessere?

Ogni volta mi si accusa di essere reazionario perché dico che il benessere è una cosa illusoria. Ma qui non si tratta di fare l’apologia della miseria, ma di chiamare le cose col loro nome. C’è un benessere come forma di vita sociale in cui il godimento delle cose è sacrosanto ma non corrisponde alla ricerca immediata della soddisfazione per ogni bisogno che nasce e alla conseguente, puntuale, nausea della vita. Ecco perché il benessere attuale è nichilista. Oggi non abbiamo un’economia della crescita ma della distruzione, e chi lo dice vene cacciato via, sia da destra che da sinistra.

Perché dice da destra e da sinistra?

Perché la sinistra non ha il coraggio di affermare che il problema della difesa del lavoro implica anche una modificazione profonda del tipo di consumo, in cui la soddisfazione dei bisogni non va a discapito dell’ambiente. Mentre la destra liberista continua a difendere l’idea che più libertà di produrre e consumare c’è meglio si sta, ma è un’idea che è stata smentita dalla storia. Le grandi crisi economiche hanno distrutto una quantità enorme di ricchezza. Oggi ci troviamo nella necessità di affrontare con grande creatività e originalità il modo in cui gli uomini possono produrre, senza distruggere la terra che abitano. Il Papa lo sta facendo.

Che cosa serve per uscire dalla crisi morale nella quale ci troviamo?

Occorrono comportamenti che vadano in direzione opposta a quelli del conformismo generale. Non ci si può più affidare solo ad un discorso persuasivo. Ci vuole l’esempio di chi, di fronte alla realtà, è capace di far vedere che si può vivere in un altro modo. Lo dico ai credenti, che in questo sono più fortunati: ci vogliono le testimonianze dei santi e dei mistici.